ROMA
13 Settembre 2024
Residence Roma, odissea per la casa ottenuta grazie ai tanti picchetti e all'interessamento del giornale online GROGNARD.
Venerdì 13 settembre
a Roma ci sarà un nuovo picchetto antisfratto all’alba, per accompagnare Omar e la sua famiglia nella snervante attesa della polizia e dell’ufficiale giudiziario. Omar è uno dei membri dell’Assemblea di autodifesa dagli sfratti; oggi ha venticinque anni, ha una disabilità, e sin da piccolo subisce le conseguenze psicologiche delle “soluzioni” inadeguate proposte dalle istituzioni per chi non può entrare nel mercato immobiliare. La sua famiglia ha vissuto per anni in diversi centri di emergenza, “residence” e Caat, le strutture dove il Comune di Roma ammassa le persone senza casa. Nonostante le sporadiche dichiarazioni dei politici sul loro smantellamento, migliaia di persone ancora vivono in queste strutture per cui il Comune paga grandi cifre ai proprietari, e che lentamente distruggono la vita e la salute di chi non ha una casa. Ecco cosa il comune di Roma offre agli sfrattati, nell’anno del Giubileo, quando cioè tre miliardi di euro del Pnrr verranno spesi per adattare la città all’accoglienza dei pellegrini, mentre nulla si spende per le case popolari.
Negli ultimi mesi del 2001 la mia famiglia entrò nella struttura chiamata Residence Roma, in via di Bravetta 415, nata negli anni Ottanta per fronteggiare la precarietà abitativa di quel periodo. Fu il proprietario di una delle case dove avevano vissuto i miei, nella zona di Bravetta, a suggerire a mia madre di rivolgerci al residence, perché aveva bisogno della casa per il figlio. All’inizio il Comune disse loro che avremmo potuto soggiornare lì per sei mesi, per poi ricevere l’assegnazione della casa popolare; nei fatti ci siamo stati per cinque anni, fino alla chiusura. I miei pagavano un fitto tra i trecento e i cinquecento mensili. Solo di recente abbiamo scoperto che i canoni erano illegittimi, perché la permanenza doveva essere a carico del Comune. Avevamo una stanza fatiscente, senza acqua calda, in un palazzo in pessime condizioni, con gli ascensori rotti, vicini rumorosi, i topi e gli scarafaggi. Una volta dentro gli zaini di scuola gli insegnanti trovarono degli insetti, un evento scioccante che portò alla segnalazione da parte dell’autorità scolastica.
Nel 2006 – io avevo otto anni, mio fratello due – iniziarono a girare voci sulla chiusura del residence: già dalla primavera iniziarono le demolizioni. Era l’anno che l’Italia vinse i Mondiali; io, mia madre e mio fratello durante l’estate decidemmo di stare il meno possibile in Egitto, dove andavamo ogni anno, per paura di perdere il diritto alla casa popolare che ci avevano promesso. Qualche settimana dopo il nostro rientro, il 26 settembre 2006, la polizia entrò a censire gli inquilini, staccando le porte e distruggendo gli interni per evitare una nuova occupazione. Ad alcune famiglie vennero proposti dei “centri di accoglienza”, oppure trasferimenti verso altri residence sparsi per la città. Lo sgombero si concluse nell’agosto 2007. Nello stesso anno, per scongiurare nuove occupazioni, il complesso venne spogliato delle mura. Questi eventi sono in parte raccontati sia nel docufilm Roma Residence di Andrea Foschi (2007), sia nel filmato Residence Roma di Fabio Caramaschi (2000).
Noi fummo mandati in un Caat, Centro per l’assistenza alloggiativa temporanea, in via di Val Cannuta 148, nel quartiere Aurelio; era vicino alla mia ex scuola a Bravetta e al vecchio lavoro di mio padre a Trastevere. Ci abbiamo vissuto per cinque anni. Lì il problema era la convivenza con gli altri inquilini: litigavano tutti i giorni, mettevano la musica a tutto volume, altri usavano eroina e sbattevano i mobili contro i muri, i muri erano di cartongesso e noi sentivamo tutto, anche i gemiti quando facevano sesso. Parlammo con la direttrice chiedendole perché continuavano ad affiancarci gente problematica, lei ci rispose per assurdo “perché voi siete persone per bene!”.
