giovedì 30 novembre 2023

L'eredita' di Fermi

 


Agli inizi degli anni Cinquanta si stava per compiere una delle più grandi avventure scientifiche italiane dello scorso secolo. Raccogliendo l’eredità che Fermi aveva lasciato, gli sforzi della fisica italiana erano concentrati sulla costruzione di un grande acceleratore di particelle, l’elettrosincrotrone, e la fondazione di un Laboratorio Nazionale dove far confluire i giovani ricercatori.


Tuttavia, Il decennio successivo vide nascere a Roma una nuova Scuola, quella della fisica della materia condensata (campo che si occupa di studiare le proprietà della materia, con un interesse particolare rivolto alla fase liquida e a quella solida) di cui Carlo Di Castro fu uno dei suoi maggiori esponenti.


Di Castro è attivo principalmente nel campo della meccanica statistica, della fisica a molti corpi e della materia condensata, dando contributi fondamentali nella sua disciplina, ad esempio aprendo la strada all’approccio del cosiddetto gruppo di rinormalizzazione dei fenomeni critici, estendendolo poi ai liquidi quantistici di Bose e ai liquidi di Fermi-Luttinger. Attualmente è professore emerito all’Università La Sapienza di Roma.


Nato il 14 agosto del 1937 da una famiglia di origine ebraiche, si scontrò già in tenerissima età con la crudeltà del regime dato che solamente un anno dopo furono promulgate in Italia le leggi razziali. Come ha ricordato:


“I miei primi ricordi sono quelli di un bambino prematuramente invecchiato, con il peso del mondo sulle spalle, preoccupato per il destino dell’umanità. Quando avevo sei anni siamo dovuti fuggire da casa e nasconderci sotto falso nome, vivendo nella costante paura di essere traditi. [..] Ricordo quando entrai per la prima volta in una scuola dopo la liberazione per sostenere un esame di ammissione alla seconda elementare, poiché mi era stato impedito di frequentare la prima. Sebbene fosse stato difficile per me, non essendo mai andato a scuola mentre mi nascondevo, ho sempre pensato a quanto deve essere stato difficile per i miei fratelli maggiori essere stati espulsi nel 1938. Da allora ho vissuto con l’idea che si può essere inghiottita dalle tenebre in qualsiasi momento. Sono convinto che il percorso professionale che ho scelto sia legato alla ferma convinzione che la paura di ciò che ci circonda, la paura dell’ignoto, debba essere superata attraverso la conoscenza e la ragione.”


Dopo aver frequentato il liceo classico, si trovò di fronte all’inevitabile bivio della scelta universitaria. Nonostante la sua formazione fosse più umanistica, l’indecisione era tra la filosofia e la fisica. Il padre, che non era molto felice né di una né dell’altra, lo spinse a cercare una soluzione e i due trovarono nell’ingegneria il giusto compromesso. Dopo aver concluso il biennio, la “fortuna, o sfortuna dal punto di vista di mio padre” volle che le lezioni di ingegneria non partissero nel mese di novembre ed iniziò così a frequentare i corsi di fisica, decidendo alla fine di fare il passaggio di facoltà. Non era una scelta completamente fuori dal mondo: basti pensare che la quasi totalità del gruppo dei Ragazzi di Via Panisperna proveniva da ingegneria.


