Nel 1978, davanti agli occhi dell’intera America televisiva, Vanessa Redgrave salì sul palco degli Oscar, strinse tra le mani la statuetta dorata, e con la grazia serena di una martire, pronunciò parole che incendiarono la platea: definì una parte del pubblico «una banda di teppisti sionisti». Fu un terremoto. Fischi, urla, sgomento. I produttori cercarono disperatamente di mandare la pubblicità. Bob Hope si coprì il volto. Ma lei restò immobile. Di una calma imperturbabile. Perché credeva, profondamente, in ogni sillaba che aveva appena pronunciato.
Vanessa Redgrave era la nuova musa di Hollywood grazie al suo ruolo da brividi in Julia, in cui dava vita a una resistente antinazista. Un’interpretazione definita “trascendente”. Ma se l’industria osannava il suo talento, detestava le sue idee. Aveva finanziato The Palestinian, un documentario pro-palestinese girato in un Libano devastato dalla guerra. Pochi giorni prima della cerimonia, dei manifestanti armati sfilavano davanti al teatro con cartelli che la accusavano di terrorismo.
Nonostante tutto, vinse. E nel momento della gloria, scelse lo scontro.
Quella sera, Redgrave non vinse solo un Oscar. Vinse una battaglia interiore: quella della coerenza. Pagò il prezzo più alto. Hollywood le voltò le spalle. I produttori la cancellarono. Gli agenti le dissero che nessuno avrebbe più lavorato con lei. La sua risposta fu semplice, definitiva: “Allora creerò il mio lavoro.” E così fece.
Recitò nei magazzini. Finanziò compagnie teatrali ribelli. Portò Shakespeare nelle zone di guerra. Marciava con i rifugiati. Respirava lacrimogeni alle manifestazioni. Era sorvegliata dall’MI5 per “attività sovversive”. Quando le chiesero se temeva la lista nera, rispose: “Non si può mettere sulla lista nera qualcuno che non è mai stato sulla vostra lista.”
Avrebbe potuto scegliere il lusso, la reverenza, il silenzio dorato. Era nata in una dinastia teatrale, i Redgrave erano l’aristocrazia della scena britannica. Era bella da togliere il fiato, e il suo talento era una certezza. Ma rifiutò di essere un ornamento. Non volle mai diventare la “grande signora” da salotto. Continuava ad arrivare a piedi nudi ai cortei.
Pagò tutto. Persino in dolore. Persino con la perdita. Anni dopo, quando la sua adorata figlia Natasha Richardson morì in un tragico incidente, il mondo pensò che si sarebbe spezzata. E invece, poco dopo, tornò sul palco. Le chiesero perché. Lei rispose, con voce sottile: “Perché se non recito, smetto di respirare.”
C’era un dolore sacro, struggente, in ogni personaggio che interpretava. Da Isadora a The Bostonians, ogni ruolo era attraversato da una ribellione dolceamara, da un coraggio che sapeva di lutto.
Meryl Streep una volta disse: “Vanessa non recita. Testimonia.” Ed è proprio così.
Vanessa Redgrave non ha mai smesso di testimoniare. Per i rifugiati. Contro i crimini di guerra. Contro l’ipocrisia. Contro il silenzio complice. Anche oltre gli ottant’anni, era ancora nelle piazze, pronta a farsi arrestare. Continuava a chiedere all’arte di avere un senso.
Quando un giornalista le domandò se rimpiangeva quel discorso infuocato agli Oscar, lei sorrise con lo stesso sorriso sereno e pericoloso del 1978 e disse: “Se dici la verità e ti fischiano, allora stai facendo la cosa giusta.”
Vanessa Redgrave non ha solo interpretato le rivoluzionarie. Lei lo era davvero. Una di quelle rare, autentiche, che sanno che il vero potere non sta negli applausi, ma nel rifiuto di tacere quando tutti ti chiedono di farlo.

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