venerdì 28 febbraio 2014

12 anni schiavo. Steve McQueen e i polpacci di Fassbender

12 anni schiavo (12 years slave) è l’ultimo film di Steve McQueen, uscito in Italia lo scorso 20 febbraio.
Siamo negli Stati Uniti della metà del XIX secolo: Solomon Northup (interpretato da uno splendido Chiwetel Ejiofor), un nero libero, che vive con la famiglia nel Nord del Paese, viene rapito per essere fatto schiavo nel Sud, dove la schiavitù è legale. 
Come già per Hunger (del 2008, il primo lungometraggio di McQueen), 12 anni schiavo è ispirato a una storia vera, tratta dall’omonimo libro di Northup. Diversamente da Hunger prima e da Shame dopo (2011, il secondo lungometraggio) non è un film che racconta un’ossessione. 
Solomon, a cui verrà cambiato il nome in Platt, lavorerà in due piantagioni: la prima retta da un padrone relativamente liberale, William Ford (Benedict Cumberbatch), la seconda gestita dal re del male: Edwin Epps (Michael Fassbender).
Fassbender, ormai un habitué dei film di McQueen – e forse qui torna l’attenzione del regista per i comportamenti ossessivi – è feroce, completamente pazzo, alcolizzato e con perversioni sessuali al seguito. Violenza gratuita e abusi sono alla base della sua filosofia sociale, basata sulla Bibbia e sullasupremazia dell’uomo bianco. Invaghito di una delle sue schiave (Patsy, Lupita Nyong'o), le rende la vita un incubo: dallo stupro alle sevizie fisiche, il tutto inframezzato da carinerie morbose. 
12 anni schiavo è un film violento, di una violenza sottile e oppressiva, per niente splatter, che resta una costante per tutta la pellicola. Notevole la scena di Ejiofor che, appeso dopo un tentativo di impiccagione, per non soffocare si regge diverse ore sulle punte dei piedi, con gli altri schiavi, intorno, che continuano a lavorare.
Un cameo di Brad Pitt (che ha anche co-prodotto il film), nella parte di un costruttore nordamericano, idealista e generoso, chiude un cast fatto di ottimi attori.
Il film è stato criticato perché troppo “mainstream” e “strappalacrime” – sì, le strappa, la storia è straziante – rispetto ai lavori precedenti di McQueen: che il tema sia meno di “nicchia” o che il film possa essere visto da un pubblico più vasto di quello di Shame, ad esempio, è una realtà. Perché è più “facile” dei precedenti, in effetti. Ma non è un difetto.
Va detto, inoltre, che McQueen ha lavorato con un budget molto più consistente rispetto ai suoi precendenti lavori: per 12 anni schiavo sono stati spesi 20 milioni di dollari, per Shame 6,5, mentre perHunger solo 3,1. 
12 anni schiavo ha ben 9 nomination all’oscar: attore protagonista per Chiwetel Ejiofor, attore non protagonista per Fassbender, attrice non protagonista Lupita Nyong'o, miglior film, miglior regia, miglior montaggio, migliore scenografia, migliori costumi e migliore sceneggiatura non originale. Tra le altre cose, ha già vinto i Golden Globe e i Bafta awards.
Inutile soffermarsi più di tanto sulla storia o sulla critica (andate a vederlo, è bellissimo): meglio continuare a parlare di Michael Fassbender, che in questo film ci ha colpito per la perfetta armonia dei suoi polpacci. Dopo avercelo ridotto all’osso in Hunger, celebrato in armonie spartane in Shame, ora McQueen ce lo regala in camicione coloniale e pantaloni da lavoro. Ma grazie a dio ci mostra i polpacci.
Curiosità. Per chi si chiede perché il regista si chiama come il famoso attore americano – chi d’altronde non ha pensato, almeno una volta, se quando si parla dell’ultimo film di Steve Mcqueen non ci si riferisca alCacciatore di Taglie (1980)? - la risposta arriva da un’intervista rilasciata al Daily Mirror:
“Sono nato lo stesso anno dell’uscita di Bullitt, nel 1969. Allora i nomi dei bambini venivano indicati in fondo al letto e sulla mia culla c'era scritto "McQueen". Le infermiere passavano e chiedevano a mia madre: ‘Come sta Steve?’ Mia madre rispondeva: Non si chiama Steve, perché lo chiamate così?’. Alla fine ci si è abituata, perché suonava bene”.

