Quando si parla dei crimini di guerra commessi dal fascismo italiano, la memoria pubblica tende a concentrarsi sull’Etiopia, sulla Libia o sulla Jugoslavia. L’Albania, invece, rimane spesso sullo sfondo: un teatro apparentemente “minore”, occupato senza grande resistenza, raccontato per decenni come una sorta di annessione incruenta e quasi naturale.
La realtà storica, però, è molto diversa. L’occupazione italiana dell’Albania tra il 1939 e il 1943 non solo implicò repressione politica, deportazioni, violenze sistematiche e azioni punitive contro civili, ma aprì anche la strada a una brutale guerra interna combattuta su basi etniche, politiche e ideologiche.
Il 7 aprile 1939, senza dichiarazione di guerra, le forze armate italiane invasero l’Albania. L’operazione durò poche ore: l’esercito albanese era impreparato, privo di equipaggiamento moderno e letteralmente impossibilitato a opporsi a un nemico schiacciante. L’occupazione fu presentata dal regime fascista come una “missione civile”, un atto di amicizia verso un popolo “fratello”. In Italia, la propaganda insistette sulla narrazione paternalistica del Duce che si prendeva cura della piccola nazione albanese, mentre la monarchia di Zog veniva rappresentata come corrotta e incapace.
Dietro la facciata, però, l’Albania divenne immediatamente un territorio controllato militarmente. Sciolte le istituzioni locali, installato un governo fantoccio e proclamata l’unione personale tra i due regni, l’Italia instaurò un regime coloniale basato sullo sfruttamento economico, sulla censura e sulla sorveglianza continua. Ogni forma di opposizione, anche solo potenziale, venne repressa.
Uno dei primi atti dell’amministrazione fascista fu la creazione di un sistema di polizia politica modellato sull’OVRA italiana. Furono predisposti elenchi di “sovversivi”, dissidenti, ex ufficiali fedeli al re Zog, intellettuali e notabili locali considerati pericolosi. Le perquisizioni, gli arresti arbitrari, le minacce e gli interrogatori violenti divennero pratica quotidiana.
Gli oppositori venivano internati in campi e prigioni appositamente allestiti anche in territorio italiano, come Ventotene, Ustica e Regina Coeli. Le famiglie sospettate di aiutare i ribelli venivano colpite con rappresaglie economiche, confische o deportazioni.
A ciò si aggiunse una capillare opera di italianizzazione: imposizione della lingua italiana nelle scuole, sostituzione di funzionari locali con personale fascista, obbligo di adottare simboli e rituali del regime. In Albania, come altrove, la violenza non fu soltanto fisica: fu anche culturale e politica.
Il quadro cambiò radicalmente dopo il 1941. Con la disastrosa invasione italiana della Grecia e l’intervento tedesco nei Balcani, l’Albania divenne un crocevia militare strategico. L’esercito italiano si trovò a dover controllare non solo la popolazione albanese, ma anche i territori del Kosovo e della Macedonia occidentale, annessi amministrativamente al Regno d’Albania ma sottoposti all’autorità delle forze armate italiane.
In queste regioni abitate da albanesi, serbi, macedoni, turchi ed ebrei la presenza fascista contribuì ad alimentare tensioni già esistenti. L’Italia, nel tentativo di garantirsi il favore delle popolazioni albanesi, concesse loro privilegi politici ed economici, consentendo in alcuni casi atti di violenza e rappresaglia contro minoranze slave locali.
Questo non solo aggravò gli attriti interetnici, ma fece dell’esercito italiano un arbitro brutale di contese territoriali e un attore diretto nella repressione di interi villaggi serbi e macedoni.
Nel 1942 nacquero e si svilupparono le prime forme di resistenza albanese, sia comuniste che nazionaliste. Le forze partigiane iniziarono azioni di sabotaggio, assalti contro posti di guardia e convogli, attentati e distruzione di infrastrutture.
La reazione fascista fu durissima. Furono istituiti tribunali speciali che comminavano condanne a morte anche in assenza di prove. I paesi sospettati di ospitare partigiani venivano bruciati o evacuati con la forza. Gli uomini erano arrestati e spesso fucilati come “banditi”; donne, bambini e anziani venivano deportati.
Uno degli episodi più significativi fu la rappresaglia di Borova, nel 1943: in risposta a un attacco partigiano contro un convoglio italiano, il comando fascista ordinò l’incendio del villaggio, l’uccisione di decine di civili e la distruzione sistematica delle case. La strage scosse profondamente l’opinione pubblica albanese e rafforzò il sostegno alla resistenza.