Le materie che più lo interessavano erano la meccanica statistica e la fisica teorica della materia condensata, che era un campo di ricerca pressoché ignorato in quegli anni a Roma perché molti erano impegnati nello studio della fisica delle particelle. Il corso di meccanica statistica era tenuto dal “brillante e stimolante” Bruno Touschek (che contribuì in maniera decisiva a quella rivoluzione prima accennata) “che non insegnava in maniera tradizionale, ma piuttosto insegnava come un fisico teorico avrebbe dovuto affrontare i problemi, usando immaginazione, tecnica ed entusiasmo”. Nel 1959, deciso a fare una tesi in fisica teorica, chiese consigli a Marcello Cini, allora capogruppo della sezione di fisica teorica. Cini, che non poteva suggerire un argomento specifico, disse che stava per arrivare da Padova Giorgio Careri, che era impegnato in ricerche sperimentali sull’elio superfluido 4He. Cini fu comunque suo relatore, mentre l’esaminatore era Touschek che scrisse un commento sulla tesi con il suo inimitabile stile: “con i migliori complimenti dall’avvocato del diavolo”. Il risultato finale, non pubblicabile perché risultati simili erano già stati presentati sulla rivista Physical Review, incentivò lo studio di questo campo della fisica teorica che fino ad allora non aveva avuto un grande spazio.


Spostatosi a Birmingham per fare il dottorato, tornò in Italia (nonostante ci fosse la possibilità di continuare gli studi negli Stati Uniti) nel 1965 nella sezione dell’INFN di Roma “beneficiando ancora una volta della lungimiranza di Amaldi nell’aprire l’Istituto a giovani ricercatori di altri campi e nel cercare di ricostruire la fisica nel suo insieme”. Nel 1969 divenne libero docente in fisica teorica, ricomprendo la cattedra dopo la dipartita di Persico. Di Castro ricordò:


“È stata una bella esperienza per me, perché mi è piaciuto introdurre argomenti che non erano mai stati insegnati prima a Roma. Non so se anche gli studenti si siano divertiti, ma mi hanno fatto un’ottima impressione.”


Il lavoro suo lavoro, insieme alle collaborazioni con Giovanni Jona-Lasino e Claudio Castellani sono difficili da riassumere e sono molto tecniche, ma è sufficiente pensare che Di Castro ha tenuto più di 120 conferenze internazionali e ha pubblicato più di 160 lavori.


In foto Di Castro (a destra) che consegna la Laurea Honoris Causa a Karl Alexander Müller (Premio Nobel per la fisica nel 1987) durante la cerimonia tenuta alla Sapienza nel 1993.

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CINCINNATO. L'UOMO CHE RIFIUTO' LA GLORIA, PER TORNARE NEI CAMPI

 




Nell'anno 458 a.C., Roma, la città eterna, era in tumulto. Due nemici feroci, gli Equi e i Sabini, avevano messo in scacco le legioni romane. Il console Lucio Minucio Esquilino Augurino era assediato nel suo accampamento dagli Equi, bloccato e senza speranza di fuga. 


L'altro console, Gaio Nauzio Rutilo, combatteva contro i Sabini e non poteva correre in suo aiuto. La Repubblica Romana tremava sotto il peso di una doppia minaccia.


In questo momento di disperazione, i patrizi di Roma si voltarono verso un uomo, un eroe della loro terra, Lucio Quinzio Cincinnato. Quest'uomo, noto per la sua integrità e per il suo impegno nel servizio alla Repubblica, viveva modestamente, lontano dalle ricchezze e dai lussi della città. 


Ai Prata Quinctia, a dodici miglia da Roma, Cincinnato lavorava la sua terra di quattro acri, con le mani callose e il sudore sulla fronte.


La leggenda narra che i messaggeri lo trovarono nell'atto di arare il suo campo. Con il sole che tramontava all'orizzonte, lo avvicinarono e gli comunicarono la volontà del Senato: era stato scelto per essere il dittatore di Roma, l'unico in grado di salvare la città dalla rovina. 


Cincinnato, l'umile contadino, si fermò, si deterse il sudore dalla fronte e indossò la toga praetexta, simbolo del suo nuovo ruolo. Accettò la carica con gravità, conscio del peso che ora gravava sulle sue spalle.


Con una determinazione feroce e una strategia fulminante, Cincinnato guidò le legioni romane alla vittoria. Riuscì a sconfiggere gli Equi, liberando l'esercito assediato e salvando la Repubblica dal collasso. Il suo ritorno a Roma fu trionfale; la città celebrò il suo eroe con onori e gloria.


