Giovanni Pico della Mirandola è una di quelle figure del Rinascimento italiano che sembrano uscite da un romanzo d’avventura intellettuale: giovane, geniale, brillante fino all’eccesso, intraprendente, un po’ mistico e un po’ ribelle, amatissimo e temutissimo, capace di entusiasmare e scandalizzare più o meno chiunque. Nonostante sia morto a soli trentun anni, ha lasciato una traccia talmente vivida nella storia della cultura occidentale che ancora oggi la sua “Oratio de hominis dignitate” continua a essere citata come una specie di manifesto dell’essere umano libero, creativo, indecifrabile e irriducibile a schemi prefissati. È curioso pensare che tutto questo provenga da un ragazzo dell’Italia padana del Quattrocento, cresciuto tra castelli, monaci, manoscritti e maestri ebrei, arabi e latini, che a ventiquattro anni già si considerava – e veniva considerato – uno dei cervelli più scintillanti del continente.
La storia di Pico comincia nel 1463, nella Contea della Mirandola, un piccolo territorio tra Modena e Mantova. La sua famiglia era nobile, tra le più in vista della zona, e si occupò fin da subito di dare al giovane Giovanni un’educazione da signore del Rinascimento: tutor a volontà, libri ovunque, lingue a non finire. Pico imparò il latino con una velocità impressionante, per passare poi al greco, all’ebraico, all’arabo e persino al caldeo, questo perché voleva leggere ogni cosa nella sua lingua originale. A differenza di molti nobili del tempo, non si accontentò mai di ricevere un’istruzione elegante e superficiale: voleva tutto, e voleva capirlo nel dettaglio. A quattordici anni fu mandato a Bologna a studiare diritto canonico, disciplina prestigiosa, “seria”, adatta a un rampollo di una famiglia importante. Ma Pico si annoiò presto: troppo formale, troppo vincolata, troppo poco entusiasmante. Lui voleva decifrare il mondo, non imparare semplicemente come funziona.
Così cominciò un pellegrinaggio intellettuale che lo portò prima a Ferrara, poi a Padova, poi a Firenze e infine in giro per l’Europa. A Ferrara scoprì la filosofia neoplatonica e la musica come disciplina matematica dell’armonia del mondo; a Padova studiò Aristotele con i maestri averroisti; a Firenze incontrò Marsilio Ficino, che lo introdusse alla grande officina filosofica platonica che stava nascendo attorno ai Medici. La sua vita cominciava a intrecciarsi con quella della corte fiorentina, uno dei centri culturali più vivaci d’Europa, frequentato da letterati, filosofi, scienziati, sacerdoti e bizzarri personaggi dell’esoterismo ellenistico.
Uno degli aspetti più curiosi del giovane Pico è la sua fame vorace di conoscenza. Non esiste, nella sua breve vita, un solo ambito del sapere che non abbia tentato di esplorare: logica, teologia, astrologia, filosofia naturale, cabala ebraica, magia “naturale”, poesia latina, medicina, cosmologia, etica, politica. Sembra quasi che considerasse la mente umana un campo senza confini, un territorio inesauribile dove poter scavare senza trovare mai un limite. Questa visione non era semplicemente un tratto caratteriale, ma il nucleo stesso della sua concezione dell’uomo: per Pico, la grandezza dell’essere umano stava proprio nella sua indeterminatezza, nella capacità di trasformarsi, elevarsi, reinventarsi continuamente, a differenza degli animali o degli angeli, che sono ciò che sono e rimangono così per natura.
Il passo che lo rese celebre, e allo stesso tempo pericolosamente famoso, fu la sua idea di organizzare a Roma un gigantesco dibattito pubblico su novecento tesi filosofiche, teologiche e scientifiche che lui stesso aveva selezionato, e che secondo lui rappresentavano una sorta di sintesi universale del pensiero umano. Era convinto che la verità si rivelasse soltanto confrontando punti di vista diversi: aristotelici, platonici, cabalisti, stoici, mistici cristiani, commentatori arabi. Riunire tutto, armonizzare tutto, mostrare che da una pluralità di sistemi poteva nascere una visione più ampia. L’idea era straordinaria, ma anche temeraria: mai nessuno aveva tentato qualcosa di simile e soprattutto nessuno aveva osato sostenere pubblicamente che l’ebraismo cabalistico e la filosofia araba potessero parlare alla teologia cristiana su un piano di quasi-uguaglianza.
Le 900 tesi di Pico, stampate nel 1486, suscitarono scandalo immediato. Alcune frasi erano audaci, altre ambigue, altre ancora sembravano sfidare direttamente la dottrina ufficiale. I teologi romani le analizzarono e trovarono tredici proposizioni “eretiche” e molte altre “sospette”. Pico, che immaginava un dibattito brillante e al tempo stesso pacifico, si ritrovò invece coinvolto in una tempesta. Fu costretto a difendersi in lunghi processi e scrisse un’“Apologia” per spiegare le sue intenzioni. Ma la sua posizione rimaneva scomoda: troppo aperto verso le tradizioni ebraiche, troppo interessato alla magia naturale, troppo indipendente per un’epoca che cercava di controllare con rigore ogni speculazione teologica. Alla fine, dovette fuggire da Roma e passare un periodo difficile, durante il quale fu anche arrestato per ordine del papa, prima di essere liberato grazie all’intervento di Lorenzo il Magnifico.