Nel 2012 lasciammo la struttura perché, dopo aver chiesto di essere tenuti lontani da una coppia di vicini molto turbolenti, gli altri vicini ci iniziarono a prendere di mira, insultando il cibo della tradizione araba, o il fatto che mia mamma puliva sempre, arrivando addirittura alle minacce di morte. Così decidemmo di affittare un appartamento sul mercato privato; mio padre lavorava in un ristorante e iniziammo a pagare un canone di circa mille euro, vicino alla metro Cornelia. Però iniziarono i problemi sul lavoro – mio padre fu licenziato dal ristorante per cessata attività nel 2015 – e non riuscimmo più a pagare l’affitto. Ci rivolgemmo ai servizi sociali del nostro municipio, ma i colloqui erano la maggior parte delle volte a base di minacce, dicevano di voler separare la famiglia. Infatti, nel 2014 siamo stati sfrattati e il Comune ci ha divisi: io, mia mamma e mio fratello siamo stati messi in un centro di accoglienza sulla via Nomentana, dopo il Raccordo, un posto lontanissimo; mio padre è andato a vivere con altri coinquilini. Siamo stati tre mesi in questo centro. Ci mettevamo due ore per arrivare a scuola, e due ore per tornare, mamma era costretta a rimanere otto ore per strada ad aspettarci su una panchina fino a che uscivamo. Anche qui, tutto in condivisione e ospiti problematici. Naturalmente facemmo richiesta di casa popolare, ma siamo in lista da allora (dieci anni fa) e abbiamo ancora tremilacinquecento nuclei familiari prima di noi.
Dopo tre mesi ci spostarono in un altro centro, il Centro Giaccone sulla via Cassia, dove siamo stati per due anni. Lì era proprio l’equipe educativa a renderci la vita impossibile: tra l’altro la responsabile era una psicologa dell’emergenza che ha una mansione importante nella Regione Lazio. Ci minacciavano continuamente di mandarci via. Nonostante i referti psicologici mostrassero quanto il nostro problema non fosse psicologico, ma puramente la mancanza di una casa, gli assistenti sociali del tredicesimo municipio ci segnalarono al tribunale dei minori, cercando di far affidare mio fratello a una comunità; la loro idea probabilmente era che mia madre fosse rimandata in Egitto, in quanto a loro dire non era integrata con la cultura italiana, perché non parlava bene l’italiano. La obbligarono a fare i controlli sulla salute mentale all’ospedale San Gallicano di Trastevere. Ma sia i controlli che l’udienza andarono bene, tanto che nel decreto il giudice stabilì che la nostra famiglia doveva restare unita. A seguito di ciò, i servizi sociali proposero una collocazione presso un cohousing nella zona di Rebibbia, ancora molto lontano dalle nostre scuole, dove avremmo dovuto condividere l’appartamento con altre due famiglie. A quel punto ci rifiutammo. La responsabile del Centro Giaccone ci minacciò che avrebbe scritto di nuovo al tribunale dei minori per separarci da nostra madre. Noi le dicemmo che avrebbe potuto fare quello che le pareva.
Nel 2016 un’operatrice del centro arrivò a negarci la cena, con la scusa che stavamo già lì da due anni. Grazie a una relazione della Asl, che chiedeva ai servizi sociali di inserire la nostra famiglia in una struttura in cui non avremmo dovuto condividere lo spazio con altri, riuscimmo a uscire dal Centro Giaccone. Il Comune ci propose una casa famiglia in via del Casaletto: una stanza in un seminterrato senza finestre, dove dovevamo cucinare e dormire. L’assistente sociale ci disse che era una casa; solo dopo abbiamo scoperto che era una struttura di emergenza come quelle dove eravamo all’epoca. Anche qui, l’ennesimo rifiuto sostenuto con fierezza e determinazione. A quel punto non ce la facevamo più: tutti questi centri di accoglienza sono posti vergognosi e insostenibili. Mia madre decise di riportarci in Egitto, ma dopo due mesi fummo costretti a tornare, perché lì non avevamo modo di sostenerci. Era il 2017. Una volta rientrati in Italia mio fratello è finito in casa famiglia, questa volta mia madre era d’accordo, perché non sapeva più come gestire la situazione.
