«L’unica cosa che oggi possiamo dire con certezza è che Schettino ha fatto evacuare dalla nave più di 4000 persone in un’ora, un’impresa di assoluto rispetto. Ma ritengo di poter anche dire che il naufragio è certamente il frutto di un concorso di colpa tra la compagnia di navigazione, gli ufficiali di bordo e la capitaneria di porto di Livorno».
Sono frasi un po’ forti quelle di Alessandro Gaeta, 51 anni, inviato del TG1 e autore del libro Il capitano e la Concordia (edizioni A Nordest), inchiesta sul naufragio sulla nave della Costa Crociere sull’Isola del Giglio. Un po’ forti perché ad oggi la Compagnia si ritiene danneggiata e vuole entrare come parte civile al processo. E soprattutto forti perché riabilitano un comandante contro il quale, in ogni angolo del mondo, sono stati scagliati strali e irrisioni.
«Cominciamo col dire che la Costa era perfettamente a conoscenza dei cosiddetti “inchini”. Di passaggi ravvicinati all’isola del Giglio, se ne contano a bizzeffe. La Costa non ha mai represso queste manovre azzardate. Anzi, risulta che in molti casi le abbia esplicitamente autorizzate. Non parliamo poi della Capitaneria di Porto che su queste manovre ha chiuso negli anni tutti e due gli occhi. Per quanto riguarda gli ufficiali di bordo pochi collaborano fattivamente alla gestione dell’emergenza e alcuni commettono dei veri e propri errori: come il comandante in seconda che invece di fare personalmente la verifica dell’entità della falla e delle sue conseguenze, rimane sul ponte di comando e delega questi controlli ad un suo sottoposto. A scendere nei bassifondi della nave è Giovanni Iaccarino, il quale riesce a fornire un quadro completo dell’entità dei danni solo attorno alle 22,30, quando infatti viene dato l’allarme generale. Sempre dalla scatola nera sappiamo oggi che non si sente nessuno, degli altri ufficiali in plancia, collaborare con Schettino nei momenti decisivi dell’emergenza, quando lo scoglio poteva ancora essere evitato».
Il comandante però è lui. Anche piuttosto esigente. Scrivi che aveva fatto scendere giorni prima un membro dell’equipaggio che non rispettava le procedure. Ricordi che un giorno aveva sbarcato in un’isola un’infermiera ed un altro dell’equipaggio che lo avevano contraddetto. Difficile collaborare, con un carattere così. E poi lo scoglio lo ha preso Schettino. E con una manovra azzardata, perché, sostieni nel libro, virando bruscamente, ha mandato la poppa a impattare sulla roccia, producendo uno squarcio di 40 metri. Come possono essere smentiti questi fatti?
«Dalla scatola nera. Al momento della stesura del libro, non erano disponibili alcuni dettagli che confermano la mia tesi e potrebbero rivelarsi davvero cruciali. La frase con cui, nel disciplinare della Costa Crociere, il comandante assume la guida della nave, sostituendo l’ufficiale in comando di guardia, è “Captain take the com”. Schettino, che era salito sul ponte di comando solo per sorvegliare il buon esito della manovra, la pronuncia meno di cinque minuti prima dell’impatto, quando si accorge che chi comandava la nave prima di lui si era avvicinato troppo agli scogli. Risulterebbe infatti che Schettino avesse tracciato una rotta diversa, a circa 900 metri dalla costa, in grande sicurezza. Di più, ascoltando la scatola nera, si sente Schettino che è costretto a correggere il timoniere, l’indonesiano Jacob Rusli Bin, che interpreta male un’indicazione di rotta. Il problema è che all’impatto mancavano una manciata di secondi. Saranno le perizie a stabilire se quell’errore possa aver contribuito a rendere inevitabile lo scontro con lo scoglio a pelo d’acqua».
Scrivi che sulla plancia c’era un sacco di gente. Quattro ospiti, tra i quali il fratello del direttore generale della Costa Crociere. E che poi è arrivata anche la ormai notissima Domnica Cermotan.
«Sulla donna è stata montata una storia sul nulla. Dalla scatola nera si evince che lei non apre bocca. Così come molto si è speculato sul “vabbuò, jà” di Schettino: si tratta di un’espressione che i napoletani usano quando è il momento di concludere una conversazione e non indica affatto menefreghismo».