Ma Cincinnato non era uomo di potere o vanità. Dopo soli sedici giorni, rifiutando di restare al potere per l'intera durata di sei mesi prevista dalla sua carica, abdicò. Si ritirò dalle luci della ribalta per tornare alla sua vita semplice, ai suoi quattro acri di terra. Lasciò un'eredità di virtù e umiltà che ancora oggi risuona attraverso i secoli.


E così, Cincinnato, l'eroe della Roma Repubblicana, l'uomo che salvò la città e poi tranquillamente tornò alla sua vita di contadino, rimarrà per sempre un simbolo di dedizione, di servizio disinteressato, e di vera grandezza.


Il racconto si basa su: Eutropio, Breviarum ab Urbe Condita Lib. I, 17

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LA GENIALE MOSSA DI CESARE CONTRO TITO LABIENO

 




Nelle terre selvagge e inospitali dell'Africa, dove la guerra civile imperversava senza pietà, si consumò uno degli episodi più memorabili della storia militare romana. 


Cesare, il comandante leggendario, si trovava in una situazione disperata, accerchiato dalla cavalleria del feroce Labieno, suo acerrimo nemico.


Le legioni di Cesare, conscie della loro situazione precaria, ricevettero l'ordine di schierarsi schiena contro schiena, pronte a combattere fino all'ultimo respiro. In quel momento, l'aria vibrava di tensione, con il sole africano che batteva implacabile sulle armature scintillanti dei soldati.


Labieno, cavalcando orgogliosamente in prima linea, senza elmo, incarnava l'immagine stessa del guerriero fiero e indomito. Con voce tonante, sfidava i soldati di Cesare, insultandoli e deridendoli, tentando di scuotere il loro morale. Ma la risposta di un veterano della decima legione fu pronta e fiera, un grido di sfida che risuonò come un tuono nel cielo africano.


Questo soldato, un guerriero temprato dalle innumerevoli battaglie, con un gesto audace si tolse l'elmo, rivelando il suo volto, e scagliò il suo giavellotto con precisione mortale, colpendo il cavallo di Labieno. Con voce ferma e orgogliosa, proclamò che quel colpo era l'opera di un legionario della decima.


Ma la situazione rimaneva critica. I soldati, in particolare i più giovani, erano pervasi dal terrore, i loro sguardi fissi su Cesare, l'unico punto di riferimento in quel caos di morte e paura. 


Cesare, con la sua proverbiale astuzia, ideò un piano audace. Estese le linee del suo esercito e ordinò a ciascuna coorte di ruotare alternativamente, così da presentare un fronte offensivo sia davanti sia dietro.


Quando la battaglia raggiunse il suo culmine, le ali destra e sinistra delle legioni di Cesare sfondarono il cerchio nemico, dividendo l'esercito di Labieno in due. La cavalleria di Cesare, muovendo dal centro, attaccò con furia, separando ulteriormente i nemici e infliggendo loro pesanti perdite.


Il campo di battaglia si trasformò in una scena di caos e disperazione per i nemici, mentre i soldati di Cesare, guidati dalla sua geniale tattica, riuscirono a respingere l'assalto e a ritirarsi ordinatamente nelle loro posizioni. 


Quel giorno, la determinazione e l'ingegno di Cesare scrissero un altro capitolo glorioso nella storia di Roma, un esempio eterno di coraggio e abilità militare.


