Era il settembre dell’anno 9 dopo Cristo quando il destino dell’Impero Romano mutΓ² radicalmente sotto la pioggia incessante della Germania settentrionale. Publio Quintilio Varo, governatore della provincia, stava conducendo tre intere legioni – la XVII, la XVIII e la XIX – verso i quartieri invernali, convinto di marciare attraverso un territorio ormai pacificato.
La sua sicurezza riposava sulla fiducia concessa ad Arminio, principe della tribΓΉ dei Cherusci, che serviva come comandante di truppe ausiliarie e godeva della cittadinanza romana. Varo ignorava che proprio quel nobile cavaliere, educato a Roma e addestrato nelle tattiche militari latine, aveva tessuto una complessa rete di alleanze segrete con i Bructeri, i Marsi e i Catti per attirare le forze imperiali in una trappola mortale.
La colonna romana, appesantita da carriaggi, civili e salmerie, si estendeva per chilometri, rendendo impossibile qualsiasi schieramento in formazione da battaglia, il vero punto di forza della macchina bellica latina. Arminio guidΓ² i romani verso un passaggio obbligato, noto oggi grazie agli scavi archeologici nella localitΓ di Kalkriese. Si trattava di una stretta striscia di terra sabbiosa stretta tra una collina calcarea e una palude impervia.
Mentre le legioni avanzavano a fatica nel fango, rallentate dalle intemperie che inzuppavano gli scudi rendendoli pesanti e inutilizzabili, e allentavano le corde degli archi, si scatenΓ² l’inferno. Dalle alture boscose, protetti da terrapieni appositamente costruiti e mimetizzati nella vegetazione, i guerrieri germanici lanciarono una pioggia di giavellotti e sassi.
Successivamente, calarono con ferocia sui fianchi scoperti della colonna. La conformazione del terreno impedì ai legionari di serrare i ranghi; il caos regnò sovrano mentre i carri si rovesciavano e i soldati venivano isolati e abbattuti uno ad uno in una mischia confusa dove la disciplina romana non poteva trovare applicazione.
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La battaglia si protrasse per giorni in un’agonia lenta e inesorabile. I tentativi di Varo di spostare l’esercito verso un terreno aperto fallirono sistematicamente, respinti dalla guerriglia continua e dalle imboscate che erodevano il morale e le forze dei soldati ormai esausti.
Quando divenne evidente che ogni via di fuga era preclusa e che l’annientamento era certo, il governatore compΓ¬ l’ultimo atto tragico previsto dal codice d’onore romano: si gettΓ² sulla propria spada per non cadere vivo nelle mani del nemico.
Il suo suicidio segnΓ² il crollo definitivo della resistenza. Senza comando, i resti delle legioni furono massacrati; i pochi ufficiali sopravvissuti furono sacrificati sugli altari delle divinitΓ germaniche nei boschi sacri, e le aquile imperiali, sacri simboli delle legioni, vennero catturate come trofei supremi.
La notizia della disfatta raggiunse Roma come un fulmine, scuotendo le fondamenta del potere augusteo. Le fonti storiche tramandano l’immagine di un imperatore Ottaviano Augusto ormai anziano che, sconvolto dal lutto e dal timore di un'invasione, vagava per il palazzo colpendo con la testa gli stipiti delle porte, gridando la celebre frase in cui implorava Varo di rendergli le sue legioni.
Quel massacro nella foresta di Teutoburgo non rappresentΓ² solo una sconfitta militare, ma tracciΓ² un confine psicologico e geografico indelebile. Il Reno divenne la barriera che separava la civiltΓ latina dal mondo barbarico, ponendo fine per sempre al sogno di una Germania romana e cambiando il corso della storia europea.
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