Le baby pensioni compaiono nel nostro ordinamento con il decreto (Dpr 1092) che entrò in vigore il 29 dicembre 1973.È l’anno della crisi energetica, della guerra del Kippur, del Watergate nella sua pienezza.
Sono gli anni ’70, quel groviglio di fortissime tensioni politiche, di trasformazioni sociali e di terrorismo. Dodici giorni prima, il 17, un commando di terroristi palestinesi compie la strage di Fiumicino contro un aereo della Pan Am. Il 45 giri al primo posto in classifica è «La collina dei ciliegi» di Lucio Battisti. Il presidente del Consiglio è Mariano Rumor, dossettiano di origine, uno dei leader dorotei. Meno di un mese prima, il 2 dicembre, Rumor ha dato inizio all’austerity, le domeniche a piedi, i cinema chiusi alle dieci di sera, trasmissioni tv interrotte alle 22.45.
Ma in questo clima che mette la parola fine sugli anni della grande crescita italiana, il governo introduce una nuova riforma delle pensioni che inciderà subito con costi molto elevati sulla sostenibilità del sistema.
Il Dpr 1092 prevede per il settore pubblico la possibilità di andare in pensione con 14 anni sei mesi e un giorno per le donne con prole, 19 anni sei mesi e un giorno per gli uomini, e 24 anni sei mesi e un giorno per i dipendenti degli enti locali.
Alberto Brambilla, già sottosegretario al Welfare e uno dei massimi esperti italiani di pensioni, quest’anno, in occasione della giornata mondiale della previdenza, ha curato un testo molto utile per la ricostruzione storica del welfare italiano, un libro sfogliabile in internet, “I 150 anni della previdenza sociale nei 150 anni dell’Unità d’Italia”. Spiega al Messaggero: “Quel Dpr chiude un ciclo di interventi esiziali sulle pensioni. Nel 1969 c’era stata la legge Brodolini con l’adozione generalizzata del sistema retributivo, con l’istituzione delle pensioni di anzianità, e l’adeguamento automatico delle pensioni al costo della vita. I due provvedimenti, quello del 1969 e questo del 1973 hanno inciso pesantemente e negativamente sui conti pubblici. Già nel 1978, prima dei lavori della commissione Castellino, era chiaro che il sistema previdenziale era squilibrato”.
I costi li vedremo meglio dopo. Ma com’è possibile che la classe politica non si rendesse conto dell’insostenibilità di questo genere di misure? Cinismo, irresponsabilità, superficialità? No, a sentire i protagonisti di quella fase politica.
I socialisti vi diranno che era il modo di far politica della Dc, i democristiani ricorderanno il ruolo dei ministri del Lavoro socialisti. Tutti tenderanno a spiegare che non si avvertiva il problema dei costi del welfare, era semplicemente un altro mondo. Un mondo che veniva da vent’anni di crescita al 5,3% medio, dalla piena occupazione nell’industria, dal boom, dalla rinascita italiana, con una classe dirigente politica che aveva contratto l’abitudine alle vacche grasse e che considerava la lotta tra i partiti come competizione per il controllo di quote di spesa pubblica.
Franco Marini, segretario della Cisl tra il 1985 e il 1991 in quel dicembre del 1973 era appena entrato nella segreteria confederale della Cisl guidata da Storti. Dice: “Sì, è vero che non c’era nella classe politica né nel corpo della stato di allora una grande consapevolezza di quello che sarebbe accaduto, dell’impatto che l’allargamento del welfare avrebbe avuto sui conti pubblici. Però il provvedimento sulle baby-pensioni causò sin da subito una forma di imbarazzo anche nel sindacato che a quel tempo aveva un fortissimo potere contrattuale nei confronti della politica. Era una norma squilibrata. Ci fu disagio nei confronti dei lavoratori privati che erano esclusi da quel trattamento. Anche se qualcuno riteneva che il babypensionamento compensasse il fatto che i dipendenti del privato avessero avuto fino a quel momento salari molto più alti”.
Negli anni successivi passò anche l’idea che la baby pensioni fossero equiparabili al prepensionamento del settore privato. Ma in realtà segnarono un fatto simbolico. Il momento più alto della generosità del welfare italiano e che si colloca quasi a metà strada tra la vittoria culturale di Beveridge (lo stato sociale inclusivo) e la crisi dei debiti sovrani esplosa nel 2007.
È con gli anni ’70 che la spesa pubblica si impenna. Si passa dal 30,1% del 1960 al 46,8% del 1980. Tutte le prestazioni dello stato si dilatano. Quanto ci sono costate la baby pensioni? Difficile fare un calcolo preciso. Possiamo però avvicinarci per approssimazione. Secondo i dati di Inps e Inpdap, al primo gennaio del 2011 le pensioni destinate a persone che hanno cominciato a usufruirne quando erano sotto i cinquant’anni sono poco più di 531.000, concentrate nel nord, per un costo complessivo di 9 miliardi e mezzo l’anno. 107.000 sono erogate dall’Inps (poco più di 2 miliardi di costo annuo), 425.000 dall’Inpdap, dall’istituto previdenziale dei dipendenti pubblici. In queste 425.000 pensioni (costo 7,4 miliardi all’anno) sono incluse anche quelle di invalidità. Ma il grosso riguarda normali pensionamenti anticipati.