Il racconto si basa su: Cesare, Bellum Africanum, 17,1-2

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GIACOMO PUCCINI

 



Il 29 novembre del 1924 moriva a Bruxelles il compositore italiano GIACOMO PUCCINI (1858-1924). Nato a Lucca, sestogenito dei nove figli di Michele Puccini e Albina Magi, da quattro generazioni i Puccini erano maestri di cappella del Duomo di Lucca. La morte del padre, avvenuta quando Giacomo aveva solo cinque anni, mise in condizioni di ristrettezze economiche la famiglia. Il giovane fu mandato a studiare presso lo zio materno che lo definì un «falento», ossia un fannullone senza talento. Del Puccini studente si è detto: "entra in classe solo per consumare i pantaloni sulla sedia… ». Terminati dopo cinque anni (uno in più di quelli necessari) gli studi di base, si iscrisse all'Istituto Musicale di Lucca dove il padre era stato insegnante. A quattordici anni poté già cominciare a contribuire all'economia familiare suonando l'organo in varie chiese di Lucca. Nel 1876 assiste al teatro Nuovo di Pisa all'allestimento di Aida di Giuseppe Verdi, esperienza decisiva per la futura carriera facendo convogliare i suoi interessi verso l'opera. Decise quindi di trasferirsi a Milano per proseguire gli studi musicali con Antonio Bazzini e Amilcare Ponchielli. In quel periodo realizzò la sua prima composizione, il Preludio sinfonico (1876) cui fece seguito nel 1880 la Messa di Gloria e nel 1883 il Capriccio sinfonico. Al teatro musicale approdò nel 1884 con la sua prima opera, Le Villi cui seguì nel 1889 Edgar. Conseguì una propria concezione estetica a partire dalla terza opera, Manon Lescaut (1893), la cui prima torinese dette l’avvio ad una serie di grandi successi culminati in La bohème (1896), Tosca (1900) e Madama Butterfly (1904). Passarono sei anni prima che il genio del musicista toscano conseguisse un importante rinnovamento stilistico con La fanciulla del west (1910), opera commissionatagli dal Metropolitan di New York, che con la sua quasi totale assenza di materiale melodico strofico denunciò precise influenze debussiniane e straussiane, aprendo per Puccini una nuova fase creativa. L’opera successiva, la commedia lirica La rondine (1917) offrì in effetti simili procedimenti compositivi ed in misura minore anche il Trittico (1918 - Tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi) nel quale Puccini presentò un vero e proprio caleidoscopio stilistico: dal raffinato verismo de Il tabarro, al supremo lirismo ascetico di Suor Angelica fino al più grande esempio di opera buffa italiana dopo il Falstaff di Verdi, ossia Gianni Schicchi. L’ultima ed incompiuta opera di Puccini fu Turandot, scritta negli anni funestati da quel tumore alla gola che lo avrebbe condotto alla morte. L'opera fu poi ultimata da Franco Alfano. Nella produzione di Puccini si è soliti distinguere due fasi principali, oltre a quella giovanile dei tormentati esperimenti de Le Villi ed Edgar. Una prima fase romantica e borghese cui appartengono le opere fino al 1904, fondate sulla poetica delle piccole cose, sui personaggi di psicologia minuta inseriti in ambienti ben variati ed identificati dal colore musicale, e la fase del rinnovamento vocale e sinfonico realizzato nei lavori della piena maturità. Si delinea così un percorso che, tenendo fermo il primato del canto e della comunicazione col pubblico, va dalla modernità scapigliata dei primi lavori alla modernità novecentesca degli ultimi, all’insegna di un aggiornamento continuo che fa di Puccini il protagonista più inquieto della fase crepuscolare dell’opera italiana. Era nato a Lucca il 22 dicembre del 1858. Le 12 opere di Giacomo Puccini: Le Villi (1884), Edgar (1889), Manon Lescaut (1893), La bohème (1896), Tosca (1900), Madama Butterfly (1904), La fanciulla del west (1910), La rondine (1917), Tabarro, Suor Angelica,Gianni Schicchi (1918), Turandot (1924).

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COSI' LA DISCIPLINA DEI LEGIONARI ANNIENTO' LE ORDE DEI BRITANNI

 




In tempi epici, quando l'Impero Romano dominava le terre lontane e sconosciute, vi fu una battaglia epica che avrebbe fatto eco nei secoli a venire. Il grande storico Tacito ci narra di quella memorabile giornata, la battaglia di Watling Street, dove la gloria e la tragedia si intrecciarono in un dramma senza tempo.