È in questo periodo turbolento che Pico scrisse il suo testo più celebre, l’“Oratio de hominis dignitate”, un’opera che non poté pubblicare in vita ma che circolò ampiamente in manoscritto. L’“Oratio” è un inno alla libertà umana, un testo che esalta la capacità dell’uomo di non essere vincolato da una natura predeterminata, ma di potersi plasmare da sé, di elevarsi o di degradarsi secondo la propria volontà. L’immagine più famosa del testo è quella dell’uomo posto da Dio al centro dell’universo come una creatura senza forma definita, in grado di scegliere se vivere come un animale, come un angelo o come qualcosa di ancor più alto. Questa visione colpì profondamente i contemporanei e continua a colpire ancora oggi, perché mette al centro il potenziale umano, la possibilità di autodeterminazione e di crescita, idee che saranno poi reinterpretate nei secoli successivi.
Un altro lato affascinante di Pico è il suo interesse per la Cabala ebraica. Mentre molti studiosi cristiani vedevano l’ebraismo come una tradizione da superare, Pico considerava la Cabala una delle chiavi per comprendere i misteri del cristianesimo. Arrivò persino a sostenere che alcune verità cristiane erano anticipate nelle scritture ebraiche e nei loro commentari mistici, un’idea audace che gli attirò nuove critiche. Il suo rapporto con gli ebrei del tempo fu complesso: da un lato li stimava come custodi di una sapienza antica e profonda, dall’altro cercava di leggere le loro tradizioni in chiave cristiana, cosa che inevitabilmente creava tensioni. Ma ciò che colpisce è il suo desiderio di comprendere dall’interno ciò che era diverso, un atteggiamento raro e straordinario.
Non meno curiosa è la sua fascinazione per la magia naturale. Pico non era interessato alla magia intesa come superstizione o manipolazione, ma alla magia come scienza delle forze nascoste della natura, un modo per scoprire i legami invisibili tra le cose e comprendere l’ordine del mondo. Per lui la magia era una disciplina colta, degna di essere studiata con rigore, e associava questo interesse alla sua visione armonica dell’universo. Naturalmente, questa posizione alimentò nuove diffidenze: molti teologi vedevano la magia con sospetto, e Pico dovette difendere la propria concezione sostenendo che le sue ricerche non violavano alcuna legge divina.
Gli ultimi anni della sua vita furono più tranquilli ma anche più intensi spiritualmente. Tornò a Firenze sotto la protezione dei Medici e visse in stretto contatto con la cerchia intellettuale neoplatonica.
In questo periodo si avvicinò molto a un giovane frate domenicano: Girolamo Savonarola. È uno dei tratti più sorprendenti della sua biografia. Pico, che era stato un difensore della libertà intellettuale, dell’uso della ragione, del dialogo tra culture, rimase affascinato dal fervore religioso e dal rigore morale di Savonarola. Non abbracciò mai completamente la visione del frate, ma ne ammirava la forza e la capacità di scuotere la città. Il fatto che due personalità così diverse potessero trovare un punto di incontro è una testimonianza ulteriore della complessità del Rinascimento.
Pico morì improvvisamente nel 1494, a Firenze, probabilmente per una febbre improvvisa, anche se voci del tempo suggerivano un possibile avvelenamento. La sua morte fu un colpo per molti intellettuali, che vedevano in lui uno dei spiriti più brillanti della loro generazione. Fu sepolto nella basilica di San Marco a Firenze, proprio il luogo legato al suo amico Savonarola. Il fatto che uno studioso così aperto, curioso e universale venisse ricordato in un contesto religioso che sarebbe presto entrato in conflitto con parte del mondo culturale fiorentino è una delle tante contraddizioni della sua vita.
Il fascino moderno di Pico deriva non solo dalla sua erudizione, ma soprattutto dalla sua visione dell’uomo come creatura capace di crescita infinita. Nel suo modo di studiare, di discutere, di confrontare, si avverte un entusiasmo sincero, un desiderio di capire il mondo senza paura di inciampare. Curioso fino all’insaziabilità, poliglotta fino all’esasperazione, convinto che tutte le tradizioni potessero offrirci un pezzo di verità, Pico sembra incarnare l’idea stessa del Rinascimento: un’età di esplorazioni, di aperture, di fiducia nella mente umana.
Ma ciò che lo rende ancora oggi irresistibile non è solo il suo talento straordinario, quanto la sua capacità di pensare in modo integrale. Non separava mai religione e filosofia, né scienza e poesia, né logica e mistica. Credeva che l’essere umano fosse una costruzione complessa in cui tutte queste dimensioni si intrecciavano. È questo spirito che riemerge nella sua “Oratio”, quando parla dell’uomo come di un “camaleonte”, un essere che può assorbire tutto, comprendere tutto, reinventarsi continuamente. Pico non vedeva la conoscenza come un possesso statico, ma come un’avventura infinita, e forse è proprio questo che rende il suo pensiero così contagioso.
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