Nell’afosa estate dell’846 d.C., Roma fu testimone di uno dei momenti più drammatici della sua lunga storia: il saccheggio arabo. Le fonti coeve raccontano come, all’alba di quell’anno, una poderosa flotta araba, composta da navi provenienti dall’Africa settentrionale, si presentò sulle coste laziali. Gli assalitori, identificati nelle cronache come Saraceni, erano parte di quegli stessi movimenti che già da tempo lambivano le sponde mediterranee con frequenti scorrerie, decisi ora ad assestare un colpo durissimo al cuore della cristianità.
La spedizione fu preparata con accortezza militare. Le truppe sbarcarono in più punti, tra Ostia e Porto, mettendo a ferro e fuoco villaggi e campagne circostanti. Da lì, in pochi giorni, avanzarono verso la città eterna, sfruttando la vulnerabilità di un territorio fragile, privo di solide difese costiere. L’obiettivo degli Arabi non era la conquista permanente di Roma, ma il bottino.
I quartieri periferici e le basiliche extramurarie, particolarmente quella di San Pietro e San Paolo fuori le mura, divennero il bersaglio principale. All’epoca, infatti, le basiliche erano riccamente ornate e custodivano numerosi tesori sacri, reliquie, arredi preziosi e offerte votive provenienti da tutto il cristianesimo occidentale.
Roma era ancora protetta dalle imponenti mura aureliane, che ressero all’attacco principale. I Saraceni non entrarono nel cuore urbano della città, ma si concentrarono sui distretti e i luoghi sacri situati oltre le mura, meno difesi e più facilmente accessibili. Un imponente contingente mise a sacco la basilica vaticana, profanando tombe, trafugando calici, croci d’oro, reliquiari, doni dei sovrani europei, preziosi oggetti d’arte.
Episodi analoghi si verificarono anche nei pressi della basilica di San Paolo e nei monasteri circostanti, luoghi dove la ricchezza spirituale si traduceva in ricchezza reale.
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L’assalto fu violento e repentino. Le cronache riferiscono di monaci e fedeli uccisi o messi in fuga, di cittadini in preda al panico. Le autorità romane e il papato, guidato da Sergio II, si trovarono impreparati di fronte a una minaccia di tale portata e, per salvare la città vera e propria, decisero di non rischiare una battaglia diretta.
Si cercò di rafforzare la difesa delle mura interne, mentre il suburbio veniva abbandonato alla furia degli invasori. Fu una scelta dolorosa, ma necessaria per evitare una distruzione ancora più ampia.
Dopo alcuni giorni di devastazione e saccheggio, la flotta araba si ritirò, portando via un bottino ingente. Per la cristianità dell’epoca fu uno shock. L’impeto saraceno sul soglio di Pietro era una ferita aperta, e la simbologia dell’assalto fu potente: la tomba dell’apostolo violata, i tesori dispersi nelle mani degli infedeli, l’Occidente minacciato là dove si sentiva più sicuro.
Lo sgomento fu tale che si decise una rapida risposta. L’evento accelerò la costruzione delle poderose mura leonine, a difesa del colle Vaticano, segnando una nuova stagione per la città e una consapevolezza diversa dei pericoli provenienti dal mare.
Gli storici riconoscono nel saccheggio di Roma del 846 d.C. un momento di svolta: la città, pur ferita, seppe reagire e trasformare l’umiliazione in rinascita. Nella memoria collettiva rimase la paura dei Saraceni e il ricordo terribile di quella notte in cui, sotto la croce di San Pietro, risuonarono voci straniere e il sacro si mischiò al terrore della guerra.
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