La legione romana, formidabile in armatura e disciplina, si mantenne immota all'inizio della battaglia. Protetta dall'angustia del luogo, scagliarono giavellotti a colpo sicuro contro i nemici che si avvicinavano. Ma quando ebbero esaurito queste mortali munizioni, si precipitarono all'assalto, formando un cuneo di ferro che si abbatté implacabile contro le file britanniche.


Gli ausiliari romani seguirono con lo stesso slancio, mentre la cavalleria, con le aste distese contro il nemico, si lanciò come un fiume in piena, infrangendo tutto ciò che si opponeva. 


Ma i Britanni, animati da un feroce coraggio, non voltarono le spalle facilmente. I carri, disposti tutt'attorno al campo di battaglia, impedivano loro una fuga agevole.


Nella furia del combattimento, i soldati romani non si astennero neppure dal massacrare le donne britanniche, e il terreno si tinse del rosso del sangue versato, mentre i corpi dei cavalli, trafitti dai dardi nemici, si unirono al cumulo dei morti.


Ma quella giornata fu anche una luminosa vittoria per l'Impero Romano, paragonabile alle glorie antiche. Si racconta che poco meno di ottantamila Britanni persero la vita, mentre le perdite romane furono solo quattrocento, con poco meno di feriti.


La regina britannica Budicca, nella disperazione della sconfitta, si tolse la vita con il veleno, mentre il Prefetto del campo della seconda legione, Penio Postumo, per aver trasgredito contro la disciplina militare e aver defraudato la sua legione della gloria della vittoria, si trafisse con la propria spada, portando un macabro epilogo a questa epica battaglia.


E così, la battaglia di Waitling Street rimase scolpita nella memoria dei tempi antichi, un esempio di coraggio, gloria e tragedia che avrebbe continuato a ispirare le generazioni a venire.


Il racconto si basa su: Tacito, Annali, XIV, 37

Scripta Manent 

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Doveva portate i bambini dal MacDonald

 


“Era previsto maltempo e i bambini mi stavano aspettando”.


Magnifica. La difesa di Lollobrigida messa in piedi ieri in Parlamento è magnifica: tira dentro pure i bambini che non poteva far aspettare. Per questo ha ordinato a un frecciarossa di fermarsi. 


Da Ministro dell'Agricoltura a Babbo Natale de noantri. 

Siamo a livelli di film natalizio. 


Uno ci scherza ma che uno strumentalizzi i bambini così è grave. 

Ma tanto a questi signori è concesso di tutto.

Leonardo Cecchi 

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"Metodi Matematici della Meccanica Classica”.

 


"Lo scopo di una lezione di matematica non dovrebbe essere la derivazione logica di alcune asserzioni incomprensibili da altre altrettanto incomprensibili. È necessario spiegare al pubblico di cosa tratti la discussione e insegnare a usare, non solo i risultati presentati, ma i metodi e le idee”.


Vladimir Igorevič Arnol'd, uno dei più grandi matematici della scuola sovietica. Fu un docente estremamente coinvolgente che scrisse molti libri, tra cui il famoso “Metodi Matematici della Meccanica Classica”. 


Nella lunga lista di riconoscimenti conseguiti manca solo la Medaglia Fields. Arnol’d venne nominato nel 1974 ma l’assegnazione fu boicottata da Lev Pontryagin, che era il rappresentante sovietico dell’Unione Matematica Internazionale, e dallo stesso governo Sovietico. Una probabile motivazione è da ricercare ne fatto che Arnol’d firmò, nel 1968, una lettera insieme a 98 colleghi in difesa di Alexander Esenin-Volpin, matematico e dissidente russo.