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Spike

Spike








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Sicilia: la riviera dei Ciclopi



Tra i miti e le leggende più antichi della Sicilia quelli raccontati da Omero nell’Iliade e nell’Odissea, o quegli altri che ci tramanda Teocrito o quelli ancora raccolti da Publio Ovidio Nasone nelle sueMetamorfosi, poema epico-mitologico scritto qualche anno dopo la nascita di Cristo, ci danno molte spiegazioni con le quali la cultura greca prima e romana dopo definirono le credenze popolari e fantastiche. Raccontavano, forse da tempi immemorabili, storie e leggende della nostra Sicilia che diedero vita all’immaginario mondo della bellezza e hanno legato per sempre, fino ai nostri giorni, il passato e il futuro della Sicilia al sogno e alla follia.
Perciò la Sicilia è terra sognata e imprevedibile, difficilmente riducibile nei suoi confini meramente geografici. Qui i simboli valgono molto di più degli oggetti e delle cose reali. In questa terra, insieme di aggregati geologici provenienti dalle più diverse parti del Mediterraneo, arcipelago d’un tempo riunito in una sola isola, la metafora e il non detto valgono più delle cose troppo aderenti alla realtà e ai suoi fenomeni. La Sicilia, per sua natura è internazionale, formata da isole provenienti dall’Africa, dall’Europa mediterranea e dall’Oriente, e conquistata dai più svariati popoli. E’ perciò forte e mite come terra, dovunque diversa, quando la tocchi. La costa ionica che guarda verso la Grecia ci ha dato, così, le isole dei Ciclopi, i faraglioni di Aci Trezza, e i luoghi dei Malavoglia di Giovanni Verga. E’ proprio lungo questa costa di pietra lavica in cui predomina il nero che nascono nei millenni i miti e, in tempi a noi vicini, i racconti dello scrittore catanese.
Nel periodo in cui visse, tra il 48 a.C. e il 18 d.C., Ovidio descrisse il mito di Aci e di Galatea, il primo un pastore, l’altra una ninfa. Entrambi sono strettamente collegati dall’amore, la filigrana che unisce Galatea al suo giovane amante. Umile, agreste, ma bellissimo. Fino al punto da suscitare le ire di Polifemo, anche lui innamorato della ninfa, fino alla follia di eliminare il suo rivale schiacciando, con il lancio di enormi massi di lava, il giovane. Ma anche la morte ha la sua ricompensa e succede, così, che la ninfa ottiene da Giove di trasformare il sangue di Aci in un fiume di acqua viva dove lei può specchiarsi e immergersi. 
Questo mito, probabilmente, si può considerare all’origine della credenza di come i siciliani vivano visceralmente il senso dell’amore. Vi troviamo tutti gli ingredienti del merveilleux: Polifemo, emblema della violenza e della forza fisica, Aci, trasformato in un corso d’acqua, l’immersione della ninfa nelle acque invisibili che sgorgano nel mare azzurro e nero di rocce vulcaniche. Un amore che nasce e si esaurisce solo per caso in quel tratto di costa che guarda la Grecia.
Le variazioni nel tempo di questo mito sono costanti. Polifemo infatti si lega al lungo peregrinare di Ulisse e al suo ritorno in patria. La sua violenza e la sua forza smisurata non riesce a battere Ulisse che, dopo avere accecato il Ciclope grazie alla sua astuzia, scampa agli artigli della morte e naviga verso altri pericoli: la maga Circe, le tentazioni delle sirene, il mondo dell’oltretomba.
Ecco un mito e una leggenda di straordinaria ricchezza, un luogo di personaggi destinati a vivere per molto tempo e ancora oggi alla base di molte leggende siciliane.
Il mito che abbiamo descritto ha una sua identità territoriale quasi ultramillenaria nei comuni di Acireale, e nei suoi villaggi di Santa Maria la Scala, e di Aci Catena, di Aci Sant’Antonio, di Aci Castello e nel suo villaggio di Aci Trezza.

Foto: Gnucx/Flickr

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Giuseppe Casarrubea

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I veri obiettivi del Governo Renzi