Secondo un calcolo effettuato qualche mese fa da Confartigianato i baby pensionati italiani (pubblici e privati) rispetto al pensionato medio hanno ricevuto un trattamento più lungo di quasi sedici anni. Questo significa che a valori 2010 la differenza (cioè il costo in più rispetto a un normale trattamento pensionistico) varrebbe 148,6 miliardi di euro. Cioè: in questi 40 anni, l’esistenza delle baby pensioni ci è costata quasi 150 miliardi più di quanto ci sarebbe costata la previdenza se i baby pensionati fossero andati a riposo con le stesse regole degli altri. Una tassa cumulata – secondo le stime degli artigiani – di circa 6.630 euro che grava su ognuno degli occupati italiani.
Si tratta di persone che in un calcolo medio restano in pensione per quasi 41 anni. Se si guarda la tabella elaborata dall’ufficio studi di Confartigianato, per esempio, quasi 17.000 di queste pensioni riguardano persone che hanno lasciato il lavoro a 35 anni di età, dunque si tratta in gran parte di ex pubblici. Considerando che l’età media stimata è salita a 85,1 anni, si tratta di 53,9 anni di pensione, il 63,4% dell’intera vita. Altri 78.000 sono andati in pensione tra i 35 e i 39 anni. Anni di pensione stimati: 47,4 cioè il 55,8% dell’intera vita. Significa che ci sono cittadini che hanno riscosso in assegni pensionistici il triplo di quanto hanno versato in contributi.
In un mondo come quello attuale in cui ci sono quarantenni privi di copertura previdenziale adeguata, questi dati spiegano le reazioni che, negli anni, il fenomeno dei baby pensionati ha cominciato a destare in una opinione pubblica alle prese con le trasformazioni del lavoro. Spiega Chiara Giorgi, che insegna Storia della Pubblica Amministrazione all’università di Genova: “Oggi queste prestazioni – che vengono dal conflitto tra la spinta universalistica del welfare classico e la declinazione italiana di un welfare corporativo – sono incomprensibili per almeno due generazioni che sono cresciute in un modello lavoristico dove non c’è il posto fisso e che non avranno mai quel tipo di previdenza”.
Per farsi un’idea, i nove miliardi e mezzo l’anno che noi spendiamo per le pensioni baby (tra il 4 e il 5% del totale della nostra spesa pensionistica) sono all’incirca il doppio di quanto – secondo una stima fatta da Confindustria – ci costano tutti gli anni i circa 180.000 eletti del sistema politico-istituzionale italiano, la cosiddetta casta: quattro miliardi contro cui un pezzo di opinione pubblica è costantemente mobilitata.
Negli anni, per gli eccessi dei pensionamenti agevolati sono cresciuti fastidio e indignazione, in aree politiche e culturali molto diverse. C’è tutta una fortunata pubblicistica sui pensionati baby e sulle loro storie. Non solo la moglie di Umberto Bossi, eletta a simbolo della categoria. Ma ci sono le storie di gente comune. Le baby pensionate scovate e intervistate dalla stampa, quasi tutte prive di sensi di colpa. I racconti di Mario Giordano in “Sanguisughe” (Mondadori, 2011, pag. 168, 18,50 euro).
E poi c’è Internet. Su Giornalettismo, per esempio, è scoppiata una polemica sulle pensioni baby a favore dei sacerdoti. Mentre sull’edizione italiana di Indymedia – considerato il forum online internazionale della sinistra antagonista – a gennaio sono spuntate le storie di due baby pensionati di Modica (perché in Sicilia il meccanismo delle baby pensioni ha resistito alla scure degli anni ’90) e anche l’accusa di censura rivolta da parte degli anti-baby pensionati ai difensori dei baby pensionati.
“Secondo me il clima è cambiato già molti anni fa – ricorda Franco Marini – Da ministro del lavoro nel 1991 cominciai a preparare la riforma della previdenza che avrebbe cancellato la baby pensioni e che poi si realizzò sotto il governo di Giuliano Amato nel dicembre del 1992. E sulle pensioni baby non trovai resistenze a tornare indietro. Anche perché le riforme mano mano riequilibrarono il trattamento previdenziale per pubblici e privati”.
Eppure le incrostazioni corporative, i riflessi automatici, i punti di principio sono rimasti. Quando l’anno scorso il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, propose un contributo di solidarietà dell’un per cento che avrebbe toccato anche le pensioni baby ci fu una levata di scudi sui diritti acquisiti, che proprio non si toccano. Eppure è chiaro che in alcuni casi la costruzione dei diritti acquisiti è il risultato dell’iniquità, dell’inopportunità o dell’incongruenza di una norma. “Sì, diciamo che non si tratta di cancellare i diritti acquisiti – dice Mauro Marè, grande esperto di previdenza e professore di scienza delle finanze a Viterbo – ma dobbiamo essere disponibili a riconsiderare il concetto di diritto acquisito” (Marè è anche il presidente del Mefop, la società per lo sviluppo dei fondi pensione). Più cauto Franco Marini: “Se sul piano dei rapporti legislativi è difficile ridurre le prestazioni pensionistiche, sul piano della disponibilità soggettiva, invece, i contributi di solidarietà vanno inevitabilmente presi in considerazione”.
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