venerdì 5 dicembre 2025

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Quando l'imperatore Tito inaugurΓ² l'Anfiteatro Flavio nell'anno 80 dopo Cristo, Roma non vide semplicemente l'apertura di un nuovo edificio, ma l'inizio di una liturgia politica scolpita nella pietra e nel sangue.


Le cronache di Cassio Dione ci tramandano che i festeggiamenti durarono cento giorni, un periodo di opulenza sfrenata durante il quale la generositΓ  imperiale trasformΓ² la morte in una forma d'arte per il godimento della folla.


Sotto l'immensa tela del velario, manovrata con maestria dai marinai della flotta di Miseno per proteggere gli spettatori dal sole cocente, l'aria si saturava di odori contrastanti. Il profumo dello zafferano spruzzato sulla folla si mescolava al tanfo ferroso del sangue e al lezzo delle fiere che risalivano dagli oscuri sotterranei dell'ipogeo.


Marziale, testimone oculare di quei giorni, compose il Liber de Spectaculis per celebrare la meraviglia di un'arena capace di ospitare battaglie navali e cacce esotiche, dove la natura stessa sembrava inchinarsi al volere di Cesare.


La giornata dei giochi seguiva un ritmo preciso, scandito dalla ferocia crescente degli spettacoli. Il mattino era dedicato alle venationes, le cacce alle bestie feroci.


Queste vedevano contrapposti uomini e animali provenienti dagli angoli piΓΉ remoti dell'impero. Leoni, tigri, orsi e persino struzzi venivano sollevati tramite complessi sistemi di ascensori e carrucole direttamente sull'arena, apparendo quasi magicamente dalla sabbia per essere massacrati.


Le fonti antiche riportano cifre impressionanti: durante l'inaugurazione voluta da Tito perirono novemila animali, un'ecatombe che serviva a dimostrare il dominio di Roma non solo sui popoli, ma sull'intero creato.


Nelle ore centrali della giornata, quando il sole era allo zenit e la maggior parte degli spettatori si allontanava per il pranzo, l'arena ospitava il momento piΓΉ crudo, quello delle esecuzioni capitali.

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Seneca, nelle sue lettere a Lucilio, descrive con orrore questi intermezzi meridiani, definendoli "puri omicidi" dove i condannati, privi di qualsiasi protezione, venivano esposti alle belve o costretti a uccidersi a vicenda.


La mitologia veniva spesso messa in scena in modo grottesco e reale: criminali vestiti da Orfeo venivano sbranati dagli orsi, o bruciati vivi indossando tuniche impregnate di pece per ricreare le sofferenze di eroi leggendari, trasformando la giustizia punitiva in teatro macabro.


Il culmine giungeva nel pomeriggio con i munera, i combattimenti tra gladiatori, veri protagonisti dell'evento. Qui il rapporto tra il principe e il popolo raggiungeva la sua massima espressione.


L'imperatore non era solo uno spettatore privilegiato seduto sul suo palco, ma il giudice supremo e il dispensatore di grazia.


Un suo cenno, spesso dettato dall'umore della folla urlante, decretava la vita o la morte del combattente sconfitto. Il sorriso dell'imperatore, o la sua commozione, diventavano atti politici.


Tito, in particolare, era noto per la sua prodigalità, gettando piccole sfere di legno contenenti buoni per cibo e vestiario verso il popolo, comprando così l'amore dei sudditi con il pane e il circo.


L'architettura stessa dell'anfiteatro rifletteva l'ordine sociale rigido e immutabile voluto dall'impero. I senatori sedevano sui gradini di marmo piΓΉ vicini all'azione, separati dalla plebe che occupava i settori superiori, fino alle donne e agli schiavi relegati nel loggione piΓΉ alto.


In questo microcosmo stratificato, ogni cittadino trovava il proprio posto assegnato, unito agli altri solo dal brivido collettivo della violenza legalizzata. Quando il sole tramontava e i cadaveri venivano trascinati via attraverso la Porta Libitinaria, restava sulla sabbia insanguinata il messaggio inequivocabile della dinastia Flavia: il potere di Roma era assoluto, capace di dare la morte e, con un sorriso, concedere la vita.


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