Il 28 novembre del 1954 ci lasciava, come recita una delle sue biografie più note “L’ultimo uomo che sapeva tutto”, Enrico Fermi. Fisico e docente straordinario, era apprezzato per il suo modo di spiegare anche gli argomenti più difficili. Probabilmente, la sua caratteristica principale da insegnante era una spiccata capacità di vedere l’essenziale di un problema e di affrontarlo con i mezzi più semplici. Enrico Persico, amico d’infanzia e fisico teorico di prim’ordine, durante la commemorazione per la sua scomparsa disse:
“Fermi era un maestro nato, e l’insegnare era per lui una seconda natura. Oltre ai corsi regolari che teneva dalla cattedra, egli dedicava gran tempo a una forma di insegnamento tutta sua, strettamente legata al suo lavoro di ricerca. Essa consisteva nel raccogliere intorno a un tavolo quattro o cinque dei suoi allievi, e risolvere, in loro presenza, un problema, pensando ad alta voce. Spesso tali problemi erano proprio quelli che gli si erano presentati in quel momento nel corso della ricerca, e nulla era più istruttivo per i suoi allievi che assistere, ammirati, al procedimento con cui una mente così singolare si muoveva ai confini fra il noto e l’ignoto. Gli allievi erano pressoché suoi coetanei, o di poco più giovani di lui, ed una delle più ammirevoli manifestazioni della singolare personalità di Fermi era l’atmosfera di scherzosa confidenza, e in pari tempo di altissimi rispetto per il maestro che si formava spontaneamente nel gruppo. L’insegnamento, diretto o indiretto, di Fermi, e l’esempio del suo personalissimo stile di lavoro hanno portato, in poco più di dieci anni, la scuola di Fisica Italiana ad un livello che da gran tempo sembrava esserle precluso.”
In merito alla stima che gli studenti avevano per Fermi, il fisico americano Harold Agnew raccontò un episodio avvenuto nella primavera del ’54. Un frastuono si sentì provenire dal Dipartimento di Fisica dell’Università di Chicago; insieme a un agente di sicurezza del campus, Agnew si precipitò per veder cosa fosse successo. Spalancata la porta, i due si trovarono un centinaio di studenti in piedi che applaudivano Fermi dopo che questo aveva concluso l’ultima lezione del semestre. Sembra che non ci fosse mai stata una tale confusione come in quell’occasione.
Se si desidera tentare di entrare nell’intimità di Fermi, bisogna quasi obbligatoriamente ritornare alle parole di Enrico Persico:
“Ancora l’estate scorsa (quella del ’54) ebbi la fortuna di averlo compagno di villeggiatura sulle Alpi e in Toscana. Benché fosse già sofferente del male che poco dopo doveva rivelarsi fatale, era ancora il caro e semplice compagno delle nostre passeggiate giovanili. Anzi, in una gita che facemmo, noi due soli, nell’Isola d’Elba, ritrovai in lui una vecchia abitudine che credo pochi conobbero, e che forse farà stupire chi lo ha conosciuto solo superficialmente. Spesso, nei momenti di distensione, camminando o sostando in cista di un bel paesaggio, l’ho udito recitare lunghi brani di poesia classica, di cui fin dalla giovinezza custodiva nella memoria un ricco tesoro. Temperamento poco incline alla musica, la poesia gli teneva luogo di canto
Il nome di Fermi per la grande maggioranza degli uomini resta legato alla pila e alle utilizzazioni dell’energia atomica. Per i fisici esso si ricollega, direttamente o indirettamente, a gran parte dei progressi fatti dalla fisica nell’ultimo trentennio. Ma per tutti coloro che conobbero Fermi da vicino e lo ebbero caro, esso è legato al ricordo indimenticabile di un uomo semplice, saggio e buono, della bontà serena dei forti.”
Storie Scientifiche
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