È entrato in carica a partire dal 22 febbraio 2014 il Governo presieduto da Matteo Renzi, che segue i Governi Monti e Letta. Tutti e tre questi esecutivi sono stati imposti dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il pretesto per queste scelte è la crisi economica finanziaria che attanaglia il nostro paese.
Il Governo Monti ha causato un peggioramento netto della nostra economia ed è stato lo stesso Mario Monti ad ammetterlo in un’intervista alla CNN nel maggio del 2012 in cui ha dichiarato di aver distrutto la domanda interna.
Poi è seguito il Governo Letta che ha solo mantenuto lo status quo instaurato dal Governo Monti. Si è reso quindi necessario un cambiamento. Un nuovo governo scelto da Napolitano. Vale a dire il Governo Renzi che promette di cambiare registro.
Vediamo i punti del programma illustrato ieri da Renzi in Senato. Il nuovo presidente del Consiglio ha auspicato il raggiungimento degli Stati Uniti d’Europa per rendere anche l’Italia di nuovo competitiva sul piano internazionale. Infatti secondo Renzi l’unione fa la forza. Prima del semestre europeo di luglio in cui l’Italia sarà presidente di turno, Renzi ha richiamato la necessità di varare riforme in tema di fisco,lavoropubblica amministrazione, giustizia.
Renzi promette lo sblocco dei pagamenti alle imprese, l’accesso al credito delle piccole e medie imprese, la riduzione a doppia cifra del cuneo fiscale attraverso misure non legate esclusivamente alla revisione della spesa. In questo modo farebbe ripartire l’economia dando la possibilità di nuove assunzioni.
Ma a che prezzo tutto ciò? Il prezzo è il Jobs Actche Renzi promette di varare a marzo, che prevede ilcontratto di inserimento a tempo indeterminatoa tutele crescenti, facendo così credere che con meno diritti si assumerebbe di più. Perciò questa crisi artefatta, dopo aver distrutto la dignità degli italiani, tenta di renderli disposti ad accettare anche la perdita dei loro diritti pur di riavere un lavoro.
Sul versante delle riforme istituzionali e costituzionali Renzi ha dichiarato di aver raggiunto un accordo che va oltre la maggioranza e che riguarda tre punti: la legge elettorale (il cosiddetto Italicum), ilsuperamento del bicameralismo perfettoattraverso la trasformazione della Senato in un’Assemblea delle autonomie di secondo grado (con un ddl che sarà esaminato a marzo dal Senato), la revisione del titolo V ovvero delle ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni (con un ddl che sarà esaminato alla Camera).
Il Governo, inoltre, ha pronto un ddl per abolire le province prima delle elezioni di maggio. Questo significa, con la legge elettorale che prevede lo sbarramento all’8% per i partiti che si presentano da soli, l’esclusione dalla Camera dei Deputati, della maggior parte dei partiti italiani. Facendo diminuire la possibilità del confronto democratico.
Con l’abolizione del Senato si mira demagogicamente a dare ai costi della politica la colpa di una crisi creata ad arte per soggiogare i popoli. Si vuole creare un unico centro di potere, infatti Renzi vuole impedire il voto alle prossime provinciali di maggio facendo abolire le province, abolendo quindi le differenze territoriali.
Renzi ha promesso inoltre di revisionare il titolo V della Costituzione affermando che ci sono troppe divisioni territoriali che impediscono il funzionamento della macchina amministrativa. Ma il vero intento è quello dicreare un unico blocco di potere dove le minoranze e le rappresentanze territoriali non avranno più voce in capitolo. Quindi meno democrazia e meno diritti politici per i cittadini.
Abolendo il Senato e le Provincie si abolisce anche la storia del Paese. Il Governo Renzi vuole continuare con le privatizzazioni e favorire l’ingresso degli investimenti stranieri che tanto danno stanno portando alle nostre piccole e medie imprese che sono costrette a chiudere anche per la concorrenza delle multinazionali straniere. I cambiamenti in Italia con questo programma saranno solo apparenti perchè nella sostanza i cittadini italiani non avranno più voce in capitolo sulle decisioni delle istituzioni politiche che obbediscono a diktat provenienti dai centri di potere della finanza speculativa internazionale.

Foto: Wikimedia

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novaragiacomo











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Pompe di calore: come tagliare la bolletta con la nuova tariffa elettrica D1

