Nelle silenziose sale degli scriptoria monastici, tra il XII e il XIII secolo, la zoologia non era una scienza dedita all'osservazione empirica, bensì una branca della teologia. Per l'uomo medievale, la natura costituiva un II testo sacro, il Liber Naturae, che affiancava le Scritture.
Ogni creatura, dalla più umile alla più maestosa, esisteva con l'unico scopo di illustrare una verità divina o un ammonimento morale. I bestiari, opere splendidamente miniate e diffuse in tutta Europa, affondavano le loro radici nel Physiologus, un testo greco composto ad Alessandria d'Egitto tra il II e il III secolo.
Questo testo prototipo fuse la sapienza naturalistica di autori antichi come Plinio il Vecchio con l'esegesi biblica. Nelle pagine dei bestiari, la realtà biologica passava in secondo piano rispetto al significato allegorico, trasformando gli animali in attori di un dramma cosmico tra salvezza e dannazione.
Sfogliando codici celebri come il Bestiario di Aberdeen, si incontra il leone, re delle fiere, descritto mentre cancella le proprie tracce con la coda per sfuggire ai cacciatori. Questo atto veniva interpretato come Cristo che celò la sua divinità incarnandosi per ingannare il demonio.
La narrazione proseguiva raccontando di come i cuccioli di leone nascessero morti e venissero risvegliati al terzo giorno dall'alito del padre, una chiara prefigurazione della Resurrezione.
Altrettanto potente era l'immagine del pellicano che, secondo la tradizione, si lacerava il petto per nutrire i propri piccoli con il sangue, divenendo l'emblema supremo del sacrificio eucaristico e della Passione. Non vi era distinzione tra animali reali e creature fantastiche, poiché la loro esistenza era garantita dall'autorità degli antichi e dalla necessità teologica del loro significato.
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Il mondo animale serviva anche da specchio per le miserie umane e le insidie del peccato. Il castoro, per esempio, era protagonista di una narrazione cruda e moraleggiante. Si credeva che, braccato dai cacciatori per le sue parti intime ritenute medicamentose, l'animale si evirasse da solo lanciando via la parte ambita per salvarsi la vita.
L'esegesi medievale leggeva in questo atto un invito radicale al fedele, esortandolo a recidere ogni legame con i vizi e la lussuria per non cadere preda del diavolo.
Similmente, il riccio che raccoglieva l'uva sui propri aculei per portarla ai piccoli diventava metafora della prudenza spirituale, ma poteva anche assumere tratti negativi, rappresentando l'accumulo di peccati.
L'unicorno, creatura indomabile e feroce, occupava un posto d'onore in queste raccolte. Secondo i testi, nessuna forza umana poteva catturarlo, eccetto lo stratagemma di una fanciulla vergine lasciata sola nel bosco.
L'animale, ammansito dalla purezza della giovane, le posava il capo in grembo addormentandosi, permettendo così ai cacciatori di ucciderlo. Questa scena, raffigurata con eleganza gotica, era una complessa allegoria dell'Incarnazione: l'unicorno rappresentava Cristo che, attraverso il grembo della Vergine Maria, assumeva la natura umana e si consegnava alla morte per la redenzione del mondo.
Questi manoscritti non erano dunque semplici cataloghi di meraviglie, ma strumenti di meditazione visiva e testuale, dove la bellezza delle miniature serviva a imprimere nella memoria del lettore l'ordine morale dell'universo voluto dal Creatore.
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