Lo braccarono come un animale ferito. Giù in un burrone, fino a quando non lo circondarono, massacrandolo con tre armi diverse, tra pistole, mitraglietta e fucile. L’ultimo colpo alla bocca, con la lupara. La firma della mafia.
Rosario Livatino era “il giudice ragazzino”. Inflessibile, onesto, ma pieno di carità cristiana (era molto credente). La sua colpa era proprio quella di non essersi fermato di fronte alla Tangentopoli siciliana, che coinvolgeva mafiosi, politici, imprenditori. Fatture false per 52 miliardi di lire, tante persone coinvolte. Il giudice Livatino fece il suo dovere e si mise a rischio. Rifiutò persino la scorta e quando il 21 settembre del 1990 i mafiosi lo circondarono, non estrasse neppure la pistola che aveva in macchina. Non gli apparteneva quel difendersi con le armi, neppure quando gli sparavano addosso.
Morì nei campi della Sicilia, in un’ultima fuga disperata. Ferito ad una spalla, provò il tutto per tutto correndo via. “Che cosa vi ho fatto?” furono le ultime amare parole che rivolse ai sicari.
A uomini di Stato come Rosario Livatino va la nostra memoria. A chi per il Paese e la legalità ha dato tutto, anche la vita, diventando un esempio per tutti.
Leonardo Cecchi
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