Si tratta della tariffa D1, che verrà introdotta in via sperimentale, a partire dal 1° luglio 2014, e sarà usufruibile su base volontaria, da tutti i possessori di impianti di climatizzazione a pompa di calore, che abbiano in essere un contratto di fornitura elettrica sia nel libero mercato che di maggior tutela.
 A decretarlo la Delibera AEEG 607/2013/R/eel del 19 dicembre 2013, che darà la possibilità ai clienti domestici che utilizzano la pompa di calore come unico impianto di riscaldamento di diminuire i costi in bolletta, essendo la tariffa D1 una tariffa lineare e costante a prescindere dai consumi e quindi svincolata dal sistema tariffario a fasce che prevede prezzi crescenti in base al volume dell’energia consumata.
Un passo concreto verso una riforma del sistema tariffario che dica stop ad inefficienze e sussidi incrociati (deliberazione 204/2013) In altri termini la tariffa D1 rispecchierà i reali costi dei servizi di rete – trasporto, distribuzione e gestione del contatore – comportando un vantaggio economico agli utilizzatori domestici delle pompe di calore, elettrotecnologia che attualmente stenta ancora a diffondersi nonostante le sue enormi potenzialità in termini di efficienza energetica e di raggiungimento dei target europei previsti dalla Direttiva 2012/27/CE.
Soddisfazione da parte di Co.Aer, l’associazione nazionale che sostiene i produttori di tali apparecchiature.
Fa piacere ricevere ogni tanto una buona notizia - ha dichiarato Alessandro Riello, Presidente di Co.Aer - Abbiamo appreso con soddisfazione che l'AEEG (Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas), recependo le nostre istanze, ha ritenuto necessario rimuovere quegli ostacoli derivanti dall’attuale sistema tariffario elettrico a scaglioni di consumo con prezzi crescenti, che rende elevati i costi variabili delle pompe di calore e impedisce la diffusione di questa elettrotecnologia energeticamente efficiente. Finalmente alla tecnologia delle pompe di calore viene riconosciuto il contributo essenziale che può dare allo sviluppo delle energie rinnovabili e al raggiungimento degli obiettivi di efficienza energetica.
Tariffa D1: il risparmio in termini pratici
Secondo gli ultimi dati forniti dall’AEEG, un cliente domestico tipo, con consumi annui di circa 2.700 kWh (tariffa D2* o D3**), paga oggi per i servizi di rete (trasporto, distribuzione e gestione del contatore) una quota pari a circa il 35% della propria bolletta, percentuale che può però arrivare fino al 48% in caso di consumi più elevati, come nel caso delle pompe di calore.
Queste ultime infatti, malgrado il loro alto livello di efficienza energetica, portano a maggiori consumi e quindi ad un aumento della bolletta, contenibile per ora solo utilizzando un secondo contatore dedicato alle pompe di calore che opera sulla base della tariffa BTA***.
Dal prossimo luglio invece, grazie all’introduzione di questa nuova tariffa “cost-reflective” - non sussidiata e di tipo lineare (cioè indipendente dai consumi) - l’AEEG mira a rendere questa tecnologia ancor più competitiva anche sul fronte economico.


Fonte: www.assoelettrica.it

* Tariffa D2: utente domestico tipo - 20 c€/kWh per consumi inferiori a 3.000 kWh annui. Per consumi ‘aggiuntivi’ (5-6.000 kWh annui) derivanti dall’impiego di pompe di calore il costo marginale è dell’ordine dei 38 c€/kWh.
** Tariffa D3: applicata alle ‘seconde case’ e a consumi maggiori di 3.000 kWh annui.
*** Tariffa BTA: tariffa non domestica dedicata esclusivamente alle pompe di calore.
28-32 c€/kWh per consumi di circa 3.000 kWh/anno (i consumi ‘base’ sottostanno alle tariffe D2 o D3).
Ricordiamo tra l’altro che per coloro che decidessero di installare un impianto di climatizzazione con pompa di calore in sostituzione del loro vecchio impianto sarà possibile usufruire dell’Eco bonus per gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici, confermato nella misura del 65% per le spese sostenute fino al 31 dicembre 2014 (Legge di Stabilità 2014 - Legge 27 dicembre 2013, n. 147).
La detrazione sarà invece pari al 50% per le spese effettuate nel 2015. Dal 1°gennaio 2016 l’agevolazione sarà invece sostituita con la detrazione fiscale del 36% prevista per le spese relative alle ristrutturazioni edilizie.
La nuova Guida dell’Agenzia delle Entrate descrive nel dettaglio i vari tipi di intervento per i quali si può richiedere la detrazione (dall’Irpef e dall’Ires) e riassume gli adempimenti richiesti e le procedure da seguire per poterne usufruire.

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Orizzontenergia.it

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IperCoop Afragola (Na): accordo raggiunto. Ma a rimetterci sono i lavoratori

La vicenda dell’Ipercoop di Afragola sembra essere giunta ai titoli di coda il 23 dicembre con il raggiungimento dell’accordo tra le parti sociali. Ma siamo certi che si tratti di lieto fine?

I sindacati e le istituzioni regionali, con l’assessore al lavoro Nappi e il governatore Caldoro in testa, plaudono a un risultato definito “un regalo di Natale”. E in effetti, la salvaguardia dei livelli occupazionali in una terra impantanata tra disoccupazione, desertificazione industriale e lavoro nero è una buona cosa.
Ma come ci si è arrivati? E a che prezzo? Innanzitutto Unicoop Tirreno, gestore dell’ipermercato di Afragola, sarà affiancato da Unicoop Adriatica. L’ingresso della cooperativa emiliana darà vita a una NewCoche diverrà, tramite il fitto di ramo d’azienda, il nuovo gestore. L’ipermercato sarà ridimensionato (dagli attuali 10.000 mq si passerà a 4.200 mq) e conseguentemente sarà effettuata quella che – con linguaggio asettico – viene definita riorganizzazione della forza lavoro.