Quando siamo andati dai servizi sociali, l’assistente sociale che allora ci seguiva, ci ha detto: “Signora, voi avete rifiutato due posti; suo figlio minorenne è in casa famiglia e lei e suo figlio maggiorenne potete dormire per strada”. A quel punto abbiamo chiesto aiuto alla moschea di Centocelle, tramite una signora egiziana che frequenta questo luogo abbiamo trovato una stanza in subaffitto per un mese proprio sopra la moschea, da una signora tunisina; poi abbiamo subaffittato una stanza a quattrocento euro, in un appartamento in condivisione con altre due persone, parte del movimento di estrema destra dei Fratelli Musulmani, con cui era impossibile convivere. Da un’altra casa siamo dovuti andare via per le liti tra gli inquilini, che ci rinfacciavano che usavamo troppa acqua, e in un’altra ci siamo trovati con una coppia asiatica che si rifiutava di pagare la propria parte di affitto, che il proprietario rinfacciava a noi. Per una settimana abbiamo vissuto per strada, poi siamo andati in una stanza d’albergo, per cinque mesi. Io in quel periodo ho tentato il suicidio e sono stato quindici giorni in ospedale; mia mamma ha avuto diverse crisi, tanto da essere portata diverse volte in ambulanza.
A febbraio 2019 siamo arrivati nell’appartamento da cui ora rischiamo di essere sfrattati. Ci è stato subaffittato da un’inquilina etiope, sempre in nero, con un contratto falso di cui teoricamente il proprietario era a conoscenza. All’inizio pagavamo trecentocinquanta euro, poi ci hanno messo in casa altri inquilini e ci hanno ridotto l’affitto a duecentoquaranta. Questi inquilini non pagavano e il proprietario ci propose di pagare noi tutto l’appartamento, ma senza offrirci un contratto. A quel punto abbiamo smesso di pagare. Continuavamo a pagare le bollette, ma il proprietario ci ha staccato le utenze per mandarci via, è venuto a minacciarci, un giorno è entrato in casa con le sue chiavi, mentre mio fratello faceva i compiti. Da più di un anno viviamo senza acqua né luce, mia madre fa due chilometri a piedi per riempire le bottiglie alla fontanella, i telefoni li ricarichiamo al McDonald’s o in un centro commerciale, e mio fratello doveva fare i compiti con la luce dello smartphone. Ovviamente ha lasciato la scuola.
L’appartamento era probabilmente un ex lavatoio (il proprietario possedeva tutta la palazzina), pieno di macchie di umidità e di crepe, con i fili elettrici scoperti e le prese precarie. Continuamente ci si presenta a casa gente che prova a intimidirci per mandarci via. A ottobre 2021 si è presentata una signora che sosteneva di essere la nuova proprietaria; a novembre la stessa signora è tornata con un fabbro, che ci ha staccato la porta d’ingresso e se l’è portata via. Fortunatamente in quel periodo già stavo frequentando l’Assemblea di autodifesa dagli sfratti e un compagno marocchino – anche lui sotto sgombero – ci ha messo una nuova porta. Ho iniziato a frequentare l’assemblea dopo un picchetto antisfratto a Centocelle, quando tutti avevamo voglia di stare all’aperto dopo le restrizioni della pandemia. Ho chiesto l’intervento del Comune, anche attraverso Asia-Usb: due consiglieri della giunta Gualtieri, dopo che io ho raccontato il mio caso in televisione e sui social, sono venuti a trovarci a casa: Yuri Trombetti (Commissione patrimonio e politiche abitative) e Nella Converti (Commissione politiche sociali). Ma non ci hanno offerto niente, dopo le passerelle elettorali. Ed eccoci che ci ritroviamo a dover affrontare un nuovo sfratto. Tra l’altro, il Comune ci ha depennato dalla nostra vecchia residenza. Adesso, senza una residenza ufficiale, rischiamo anche che ci tolgano dalle liste di assegnazione delle case popolari.
