L’Inquisizione spagnola fu il capolavoro di un’istituzione che, invece di predicare compassione, decise di trasformare la fede in un’arma da taglio. Non fu un incidente né una parentesi: fu il prodotto naturale di una Chiesa che, quando vide la possibilità di estendere il proprio dominio sull’intera esistenza umana, non esitò a costruire un apparato di terrore degno di un regime totalitario ante litteram. Il Vangelo era la cornice ornamentale; dentro c’era acciaio, calcolo, brama di controllo. Il tribunale inquisitoriale non difendeva la fede: difendeva il monopolio ecclesiastico sulla verità, ottenuto col metodo più semplice e brutale mai escogitato dagli uomini di tonaca, ossia mettere a tacere tutti, convincere il popolo che dissentire significasse morire.
La Chiesa non si limitò a permettere quell’orrore: lo progettò, lo amministrò, lo rivendicò. Il clero inquisitoriale si muoveva con la freddezza di un’amministrazione contabile: registrava sospetti, archiviava delazioni, confezionava accuse come se stesse sfornando pagine di un bilancio. Ogni sospetto era utile, ogni confessione estorta era un trofeo, ogni vita spezzata era una dimostrazione di forza. L’autorità ecclesiastica aveva trovato il metodo perfetto per garantire a se stessa un potere che nessun re da solo avrebbe mai potuto ottenere: il potere di setacciare non solo i comportamenti, ma i pensieri. Chi controlla le coscienze non ha rivali.
Le carceri dell’Inquisizione erano la concretizzazione della teologia dell’obbedienza: luoghi concepiti non per custodire, ma per annientare. Oscure, stagnanti, fuori dal tempo, erano laboratori di annichilimento psicologico in cui l’istituzione dimostrava quanto poco la dignità umana valesse accanto al prestigio del tribunale. Gli inquisitori non si chiedevano mai se un accusato fosse colpevole: si chiedevano quanto fosse utile farlo risultare tale. Ed erano molto bravi a ottenere ciò che volevano. Bastava un po’ di isolamento, qualche notte interminabile, e poi l’ingresso nella stanza in cui la teologia lasciava posto alla corda, alla carrucola, all’acqua versata con volontà chirurgica nella gola di chi implorava respiro. Tutto in nome di una verità rivelata così fragile da aver bisogno di supplizi per reggersi in piedi.
La tortura non era un incidente, era l’essenza del metodo: un sistema che pretende di parlare per conto del divino ma ha bisogno di slogare articolazioni per essere obbedito si qualifica da solo. Eppure l’istituzione non arrossiva: stilava regolamenti, distinguendo tra dolore “utile” e dolore “eccessivo” con un cinismo che rasenta il grottesco. Non c’era alcuna preoccupazione per l’umanità del prigioniero: il solo valore riconosciuto era la sua utilità nel confermare, con la confessione, che la Chiesa non sbagliava mai. Una macchina del potere non ammette errori: li sopprime. E la Chiesa del tempo, quando si trattava di sopprimere, aveva una determinazione ferrea.
Il teatro dell’auto de fe rappresentava il momento in cui l’istituzione mostrava apertamente ciò che era: non una guida spirituale, ma un’autorità che usava la religione come coreografia per intimidire. Le processioni, i sambenito, i roghi: era tutto un palcoscenico costruito per scolpire nella mente della popolazione un messaggio inequivocabile: la Chiesa è la legge, la Chiesa è il giudice, la Chiesa è l’unica voce ammessa. E se quella voce decide che qualcuno merita di essere marchiato a vita, esposto al pubblico ludibrio o bruciato, allora così deve essere. Non rimaneva alcuno spazio per il dubbio. Il dubbio era eresia, e l’eresia era proprietà dell’Inquisizione.
I conversos e i moriscos ne furono la dimostrazione più crudele: presi di mira non per ciò che facevano, ma per ciò che rappresentavano. La loro colpa era l’esistenza stessa, che gettava un’ombra sulla pretesa di uniformità dottrinale dell’istituzione ecclesiastica. Il tribunale li perseguitò con un fervore ossessivo, inventando reati spirituali come si inventano scuse quando si vuole colpire un bersaglio già deciso. Bastava una candela spenta il venerdì, una pietanza sospetta, un mormorio interpretato male. In un sistema costruito per accusare, la colpa non era un fatto: era una decisione.
Il sequestro dei beni era un altro pezzo del puzzle. La Chiesa non si vergognava affatto di arricchirsi attraverso il dolore altrui; anzi, incorporava il profitto nei meccanismi del processo come se fosse un passo sacramentale. Nessuna istituzione che si proclama custode della morale ha mai mostrato meno esitazione nel trasformare la giustizia in un pretesto economico. Arrestare un ricco faceva comodo, e guarda caso la provvidenza faceva sì che i ricchi risultassero eretici con una frequenza sorprendente. Il tribunale diventava così una macchina che convertiva l’accusa in patrimonio, la fede in contabilità, il potere spirituale in proprietà privata.
Il controllo sui libri era il tocco finale di questa impalcatura di oscurantismo. La Chiesa temeva la parola scritta più di qualsiasi esercito, perché le idee non si possono torturare né obbligare a confessare. Così iniziò a censurare, mutilare, proibire. Ogni libro che mostrasse un lume di autonomia intellettuale diventava immediatamente un rischio. Si cercava non solo di annientare l’eresia, ma di sterilizzare l’immaginazione. Per l’istituzione era intollerabile l’idea che qualcuno potesse pensare senza permesso. Il paradosso era totale: un potere che dichiarava di possedere la verità assoluta, terrorizzato dal fatto che qualcuno potesse leggerne un’altra.
E il dato più inquietante è che tutto questo non scatenò ripensamenti profondi, non provocò crisi morali nei vertici ecclesiastici. L’Inquisizione fu difesa, protetta, giustificata per generazioni. La Chiesa non mostrò pentimento mentre torturava; non mostrò pietà mentre confiscava; non mostrò esitazione mentre condannava innocenti; non mostrò dubbi mentre sorvegliava e manipolava l’intera società. L’istituzione si sentiva nel pieno diritto di compiere tutto ciò, convinta che il potere spirituale fosse un lasciapassare per ogni abuso.
E questa arroganza totalizzante è la parte più rivelatrice dell’intera vicenda. L’Inquisizione spagnola non dimostra solo cosa accade quando un’autorità religiosa ottiene troppo potere: dimostra che, quando l’istituzione ecclesiastica storica ha potuto esercitare un controllo illimitato, ha scelto sempre e sistematicamente l’opzione più repressiva, più violenta, più utile a sé stessa. La fede era un pretesto. Il dogma, una maschera. Il vero nucleo era il dominio.
L’Inquisizione non fu un errore. Fu un progetto. E il fatto che sia stato portato avanti così a lungo dimostra quanto la Chiesa fosse disposta a sacrificare vite, comunità, culture e libertà per difendere la propria autorità. Un’istituzione che predicava amore mentre costruiva camere di tortura, che parlava di misericordia mentre espropriava famiglie, che proclamava la verità mentre perseguitava chiunque osasse pensare.
Storia & Dintorni

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