Esiste una geografia segreta che unisce le valli più impervie del vecchio continente, tracciata non da confini politici ma da un'unica, ricorrente narrazione che sfida le leggi della statica e la sacralità dei luoghi.
Si tratta dei ponti del diavolo, opere di ingegneria medievale o romana talmente audaci per l'epoca da non poter essere concepite, secondo l'immaginario popolare, dalla sola mano dell'uomo. La storiografia e l'antropologia hanno classificato questa leggenda come una delle più diffuse in Europa, riscontrabile dalla Spagna alla Bulgaria, passando per le Alpi svizzere e l'Appennino toscano.
Il canovaccio, tramandato oralmente e poi fissato nelle cronache locali, è quasi sempre identico e rivela il timore reverenziale verso la natura indomabile dei fiumi e l'ammirazione per la tecnica costruttiva dell'arco a tutto sesto o a schiena d'asino. La narrazione storica ci porta spesso sulle sponde del fiume Serchio, a Borgo a Mozzano, dove sorge l'esempio forse più emblematico: il Ponte della Maddalena.
Le fonti documentali attribuiscono la sua costruzione alla volontà della contessa Matilde di Canossa nell'undicesimo secolo e al successivo restauro da parte di Castruccio Castracani, ma la memoria collettiva ha sovrapposto alla storia la figura di un capomastro disperato. Di fronte alle continue piene che distruggevano le impalcature, egli avrebbe invocato l'aiuto del maligno.
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Il patto, elemento giuridico soprannaturale presente in tutte le varianti, prevedeva la costruzione del ponte in una sola notte in cambio della prima anima che lo avesse attraversato. La struttura asimmetrica del ponte, con la sua arcata centrale spropositata che sembra sfidare la gravità, è stata letta per secoli come la prova tangibile di un intervento non umano, pietrificato nel momento di massima tensione statica.
Anche a Cividale del Friuli, sopra le acque gelide del Natisone, la pietra racconta una storia analoga ma arricchita da dettagli morfologici specifici. Qui, un enorme macigno nel letto del fiume è identificato dalla tradizione come la pietra che il diavolo portava nel grembiule per completare l'opera, lasciata cadere goffamente quando si accorse di essere stato ingannato.
L'astuzia umana è infatti il secondo pilastro di queste leggende: il costruttore, spesso consigliato da un uomo di chiesa o spinto da un'intuizione improvvisa, non sacrifica mai un essere umano. Al sorgere del sole, a inaugurare il passaggio è un animale, un cane bianco a Lucca, un gatto o un caprone in altre località alpine. Il demonio, beffato e furioso per aver ottenuto un'anima bestiale invece che umana, svanisce lasciando dietro di sé l'odore di zolfo e un'opera indistruttibile.
Gli studiosi di tradizioni popolari leggono in questi racconti la necessità di esorcizzare il pericolo intrinseco dell'attraversamento. Il ponte è un luogo di confine, una sospensione tra due mondi, e la sua realizzazione richiedeva conoscenze matematiche che al volgo apparivano come stregoneria.
L'attribuzione di tali opere al diavolo non era dunque solo superstizione, ma un riconoscimento implicito della complessità tecnica raggiunta dalle maestranze comacine e dagli architetti del tempo. Queste strutture, sopravvissute a guerre e alluvioni, rimangono oggi come monumenti silenziosi di un tempo in cui la pietra veniva piegata dall'ingegno, e dove l'uomo doveva scendere a patti con le proprie paure per unire ciò che la natura aveva diviso.
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