Non meno rilevante fu il sistema concentrazionario. L’Italia fascista creò in Albania e nelle regioni limitrofe numerosi campi di internamento destinati a civili considerati “ostili” o “pericolosi”. Tra questi Berat, Porto Palermo, Kruja e Prishtina (nel Kosovo).
Le condizioni erano durissime: scarsità di cibo, mancanza di cure mediche, lavori forzati, punizioni corporali, malattie e sovraffollamento. Nel campo di Porto Palermo, ricavato in una fortezza ottomana e circondato dal mare, morirono centinaia di internati, soprattutto donne e bambini provenienti dalla Grecia e dal Kosovo. Questi campi erano parte integrante della politica di “pacificazione” fascista, che mirava a separare i partigiani dalla popolazione civile terrorizzandola.
Le operazioni di rastrellamento condotte tra il 1942 e il 1943 rappresentano uno dei capitoli più bui della presenza fascista in Albania. I comandi italiani applicarono in gran parte gli stessi metodi utilizzati in Jugoslavia: villaggi incendiati, bestiame requisito, intere comunità deportate o costrette a sfollare. Le testimonianze dell’epoca parlano di fucilazioni sommarie, torture durante gli interrogatori, esecuzioni pubbliche, violenze sessuali e saccheggi sistematici.
I reparti maggiormente coinvolti includevano le divisioni Ferrara, Perugia e Parma e varie unità della Guardia Reale Albanese sotto comando italiano.
A queste violenze si sommavano episodi di ritorsione indiscriminata: se i partigiani attaccavano un convoglio, il villaggio più vicino veniva punito, anche se non aveva alcun legame con l’azione.
L’occupazione fascista in Albania fu anche un esperimento politico: creare una classe dirigente locale fedele a Roma. L’Italia distribuì cariche, privilegi, posti di lavoro, terre e armi a notabili locali considerati affidabili. Molti gruppi albanesi nazionalisti collaborarono con il regime, sperando di ottenere benefici territoriali e politici. Questo sistema di clientelismo generò divisioni profonde nella società albanese, alcune delle quali sopravvissero ben oltre la fine della guerra.
Parallelamente, l’economia albanese fu sfruttata per rifornire lo sforzo bellico italiano: miniere, risorse agricole, manodopera. I lavoratori venivano spesso impiegati in condizioni di semi-coercizione per costruire strade, ponti, basi militari e infrastrutture ad uso esclusivo dell’esercito.
Con la capitolazione dell’Italia l’8 settembre 1943, la situazione precipitò. Le forze italiane in Albania si trovarono improvvisamente senza ordini, attaccate dai partigiani e dai tedeschi.
Molti soldati italiani vennero disarmati e internati dalla Wehrmacht; altri cercarono di unirsi ai partigiani; altri ancora si arresero. La Germania nazista occupò il territorio e instaurò un regime ancora più violento e brutale del precedente.
Il passaggio di consegne mise in luce un fatto spesso ignorato: la violenza italiana aveva preparato il terreno per quella tedesca. I villaggi già devastati dalle rappresaglie fasciste furono nuovamente colpiti, e le tensioni interetniche fomentate dall’Italia continuarono ad alimentare conflitti e vendette.
Dopo la guerra, l’Albania comunista costruì un racconto fortemente ideologico della resistenza contro l’Italia e la Germania. Sebbene il regime di Enver Hoxha avesse un interesse politico a enfatizzare il ruolo dei partigiani, le violenze italiane furono riconosciute e documentate. Tuttavia, la narrazione rimase confinata all’interno dei confini albanesi e per decenni pochissimo di questa storia arrivò in Italia.
Nel dopoguerra, infatti, l’Italia repubblicana mostrò scarsa volontà di affrontare i crimini coloniali e fascisti. Pochi ufficiali furono processati. La maggior parte dei responsabili tornò alla vita civile senza conseguenze, in molti casi reintegrati nelle istituzioni o nell’esercito. Questo silenzio politico e giudiziario contribuì alla rimozione collettiva della violenza fascista nei Balcani.
Oggi gli studi sui crimini di guerra italiani in Albania stanno crescendo, grazie a storici albanesi e italiani come Davide Conti, che collaborano per raccontare una storia complessa e dolorosa. Archivi militari, testimonianze e documenti diplomatici stanno finalmente emergendo, mostrando che l’occupazione fascista fu tutt’altro che “morbida”.
Per l’Italia, fare i conti con questa storia significa riconoscere che il fascismo non fu solo dittatura interna, ma anche potenza coloniale e occupante violenta. Significa anche aprire un dialogo con la memoria delle popolazioni che subirono quella violenza e con cui oggi l’Italia intrattiene rapporti politici, economici e culturali profondi.
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