L’impatto è delle 21,42. L’ordine dell’abbandono della nave, invece, di 74 minuti più tardi.
«L’ordine di abbandonare la nave non poteva essere dato prima, perché la Concordia era ancora in movimento e avrebbe potuto travolgere le scialuppe. Se verrà dimostrato che l’avvicinamento all’isola è stato voluto da Schettino, molte cose su di lui dovranno essere ripensate da zero. Un naufragio in mare aperto sarebbe equivalso ad un’ecatombe».
Più dell’errore, nel giudizio di tutto il mondo che lo ha marchiato come un vile, ha pesato l’abbandono della nave. Specie dopo la diffusione della famosa telefonata con il capitano Gregorio De Falco della capitaneria di porto di Livorno: il “Torni a bordo, cazzo!”.
«Questo è l’aspetto più interessante perchè l’accusa di abbandono della nave potrebbe cadere in dibattimento. Non solo perchè sono tanti i precedenti di naufragi gestiti da bordo di una scialuppa o di una nave appoggio da comandanti costretti ad abbandonare la nave che affonda, ma perchè è difficile dimostrare che rimanendo a bordo Schettino avrebbe avuto la possibilità non solo di rimanere vivo, ma di essere utile. Secondo, non esiste alcuna legge secondo la quale De Falco potesse dare ordini a Schettino, che poteva essere rimosso dal suo ruolo solo dall’armatore. Terzo, perché Schettino aveva avuto in precedenza una conversazione con Leopoldo Manna, della capitaneria di Roma, il cui tenore era stato completamente diverso e collaborativo. Quarto, emerge oggi, perché Schettino, dopo l’impatto, aveva subito chiamato l’armatore e successivamente la capitaneria di Civitavecchia, cui aveva chiesto i rimorchiatori: il tutto già prima delle 22. Ecco che si evidenzia come il suo ruolo di “on scene commander” lo stesse esercitando a pieno. Ma quelle telefonate con Manna e Civitavecchia non sono state depositate immediatamente. E quindi non diffuse. La telefonata con Manna verrà depositata addirittura tre mesi dopo il naufragio. Quella con De Falco depositata e diffusa subito. Non è azzardato pensare che tutto questo sia stato voluto da chi avesse tutto l’interesse a demolire l’immagine di Schettino».
Schettino però era a terra. I passeggeri no. Almeno non tutti.
«L’idea che mi sono fatto leggendo gli atti è che Schettino, trovandosi sul lato dritto, quello che alle 00.18 finisce in acqua, se fosse rimasto a bordo, sarebbe morto affogato e schiacciato dal relitto. Inoltre va detto che al momento di imbarcarsi sull’ultima scialuppa che lascia la nave sul ponte imbarcazioni non c’era più nessuno. Non lo dice Schettino, lo dicono i testimoni. In quella fase il ruolo di Schettino è stato decisivo. È lui che ha ordinato ai responsabili delle singole scialuppe di fare avanti e indietro per velocizzare le operazioni di sbarco dei passeggeri: E quando ha ritenuto che rimanere a bordo della nave sarebbe stato inutile e pericoloso si è imbarcato sull’ultima scialuppa. Come si fa a definirlo un codardo se il comandante è stato l’unico a non indossare il giubbotto di salvataggio?»
A De Falco Schettino disse però di essere stato catapultato in acqua.
«Il capitano De Falco si è dimostrato sospettoso sin da quando alle 22.30 ha preso il comando delle operazioni di soccorso. A riascoltare tutte le comunicazioni radio e telefoniche si capisce benissimo che De Falco non aveva fiducia di Schettino. Peccato però che tutti i piani di emergenza assegnano al comandante di una nave che sta affondando il ruolo principale nella gestione dei soccorsi. De Falco non solo non si fida, ma dà a Schettino anche indicazioni sbagliate su dove si trovi la scaletta a pioli per risalire a bordo. La famosa biscaglina non si trovava a dritta come sostenevano a Livorno, ma a sinistra. E non mi sembra un errore da poco su una nave lunga trecento metri».