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𝐔𝐤𝐮𝐥𝐞𝐥𝐞 𝐞 𝐬𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐨𝐫𝐚𝐥𝐞: 𝐥𝐞 𝐩𝐚𝐬𝐬𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐝𝐢 𝐆𝐞𝐨𝐫𝐠𝐞 𝐇𝐚𝐫𝐫𝐢𝐬𝐨𝐧

 



Il sesso orale, un'arte amata non solo dalle rockstar. 


David Bowie, ad esempio, sosteneva di preferirlo ad un rapporto completo, trovandolo più piacevole e meno impegnativo. 


Per Gene Simmons dei Kiss, invece, rappresentò una svolta nella vita:

"Sono stato sempre indeciso se fare il dentista o il cantante; 

ho scelto la seconda carriera perché i dentisti fanno più fatica a farsi fare un pompino" - un tocco raffinato da parte di Gene, come al solito.


Quasi tutte le star hanno ammesso di aver cominciato a cantare o suonare per arrivare a questo piacere senza impegno. 


Negli anni '60, uno dei più accaniti sostenitori di questa pratica era George Harrison.


La leggenda narra che una sera, durante una festa, George stesse tranquillamente suonando il suo ukulele tra una canna e l'altra quando venne avvicinato da una ragazza avvenente e molto disponibile.


George non si fece pregare e la invitò al piano di sopra, dove la ragazza accettò l'invito senza esitazione.


Dopo circa venti minuti, tornata al piano di sotto, la ragazza iniziò a lamentarsi con le amiche. Durante tutto il "monologo" della ragazza, George aveva continuato a suonare il suo ukulele.


Un simpatico aneddoto per ricordare George Harrison, scomparso a Los Angeles il 29 novembre 2001.

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Il tempo scorre inesorabilmente!

 


"Lavori 8 ore per vivere 4.

Lavori 6 giorni per goderti 1.

Lavori 8 ore per mangiare in 15 minuti.


Lavori 8 ore di sonno 5.

Lavori tutto l'anno solo per prenderti una o due settimane di vacanza.


Lavori tutta la vita per andare in pensione in vecchiaia.

E guarda solo i tuoi ultimi respiri.


Col tempo ti rendi conto che la vita non è altro che una parodia di te stesso che pratichi il proprio oblio.


Ci siamo abituati così tanto alla schiavitù materiale e sociale che non vediamo più le catene... "

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OASport, Quando Panatta sfidò Pinochet: la Coppa Davis del 1976, 2017



 47 anni fa la Coppa Davis sempre italiana.....

MAGLIETTE ROSSE NELLO STADIO DELLA MORTE.

IL GIORNO CHE PANATTA SFIDÒ PINOCHET 


Ritengo che pochi eventi quanto i rifiuti, o le proteste, degli sportivi siano in grado di raccontare l'orrore delle dittature sudamericane degli anni settanta del secolo scorso.

Questa volta non c'è un pallone da inseguire o una palla ovale insanguinata. In questo racconto non c'è un hombre vertical che si oppone a un regime. 

Questa volta ci sono delle racchette da tennis e delle magliette rosse.

Ricostruiamo gli eventi che portarono quelle maglie rosse nella storia. 

Tra il 24 e il 27 settembre del 1976 si svolsero le semifinali di coppa Davis. A Roma si incontrarono l'Italia e l'Australia. Vinse la nostra nazionale 3 - 2 grazie alle vittorie nei singolari di Panatta e Barazzutti ed alla vittoria del doppio composto da Bertolucci e lo stesso Panatta.

Nell'altra semifinale avrebbero dovuto incontrarsi l'Unione Sovietica e il Cile ma l'Unione Sovietica si rifiutò di scendere in campo in segno di protesta contro il regime di Pinochet: il Cile passò quindi in finale senza aver disputato l'incontro. 

In conseguenza al boicottaggio della semifinale, l'URSS fu sospesa dalle due seguenti edizioni della Coppa Davis.