In sostanza, si tratta di passaggi da full-time a part-time, riduzione livelli di inquadramento, rinuncia da parte di tutti i dipendenti di Ipercoop Tirreno a importanti istituti contrattuali: tutto questo in cambio delritiro delle 250 lettere di messa in mobilità.
Situazione diversa per i lavoratori del punto vendita di Avellino, che invece per conservare il posto di lavoro saranno costretti a firmare contratti di solidarietà.
Insomma, a voler guardare dietro i fronzoli e le dichiarazioni trionfalistiche, ci pare che si sia fatto ricorso al solito ricatto: o accettate di lavorare a condizioni peggiori, rinunciando a quote di salario e diritti, oppure tutti a casa.
La ratifica dell’accordo è prevista per il 7 gennaio 2014, data in cui i lavoratori saranno invitati a firmare individualmente il contratto alle nuove condizioni.

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Clash City Workers

Clash City Workers





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Torre Annunziata (Na): si realizza un centro commerciale di 15.000 mq e si demolisce un’abitazione su 90 mq

Appello alle autorità competenti: fermatevi, non aggiungete errore ad errore! Bloccate gli abbattimenti di civili abitazioni e procuratene una alle famiglie che, nei giorni scorsi, oltre alla casa, hanno visto abbattere sogni e speranze.


Commento personale a margine dell’articolo di Ferruccio Fabrizio pubblicato sul settimanale L’Espresso il 10 gennaio 2014.

Nei giorni scorsi, nell’indifferenza generale, per disposizione della magistratura è stata demolita una palazzina di due piani, insistente su circa 90 metri quadrati, poco distante dal centro commerciale in costruzione a Torre Annunziata (Napoli), Via Settetermini/Via Andolfi; lo stesso mega-complesso di 15.000 metri quadrati di cui si è occupato l’Espresso il 10 gennaio 2014. Vige purtroppo la regola non scritta: due pesi, due misure ...

Una scena, quella della demolizione della casa su 90 mq di suolo, che richiama alla mente le immagini televisive della vergognosa, distruttiva guerra in Siria. A quanto pare si cerca di distrarre l’attenzione e confondere le idee nella zona circostante il nuovo centro commerciale di 15.000 metri quadrati coperti, in fase di ultimazione.

Morale della favola: i 90 metri quadri vanno giù, annientati, da dimenticare, mentre la mega-struttura di 15.000 metri quadri s’impossessa del territorio a prescindere dalla zona, più o meno rossa, dai resti ritrovati della vecchia Pompei, con il consenso delle amministrazioni autorizzanti e vigilanti.


Intanto due famiglie sono state buttate letteralmente in mezzo alla strada. Presumibilmente la documentazione amministrativa relativa alla palazzina abbattuta non era in ordine e bisognava dare un esempio di “efficienza e buona gestione della regola urbanistica”.

In questo modo la magistratura competente e l’ufficio tecnico del comune di Torre Annunziata hanno fatto il loro corso, in una fase storica nella quale si sostiene che “non bisogna consumare il territorio” ed occorre essere cauti per l’incombente pericolo Vesuvio. Resta il fatto che 90 metri quadri non sono paragonabili a 15.000 metri quadri di superficie coperta. Ciononostante l'abitazione su 90 mq viene cancellata e la mega-struttura resta.

Due famiglie disperate, in mezzo alla strada, senza tetto e senza i risparmi di una vita, tutti impegnati nella costruzione della casa dove ripararsi e nella quale far crescere i propri figli: dettagli secondari in un’epoca in cui la giusta proporzione delle cose, la saggia applicazione delle norme ed il rispetto dell'uomo sono argomenti fuori moda, cancellati!

Altro dettaglio insignificante: i bambini interessati dall’ "abbattimento intelligente" della loro casa, senza più dimora e punto di riferimento hanno lasciato vuoto il posto occupato nella loro scuola. Per l’istruzione si provvederà in altro modo, se e quando possibile. In una fase di drammatica crisi economica, di mancanza di lavoro e di reddito si "sostengono" le famiglie abbattendo le loro case e distruggendo ricchezza!
Appello alle autorità competenti ed alla magistratura: non aggiungete errore ad errore! Fermate gli abbattimenti di civili abitazioni sul territorio e procuratene una alle famiglie che, nei giorni scorsi, oltre alla casa, hanno visto abbattere sogni e speranze.
 