Scrivi che Ennio Aquilino, capo dei vigili del fuoco, è riuscito a salire a bordo a mezzanotte e mezza.
«Ma lui, oltre ad essere addestrato, aveva anche scarpe e indumenti adatti. Schettino aveva divisa e mocassini. Perchè invece di rimproverarlo inutilmente, De Falco non ha ordinato ai suoi uomini di andarlo a prendere? Non sarebbe stato più utile? E poi la capitaneria di Livorno ha anche altre responsabilità».
Cioè?
«Come scrivo nel libro, ogni nave è obbligata ad installare un sistema di identificazione detto Ais, segnalando la propria posizione. Questo sistema, associato al sistema Ares, consente alle capitanerie di vigilare sul traffico marittimo conoscendo ogni dettaglio delle navi che transitano per i nostri mari: numero dei passeggeri, proprietà, comando e soprattutto, porto di destinazione e rotta per raggiungerlo. Livorno presiede ai controlli su tutti i 600 km di cosa della Toscana, compresa l’Isola del Giglio. La prima domanda è: come hanno fatto a Livorno a non accorgersi mai di tutte questi inchini, che sono manovre azzardate, andati avanti per anni? La seconda riguarda proprio la sera del naufragio. L’Ais permette di focalizzare, come uno zoom, un punto preciso del mare, perdendone però fatalmente di vista altri. Evidentemente l’Ais a Livorno era focalizzato sul porto locale e non vedeva il Giglio. Altrimenti dalle 21,09, quando la Concordia modifica direzione di marcia rispetto a quella che aveva comunicato, alle 21,42, momento dell’impatto, da Livorno qualcuno avrebbe potuto interrogare via radio la Costa Concordia per conoscere i motivi del cambio di rotta. Invece, nessuno se ne accorge, come nessuno fa caso ad una nave che dopo aver colpito uno scoglio fa una stranissima virata a 180 gradi, segno che qualcosa non andava. Alle 22, infatti, il brogliaccio delle comunicazioni di Livorno recita: “traffico marittimo regolare”. Di più. Quando i carabinieri di Prato alle 22,06 avvertono Livorno dell’impatto, si sente dalle registrazioni una voce in sottofondo in capitaneria affermare: “allarga l’Ais”, il che significa proprio che la rotta della Concordia non era monitorata».
Un passeggero tedesco, Frank Mario Lisker, ha denunciato che nessuno dell’equipaggio sapesse cosa fare.
«Si vedrà sicuramente in tribunale quanto questo sia vero. Di sicuro però c’è che oltre 4000 persone sono state portate in salvo in poco più di un’ora. Non mi pare di poter essere del tutto d’accordo».
Scrivi anche che il panico forse è scattato perché non era stata fatta l’esercitazione di emergenza prevista in ogni porto.
«È un fatto. Non era stata fatta per i passeggeri saliti a Cagliari, Palermo e Civitavecchia. Era prevista dopo lo scalo a Savona. I passeggeri erano stati informati attraverso filmati, che evidentemente non sono la stessa cosa».
Parli anche di sicurezza: i due pannelli elettrici, quello primario e quello secondario, erano collocati in un unico compartimento.
«Dalla corrente elettrica dipende l’intera sicurezza di una nave. Bastava collocarne una a prua e l’altro a poppa, come su una comune nave mercantile, perché uno ovviasse alla mancanza dell’altro. E anche il gruppo elettrogeno di emergenza non ha funzionato come avrebbe dovuto. Non lo dico io, ma lo riferiscono gli elettricisti di bordo interrogati dai magistrati».
Cosa pensi del fatto che una sua intervista su Mediaset possa essere stata pagata qualcosa come 50000 euro?
«Premesso che non ho mai pagato un’intervista in vita mia perchè ritengo che il contraddittorio rischia di essere poco genuino, non mi piace fare la morale a chi la pensa diversamente da me. In tutta questa vicenda, gli interessi rilevanti del business delle navi da crociera hanno condizionato tra censure e autocensure molto di quanto è stato raccontato dai media. Se anche fossero stati pagati 50mila euro per aggiudicarsi la prima uscita pubblica di un uomo conosciuto in tutto il mondo non credo ci sia da meravigliarsi».
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