domenica 7 dicembre 2025

Luciano Domenico

 


“Undici”, come gli anni che aveva, così è ricordato Luciano. Un nome che oggi suona come un numero, ma che allora era un bambino con le ginocchia sbucciate, la cartella sulle spalle, la paura che correva veloce insieme al cuore. Undici anni, l’età dei giochi interrotti, delle corse senza meta, dei sogni ancora senza forma. Eppure lui, figlio e fratello di partigiani, un sogno lo aveva già scelto: aiutare, essere utile, tenere insieme i fili invisibili della libertà.


Faceva la staffetta. Nella cartella di scuola non portava solo quaderni e matite, ma biglietti piegati, parole che non dovevano cadere in mani sbagliate, indicazioni sussurrate che valevano più dell’oro. Attraversava strade, campi, cortili con l’aria di chi va a studiare, e invece costruiva collegamenti, teneva in vita la resistenza. Nessuno avrebbe sospettato di un bambino. E proprio questo lo rendeva prezioso, e fragile.


Il 23 febbraio 1945, in un cascinale nelle campagne di Givoletto, nel torinese, l’infanzia di Luciano finisce all’alba. Un gruppo di partigiani è circondato dai repubblichini. La notte si ritira lentamente, lasciando spazio a una luce fredda. Con il giorno nasce anche il rumore secco dei primi colpi. L’aria si spacca, la paura diventa concreta, metallica. E Luciano non è a scuola. Non è tra i banchi, non stringe una penna. È lì, in mezzo agli spari, inerme, troppo piccolo per stare in una guerra, ma già dentro fino al cuore.


Sparano da una parte e dall’altra, finché i partigiani finiscono le munizioni. E senza munizioni non si può resistere all’odio armato. Il comandante del gruppo è gravemente ferito, il sangue scuro che macchia la terra. Decide la resa. Una decisione inimaginabile fino a pochi istanti prima, ma necessaria per salvare chi resta. Cerca uno sguardo, una presenza che possa attraversare quel confine di morte senza essere colpita. E chiama “Undici”.


A Luciano viene affidato il gesto più grande che c’è: chiedere di fermare il fuoco. Uscire allo scoperto, alzare una bandiera bianca. Ma lì non c’è nessuna bandiera. Il bianco, l’unico bianco possibile, è la sua maglietta. Luciano la sfila con mani piccole, forse tremanti, forse sorprendentemente ferme. Esce. La agita come può, con la forza che ha, che è tutta la sua.


È un bambino. Ha undici anni. Sta chiedendo pietà con un pezzo di stoffa. Ma non basta. Una raffica di mitra lo travolge. Non c’è esitazione, non c’è errore. È una scelta. Luciano cade. E con lui cade ciò che restava della sua infanzia. Ai fascisti non è bastato sottrargli i giochi, la scuola, la spensieratezza: gli tolgono anche la vita, spenta in un istante, senza senso, senza perdono.


Il suo corpo resta lì, troppo leggero per portare tutto il peso di quella violenza. Ma il suo nome non cade. Attraversa il tempo. Nei giardini pubblici di via San Donato, a Torino, a lui intitolati, una lapide lo ricorda. Anche quella pietra ha conosciuto l’odio: fu imbrattata con una svastica il 25 aprile 2009, come se qualcuno avesse voluto ucciderlo ancora, a distanza di più di sessant’anni. Ma la memoria, quando è vera, resiste anche agli insulti.


Undici anni. Troppo pochi per morire.

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