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Sàntolo Cannavale

Sàntolo Cannavale
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McDonald’s: 39 licenziamenti (+1). Continua la lotta dei lavoratori campani

Li abbiamo lasciati in presidio in piazza Municipio lo scorso 8 febbraio, a difendere il proprio posto di lavoro contro la minaccia imminente di 39 licenziamenti. Da allora i lavoratori e le lavoratrici di Mc Donald’s – Napoli Futura hanno proseguito con tenacia la propria lotta e venerdì 21 e lunedì 24 febbraio i loro rappresentanti sindacali hanno condotto la trattativa presso gli uffici della Regione con l’assessore al lavoro Nappi ed il proprietario di Napoli Futura (proprietaria al 50% con Mc Donald’s Italia di alcuni punti vendita a Napoli e provincia). Oggetto della discussione il nuovo piano aziendale e la razionalizzazione annunciata dei posti di lavoro, condizione che sembra aver coinvolto soprattutto i dipendenti con contratto part-time della società, che hanno spesso storie di anni e anni di esperienza lavorativa alle spalle presso i punti vendita Mc Donald’s.

Anche nel weekend compreso fra il 14 e il 16 febbraio, un nuovo sciopero ha costretto l’azienda alla serrata. Motivo scatenante di queste altre giornate di lotta è stato il contemporaneo e inaspettatolicenziamento di Alessandra Vitangelo, RSA della Uiltucs da anni schierata in prima linea per la tutela dei diritti propri e degli altri lavoratori del Mc Donald’s di piazza Municipio e degli altri punti vendita campani.

Alessandra è proprio colei che la mattina dell’8 febbraio ha dato un volto e una voce a tutti i dipendenti riuniti in presidio nel centro di Napoli, dichiarando una ferma opposizione all’ipotesi dei licenziamenti a fronte di una franca carenza di organico e di incaute politiche gestionali di Napoli Futura; ma soprattutto denunciando il comportamento che l’azienda ha assunto nei confronti dei lavoratori dal 2 dicembre scorso, data di inizio dello stato di agitazione.


Così non usa mezzi termini quando ci spiega delle pressioni subite nel corso degli ultimi mesi: il mancato rispetto dei turni e delle griglie orarie dei lavoratori, le ferie forzate piovute su gran parte di loro, le martellanti e spesso pretestuose contestazioni disciplinari, la proposta di trasferimento presso gli altri punti vendita della regione a coloro che erano stati assunti con contratto part-time (una “soluzione” che lei stessa, durante l’intervista, definisce “licenziamento mascherato”, per la chiara inaccettabilità di simili condizioni a fronte di stipendi di circa 500 euro); infine il trattamento discriminatorio subito da quelle lavoratrici cui è stata contestata la maternità facoltativa.

Con singolare tempismo, pochi giorni dopo lo sciopero, la lavoratrice viene raggiunta dalla notizia del licenziamento: motivo scatenante un presunto ammanco in cassa di soli 16 euro riscontrato poco tempo prima. Proprio in solidarietà della rappresentante sindacale i lavoratori del suo stesso punto vendita hanno immediatamente proclamato lo sciopero, sembrano non esserci stati dubbi sulla natura pretestuosa del provvedimento.