Subito dopo il successo in semifinale, in Italia cominciò un dibattito circa l'opportunità di partecipare alla finale. La gara, infatti, si sarebbe disputata in Cile, paese retto dalla dittatura di Pinochet e il campo di gioco si trovava nel complesso dello Stadio Nazionale, divenuto uno dei simboli della repressione del regime perché, negli anni precedenti, era stato usato come campo di concentramento per gli oppositori politici. 

La partecipazione italiana era contestata da numerosi gruppi politici, soprattutto di sinistra, con proteste a mezzo stampa e in piazza.

Un gruppo di giovani arrivò ad occupare i locali della Federtennis urlando "Non si giocano volée con il boia Pinochet". Cortei e cori presero di mira Panatta, reduce da una stagione felice in cui aveva conquistato i due più importanti tornei del mondo su terra rossa: Roma, sconfiggendo l'argentino Guillermo Vilas; e Parigi, battendo l'americano Harold Solomon. 

"Panatta milionario, Pinochet sanguinario", era lo slogan più frequente. Adriano, animo di sinistra per tradizione familiare, soffrì la contestazione. Il governo, guidato da Giulio Andreotti, e il Coni preferirono non prendere posizione, lasciando la decisione alla Federazione italiana tennis. In tutto questo fragore chi giocò un ruolo fondamentale fu Berlinguer. Panatta, raccontò con queste parole l'intervento del leader del Pci: "Per il segretario del Pci non sarebbe stato giusto che la Coppa finisse nelle mani del Cile del regime-Pinochet piuttosto che nelle nostre. Da lì in poi la strada verso la partenza si fece in discesa. Fu come un libera-tutti. Il governo Andreotti disse che lasciava libero il Coni di decidere, quest'ultimo lasciò libera la Federazione e di fatto ci ritrovammo a Santiago, liberi di vincere. Grazie a Berlinguer". 

Adriano conobbe alcuni dettagli solo anni dopo, "Come il fatto che Berlinguer si era in qualche modo sentito con il leader comunista cileno Luis Corvalan e che quest'ultimo lo aveva messo in guardia sulle ricadute politiche, favorevoli al dittatore, di un eventuale boicottaggio". In realtà, dietro l'intervento del segretario del Pci ci fu il concreto rischio che l'ipotesi boicottaggio potesse saldare un improvviso consenso nazionalistico in Cile, utilizzabile poi da Pinochet. 

In conclusione la Federazione italiana Tennis autorizzò la partecipazione. 

Il 17 dicembre 1976 l'Italia si giocò la Coppa Davis in Cile, in un clima surreale. 

I primi due singolari furono vinti da Barazzutti e Panatta. Il giorno seguente era un programma il doppio. Il mattino Panatta chiese a Bertolucci, suo compagno, d'indossare una maglietta rossa e non la classica divisa. Dopo un'accesa discussione tra i due, Paolo Bertolucci accettò la provocazione di Panatta.

Fillol e Cornejo indossarono polo bianche e calzoncini celesti; Panatta e Bertolucci magliette rosso fuoco e calzoncini bianchi. 

Gli italiani vinsero il doppio e la Coppa Davis onorando le vittime della repressione di Pinochet. 

Perché utilizzarono le magliette di color rosso?

ll rosso era il colore dell’opposizione a Pinochet.

il colore che le donne portavano nelle piazze, il colore della protesta, del coraggio e del sangue. 

Il colore utilizzato dalle donne cilene, i cui figli, fratelli, padri o mariti erano stati torturati, uccisi.


Fabio Casalini 


Bibliografia 


OASport, Quando Panatta sfidò Pinochet: la Coppa Davis del 1976, 2017


Il Foglio, Di rabbia e racchette. La Coppa Davis 40 anni dopo secondo Tonino Zugarelli, 2016


Corriere della Sera, Coppa Davis, i moschettieri che sconfissero il Cile e le idee del Pci, 2016

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