Il punto è che queste sono “soluzioni tampone”, che funzionano per perpetuare il problema non per risolverlo. I residence, i centri di emergenza, sono ghetti, luoghi della disumanità, gestiti da cooperative sociali che mirano a creare profitto dalle persone in stato di disperazione. Sono strumenti per estrarre valore dalla povertà. L’associazione “Case al plurale” dichiara che nel Lazio si spendono 181 euro al giorno per ospite; soldi pubblici che potrebbero essere destinati all’edilizia residenziale pubblica e alla spesa sociale, invece vanno a dei “mediatori” che peggiorano la qualità della vita dei loro “ospiti”. La stessa idea di “accoglienza” è fuorviante. Le famiglie che non possono pagare un affitto non devono essere “accolte” nel paese in cui già vivono, sono nati o cresciuti; devono invece poter raggiungere una condizione di benessere, dignità e sviluppo della persona. Queste strutture lavorano esattamente per il contrario.
Tra gli operatori, molto spesso prevale una logica punitiva e diffidente verso gli ospiti, che sono costantemente giudicati, distinti in buoni e cattivi per giustificare le privazioni e mantenere la minaccia costante di espellerli dalla struttura. È una logica carceraria e caritatevole che fa stancare il nucleo familiare, magari già traumatizzato dalla perdita della casa. La convivenza è quasi sempre violenta, con dinamiche di sopraffazione e aggressività che gli enti gestori non vogliono o non riescono a mitigare. La permanenza nei centri teoricamente sarebbe temporanea, ma siccome non vengono fornite altre soluzioni, le persone rimangono per anni in un limbo. Inoltre, se si supera un certo reddito, anche se questo non dà la possibilità di affittare un alloggio, si rischia di perdere la possibilità di rimanere nella struttura: le persone sono invogliate a non lavorare, a lavorare al nero o a rimanere dipendenti dall’amministrazione, rendendo cronica una situazione che doveva essere di emergenza.
Nei residence, ogni nucleo familiare costa all’amministrazione capitolina circa milletrecento euro al mese. Eppure, gli appartamenti non ricevono mai manutenzione: i proprietari contano sul fatto che gli “ospiti” non potranno lamentarsi, perché li si presenta sempre come “privilegiati”, alloggiati gratuitamente dalle istituzioni. Dal 2013 la giunta Marino aveva iniziato un processo di dismissione, solo in parte riuscita: si è arrivati a chiudere venti strutture, passando da trentuno a undici residence, e risparmiando ventidue milioni di euro. Ma l’unica alternativa proposta è stata il “buono casa”, un sussidio pubblico per i proprietari di case che accettino di affittare un appartamento a una persona o una famiglia che vive in un residence: la misura si è rivelata fallimentare, perché la maggioranza dei proprietari non si fidano del Comune e dubitano che i pagamenti saranno puntuali o costanti. Diverse famiglie uscite dai Caat si sono ritrovate sotto sfratto quando il Comune ha smesso di pagare il contributo. Ma è fallita anche la soluzione proposta nel 2016 dalla sindaca Raggi, che inventò un percorso di uscita dall’emergenza abitativa chiamato Sassat (Servizio di assistenza e sostegno socio-alloggiativo temporaneo). In un anno, tra il 2018 e il 2019, furono pubblicati tre bandi per reperire all’incirca ottocento alloggi. Ma i bandi rimasero deserti e gli abitanti si trovarono a dover subire continui spostamenti da un Caat all’altro, man mano che scadevano i contratti. Ovviamente non potevano rifiutare gli spostamenti, altrimenti avrebbero perso il diritto a usufruire del servizio. (omar ahmed abdel azim)
Si ringrazia Manuela Marziale, autrice de "Espressione occipante".
Alessandro Verga
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