Ma anche subito dopo questa notizia, nonostante la rabbia e l’indignazione, Alessandra non ha ceduto alla tentazione di condurre la propria lotta esclusivamente al singolare, provando magari a discolparsi, a sfruttare la conseguente visibilità mediatica per argomentare le proprie ragioni e cercare di ottenere, così, una riassunzione, magari in sordina e lontano dalle telecamere.
Qualsiasi presa di parola, da quel giorno in avanti, ha gettato luce ancora una volta sull’inaccettabilità dell’atteggiamento condotto dall’azienda, sul rilancio delle argomentazioni dei sindacati a proposito del mancato rispetto del contratto collettivo nazionale di categoria, sull’importanza di una contestazione compatta davanti alla pretesa che i lavoratori, cui non spetta questo tipo di mansione secondo contratto, siano responsabili degli incassi (spesso della chiusura del negozio per svariati giorni di fila e dopo turni massacranti) senza neanche poter godere di un’indennità di cassa, come avviene in casi similari regolamentati da contratto.
Alessandra, dunque, inizia la propria lotta personale, ma al tempo stesso resta al fianco dei lavoratori e, nonostante il proprio allontanamento dal posto di lavoro, nelle due date del 21 e del 24 febbraio siede al tavolo di trattativa per scongiurare gli altri 39 licenziamenti, oltre che per provare a riaprire la partita in merito al proprio.
La intervistiamo ancora una volta al termine di quest’ultima data, quando l’intransigenza del proprietario di Napoli Futura pone la parola fine alla trattativa, con la conferma degli ormai 40 licenziamenti ed un nuovo, grave precedente rispetto a quello della RSA: l’inserimento della clausola di police rispetto agli ammanchi di cassa, per la quale da ora in avanti gli sarà possibile contestare e far ricadere come in questo caso la responsabilità di eventuali incongruenze nei conti sui dipendenti, in assenza di una qualsiasi forma di tutela e di indennità per loro.
Questa clausola, è molto chiaro anche ai lavoratori, altro non è che uno strumento di pressione e di ricatto, un modo per renderli più “docili” di fronte alle pretese sempre più assurde dell’azienda, è per giunta formalmente inapplicabile in maniera corretta in quanto, come anche un semplice avventore può vedere, gli addetti alla cassa sono contemporaneamente impegnati in altre mansioni, i registratori possono essere aperti non solo con il codice di sicurezza (uguale per tutti e in possesso della maggior parte dei manager e dei dipendenti e che quindi non rende possibile risalire all’eventuale colpevole dell’infrazione o dell’ammanco) ma anche attraverso un dispositivo meccanico. Insomma se, come dice il proverbio, “ a pensar male si fa peccato, ma non si sbaglia”, non è certo azzardato dire che il sistema di police cassa va tutto a vantaggio del gestore e a discapito dei lavoratori continuamente sottoposti alla pressione non solo di poter sbagliare e di rimetterci in proprio non essendo coperti da alcuna indennità o assicurazione, ma anche di non aver alcun controllo sul sistema e su eventuali infrazioni operate a loro danno…
A questa forma di pressione si aggiunge quella delle variazioni dei turni comunicate giorno per giorno(e chi non è disponibile perché incapace di riorganizzare con così scarso preavviso gli altri suoi impegni è ovviamente fatto fuori), dei carichi di lavoro sempre più gravosi (determinati anche dal taglio netto del numero di dipendenti).
 Come documenta questa foto qui accanto i punti vendita sono strapieni e non c’è nessuna possibilità di gestire adeguatamente il servizio, a dimostrazione che i tagli sul personale non derivano dalla mancanza di clienti, ma piuttosto sono con tutta probabilità dettati dalla volontà di “svecchiare” l’organico e di disfarsi degli elementi più combattivi, che non tollerano di veder impunemente calpestati i loro diritti di lavoratori.
All’aumento del carico di lavoro e si aggiunge la politica dell’azienda di non concedere – anche quando è dovuto a norma di legge - nessun permesso (debitamente certificato dall’inps) per accudire i propri cari, figli o parenti a carico che siano. A far salire la pressione è poi la richiesta dell’azienda della mobilità interesercizio: in sostanza si pretende dai lavoratori che essi si spostino – anche per coprire un solo turno – da un punto vendita all’altro di giorno in giorno (ad esempio da quello di piazza Municipio a quello di Pompei).

Tutti questi provvedimenti sono doppiamente gravosi per le lavoratrici che, dovendo spesso sostenere anche il carico del lavoro domestico, della gestione dei figli e della famiglia sono costrette a veri e propri equilibrismi per non perdere il posto di lavoro. Se non resistono poi, tanto meglio! Ci si sbarazza di loro per assumere lavoratori più giovani da cui “succhiare sangue fresco”.

La chiusura dell’incontro del 24 febbraio alla regione ha certamente lasciato l’amaro in bocca ai lavoratori e alle lavoratrici riuniti in presidio al palazzo della Regione Campania, ma la loro risposta non si fa attendere:da domani sarà sciopero a oltranza per tutti e 9 i punti vendita di Mc Donald’s – Napoli Futura, a ribadire che non c’è alcuna rassegnazione davanti all’imminente probabile perdita del proprio posto di lavoro.

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Clash City Workers

Clash City Workers
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Intermittenti dello spettacolo: chi sono i precari della cultura che protestano in Francia

Gli intermittents du spectacle ("intermettenti dello spettacolo") hanno manifestato a Parigi giovedì 27 febbraio. Erano diverse migliaia, in protesta contro la proposta del Medef (Mouvement des Entreprises de France, il patronato francese), che all'interno di una più ampia revisione dello stato sociale, ha ipotizzato di cancellare il loro statuto, un unicum in Europa.


