Nelle terre aspre e vulcaniche a nord di Roma, incastonato tra profonde forre di tufo che tagliano il paesaggio come ferite millenarie, fioriva un tempo il popolo dei Falisci. Questa stirpe italica rappresenta uno dei capitoli più affascinanti e tragici dell'espansione romana nell'Italia centrale.
Abitanti dell'Agro Falisco, con capitale la possente Falerii Veteres, l'odierna Civita Castellana, i Falisci vivevano una peculiare contraddizione identitaria. Sebbene parlassero una lingua strettamente imparentata con il latino, tanto da poter essere compresi dai loro vicini romani, culturalmente avevano abbracciato lo stile di vita degli Etruschi.
Erano, per così dire, dei latini etruschizzati che avevano scelto di guardare verso l'Etruria piuttosto che verso il Tevere. Questa affinità li portò a stringere legami indissolubili con la vicina e potente Veio, influenzando la loro arte, le loro istituzioni e le loro alleanze politiche in modo determinante.
Questa scelta di campo condannò i Falisci a un secolare stato di belligeranza contro l'Urbe. Per tutto il V e IV secolo avanti Cristo, le legioni romane si trovarono a dover fronteggiare questo popolo fiero che, protetto dalle difese naturali delle sue rocche tufacee, minacciava costantemente i confini settentrionali del dominio romano.
Celebre è l'episodio dell'assedio del 394 avanti Cristo, narrato vividamente dagli storici antichi. Si racconta che durante l'assedio posto da Furio Camillo, un maestro di scuola falisco, con l'intento di ingraziarsi il nemico, condusse con l'inganno i figli dei nobili locali fuori dalle mura per consegnarli ai romani come ostaggi.
La reazione di Camillo fu emblematica della fides romana di quell'epoca: rifiutò il tradimento, fece legare il maestro e lo consegnò ai suoi stessi alunni affinché lo riportassero in città a suon di vergate. Questo gesto di nobiltà colpì talmente i Falisci da indurli a una resa onorevole, convinti di non potersi opporre a un nemico tanto virtuoso.
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La pace fu solo una tregua nel lungo scorrere dei secoli. L'atto finale della tragedia falisca si consumò nel 241 avanti Cristo, in un contesto storico ben diverso. Roma aveva appena concluso, vittoriosa ma esausta, la Prima Guerra Punica contro Cartagine.
Approfittando di quello che credevano essere un momento di debolezza dei dominatori, i Falisci osarono ribellarsi apertamente per l'ultima volta. Il calcolo si rivelò fatalmente errato. Il Senato inviò i consoli Quinto Lutazio Cercone e Aulo Manlio Torquato con un esercito imponente per sedare la rivolta.
La risposta romana non lasciò spazio alla clemenza dei tempi di Camillo: in soli sei giorni la rivolta fu soffocata nel sangue, con oltre quindicimila caduti tra le file dei ribelli. La punizione per aver sfidato la dea Roma fu definitiva e irreversibile.
La città roccaforte di Falerii Veteres venne rasa al suolo e abbandonata. Ai superstiti fu imposto di trasferirsi in una nuova città, Falerii Novi, costruita in una zona pianeggiante e priva di difese naturali, affinché non potessero mai più costituire una minaccia militare.
Persino la loro divinità protettrice, Giunone Curite, fu "evocata" e trasferita ritualmente a Roma, sancendo la fine spirituale e politica di un popolo che aveva osato opporsi al destino imperiale dell'Urbe. Oggi restano solo le silenziose necropoli scavate nella roccia, testimoni di una fratellanza di sangue cancellata dalla guerra.
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