Nelle pieghe della tradizione ebraica medievale si annida una figura ambivalente e misteriosa: il Golem, creatura di terra animata dalla forza della parola. Non è soltanto un mito di magia, né una semplice leggenda rabbinica; piuttosto, è la proiezione di un’ossessione intellettuale e spirituale che attraversa l’intero Medioevo ebraico: l’idea che l’uomo, riflesso dell’atto creativo divino, potesse a sua volta dare forma alla vita.
Il termine gōlem appare solo una volta nella Bibbia, nel Salmo 139, dove designa l’embrione, la “massa informe” che Dio contempla nel grembo materno. È un termine di potenzialità, di non-finito. Proprio questa dimensione di incompiutezza diventa centrale nel Medioevo, quando il pensiero rabbinico e cabalistico rielabora la creazione dell’uomo come imitatio Dei. Se Dio ha plasmato Adamo dall’argilla e gli ha insufflato il respiro, allora l’uomo, tramite la conoscenza esoterica della Sefer Yetzirah, poteva almeno in parte replicare il gesto divino.
l Sefer Yetzirah, testo oscuro e densissimo, elaborava una cosmologia basata sulla combinazione delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico e delle 10 sefirot, i principi numerici e simbolici che reggono il cosmo. Nel pensiero cabalistico medievale, le lettere non erano meri segni, ma sostanze di potere: pronunciandole o disponendole in un certo ordine, era possibile influire sulla realtà. Non sorprende che la creazione del Golem fosse descritta come un’operazione di scrittura: incidere sulla fronte della creatura la parola emet , 'verità', o inserirne le lettere nella sua bocca, equivaleva ad animarla. Per disattivarla, bastava cancellare la prima lettera, lasciando met, 'morto'.
Ma il Golem non parlava. Questa particolarità, attestata già nelle fonti medievali, ha un valore simbolico profondo: la parola, nell’ebraismo, non è solo comunicazione, è creatività, potenza divina. Concedere la parola al Golem sarebbe stato un atto di superbia, un furto sacrilego. Così, la creatura rimane muta, strumento docile ma incompleto, riflesso dell’uomo stesso, che a sua volta è argilla animata dal soffio divino. In un certo senso, il Golem medievale è uno specchio: mostra al rabbino il limite del suo potere e gli ricorda che anche l’uomo, senza la grazia di Dio, non è che polvere e silenzio.
Le cronache medievali raccontano che i Golem venissero creati non per dominare o distruggere, ma come esercizio spirituale. I maestri della pietà renana (Chassidei Ashkenaz) avrebbero plasmato figure di terra nei boschi o nelle cantine, per poi dissolverle poco dopo: un rito ascetico, un modo per meditare sull’enigma della creazione. Era un gesto di pietas, non di magia nera: un atto per ricordare che l’uomo stesso è un Golem di Dio.
Eppure, la leggenda custodiva anche un lato oscuro. Alcuni racconti medievali narrano di Golem cresciuti troppo, diventati ingovernabili, quasi mostri titanici. Qui emerge un’altra verità simbolica: la creazione artificiale è sempre minacciata dal rischio di sfuggire al controllo. Il Golem diventa allora figura dell’hybris, della superbia umana che pretende di toccare i segreti della creazione senza possederli pienamente.
Per comprendere fino in fondo il fascino medievale per il Golem, occorre collocarlo in un contesto interculturale più ampio. Nel mondo arabo-islamico, testi come il Kitāb al-ḥiyal descrivevano automi idraulici, statue animate, macchine che si muovevano da sole. In Europa latina, filosofi come Alberto Magno o Ruggero Bacone erano talvolta accusati di aver costruito teste parlanti o statue capaci di rispondere. In questo orizzonte, il Golem appare come la versione ebraica di un sogno universale: creare artificialmente la vita. Ma mentre gli automi cristiani o arabi erano frutto della tecnica, ingranaggi e ingegneria, il Golem era opera di linguaggio sacro: non macchina, ma parola incarnata.
Questa differenza però generava sospetto. Per il mondo cristiano medievale, le pratiche cabalistiche che parlavano di creazioni artificiali erano viste come magia, se non come diaboliche. Il mito del Golem, così, si tingeva anche di un colore politico: diventava il simbolo di un presunto potere segreto degli ebrei, capace di manipolare la vita e la morte. In un contesto di tensioni e persecuzioni, queste narrazioni contribuirono ad alimentare paure e fantasie antigiudaiche.
Eppure, al di là delle paure e delle accuse, il Golem rimase una figura centrale perché parlava a una condizione esistenziale universale. Ogni uomo, nel pensiero medievale ebraico, è un Golem: massa di terra animata da un soffio che non gli appartiene. La leggenda non va dunque letta solo come cronaca di miracoli rabbinici, ma come parabola sul limite umano. La domanda implicita è eterna: fino a che punto l’uomo può partecipare dell’opera creatrice? E cosa accade quando la creatura sfugge di mano al suo creatore?
Non sorprende che la leggenda, nata come meditazione mistica, abbia attraversato i secoli per diventare archetipo moderno della creatura artificiale, progenitore di Frankenstein e delle intelligenze artificiali. Nel Medioevo, tuttavia, il Golem non era un incubo tecnologico, ma un enigma teologico: l’ombra di Dio riflessa nell’argilla, la promessa della vita eterna inscritta nelle lettere di un alfabeto sacro.
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