Chi sono gli intermittenti dello spettacolo?
Sono coloro che lavorano nel mondo dello spettacolo e dalla cultura: attori, cantanti, fotografi, ma anche videomaker, registi, montatori, tecnici del suono, musicisti, circensi… Tutti coloro che contribuiscono all’industria culturale e che sono, per la natura stessa di questi mestieri, spesso e volentieri precari. Gli intermittenti beneficiano di un regime fiscale particolare, nato nel 1936, prima nell’industria del cinema, poi esteso a tutti i lavoratori della cultura.
È quindi possibile, per un datore di lavoro, assumere questi lavoratori con contratti a durata determinata, anche molto corti, e rinnovabili per diversi anni: fatto, questo, che non sarebbe consentito all'interno dei regimi classici. Tra i due contratti è lo Stato che, con i sussidi di disoccupazione, “paga” al lavoratore lo stipendio (o la differenza tra lo stipendio e quello che ha lavorato durante il mese). Lo scopo? Compensare e arginare la precarietà degli impieghi, i differenti committenti o la breve durata – anche giornaliera – dei lavori. 
Per beneficiare di questa disoccupazione bisogna lavorare regolarmente 507 ore su 10 mesi. Questo permette di avere le indennità di disoccupazione per 8 mesi. I lavoratori “normali” invece, per avere diritto alla disoccupazione, devono lavorare 610 ore su 28 mesi, maturando un giorno per ogni giorno lavorato. Secondo il Medef questo sistema non è equo: i primi hanno più diritti contributivi dei secondi. 
Va detto che se le 507 ore (tre mesi e mezzo di lavoro, calcolato però sulle 35 ore settimanali di un lavoratore "normale" in Francia) danno diritto a 8 mesi di disoccupazione, queste ultime si contabilizzano su lavori che spesso si basano su tournée, situazioni atipiche o che non contano, per esempio, le ore di lavoro "spese" per realizzare e concepire uno spettacolo. 
Secondo la stima fatta nel 2011 gli intermittenti dello spettacolo in Francia sono 254.394 mila, erano 50mila nel 1989, 100mila nel 1998. Se i lavoratori aumentano, gli stipendi sono invece stabili (o leggermente in diminuzione, in effetti). Si tratta, comunque, di un settore dove non si guadagna molto (neanche 14mila euro all’anno nel 2007, per fare un esempio).
Bello, bellissimo, diciamo noi. È giusto finanziare la cultura, permettere a chi vuole fare un lavoro nel campo artistico di poter sopravvivere – e di essere riconosciuto come un lavoratore, soprattutto. Il problema? Questo regime fiscale è in crisi, strutturalmente in crisi. E, dice la Corte dei Conti francese (rapporto 2012), ha creato un deficit cronico di oltre un miliardo di euro.
Ma sono gli intermittenti il solo problema? In periodo di crisi la Francia ha visto aumentare anche icontratti a tempo determinato e quelli a interim: questi due costano, sempre secondo i dati della Corte dei Conti, 5,592 miliardi il primo, e 1,464 il secondo.
Quali sono le critiche?
Tutti i lavoratori francesi (e i datori di lavoro) pagano i contributi per la cassa di disoccupazione allo stesso ente, l’Unedic (Union nationale interprofessionnelle pour l'emploi dans l'industrie et le commerce) la stessa alla quale li versano gli intermittenti dello spettacolo. Secondo il calcolo della Corte dei Conti un terzo del deficit della cassa di disoccupazione è dovuto agli intermittenti, mentre questi rappresentano solo un terzo dei lavoratori.
Un altro calcolo
L’Unedic, dal canto suo, fa un calcolo un po’ diverso. Abrogare lo statuto degli intermittenti, infatti, non li farebbe sparire. Anzi, in realtà, avendo tutti contratti di breve durata, secondo il regime francese dovrebbero percepire aiuti più alti. Il calcolo complessivo – che trovate dettagliato nel documento sopra – ci dice, in soldoni, che eliminare lo statuto farebbe risparmiare 420 milioni di euro; allo stesso tempo entrerebbero anche 100 milioni di euro in meno nelle casse dello Stato (perché gli intermittenti pagano più contributi sociali: il 10% contro il 6 degli altri lavoratori). Il saldo? Un risparmio di 320 milioni di euro.
Calcoli a parte: la cultura è un settore come tutti gli altri? È su questo argomento che gli intermittenti portano avanti le loro rivendicazioni: "La culture coûte trop cher? Essayez l'ignorance!" ("La cultura costa troppo? Provate l'ingnoranza!") c'era scritto sui cartelli degli intermittenti che hanno sfilato a Parigi e in altre città di Francia. E della stessa opinione è anche Laurence Parisot, ex segretaria del Medef, che difende gli intermittenti, proprio in nome della difesa dalla Cultura. 
Per il governo è una questione assai spinosa: gli stessi dibattiti in Francia si erano già avuti nel 2003. Gli scioperi degl intermittenti dello spettacolo portarono all'annullamento di diverse manifestazioni culturali, tra le quali il Festival di Avignone. L'industria dello spettacolo in Francia è un settore importante, consta di oltre 160mila imprese, e impiega circa il 2,3% dei lavoratori. Più o meno le stesse cifre del settore agricolo. 

Autore

Francesca Barca

Francesca Barca
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