di
Fabrizio Lorusso
In una recente intervista all'accademico "messicanista" James Cockcroft su
Real News Network viene
avanzata un'ipotesi interessante. Provo a riassumerla e ampliare alcuni
punti che lì sono solo suggeriti per poi passare alla situazione
sociale messicana e alla recente occupazione simbolica della sede della
maggiore TV nazionale (TeleVisa, 5o gruppo media del mondo e primo in
America Latina) conclusasi venerdì 28. Secondo Cockcroft le banche
statunitensi, in fallimento (o quasi) dopo l'esplosione della bolla
immobiliare del 2008 e in piena crisi mondiale, avevano e hanno bisogno,
tra gli altri, dei flussi finanziari provenienti dal narcotraffico (il
secondo o terzo maggior generatore mondiale di movimenti monetari),
posseduti e riciclati in buona parte dai cartelli messicani e dagli
operatori statunitensi degli stessi. Quindi in Messico la lotta alle
fonti di finanziamento e la chiusura dei rubinetti del denaro dei narcos
è stata debolissima ed è una denuncia che moltissimi opinionisti ed
esperti hanno rivolto alle autorità. S'è privilegiata la politica di
militarizzazione della guerra ai narcos, spinta dal presidente messicano
Felipe Calderón del PAN (Partido Acción Nacional, destra) anche per
recuperare la scarsa legittimità (solo mezzo punto di scarto e brogli
elettorali) con cui aveva vinto le elezioni presidenziali del 2006
contro le sinistre e il loro candidato, Andrés Manuel López Obrador
(AMLO). La
narcoguerra degli ultimi 6 anni
ha causato 60mila morti e 16mila desaparecido, ma ha significato
un'epoca di vacche grasse per il traffico, lecito e illecito, di armi
oltreché per i piani (tipo il noto Plan Merida) di "aiuto" militare
statunitense in Messico e per operazioni illegali come Fast and Furious
(passaggio di armi USA-Messico) che hanno mostrato (di nuovo) come il
narco-business sia ormai diversificato, vantaggioso da entrambi i lati
della frontiera e come si sia ampliato e collegato al commercio di armi
(oltre che a quello di persone, di migiaia di veri e propri schiavi
contemporanei costretti alla prostituzione o uccisi per la vendita degli
organi).
Anche i desaparecidos di questa amministrazione militarista
stanno lì a testimoniare i nessi fecondi e criminali tra narcos, stato
(a vari livelli di governo), commerci illeciti, sistema economico
"legale": la riduzione in schiavitù di donne e uomini dei settori più
vulnerabili della società, il traffico e, sempre più spesso, la
sparizione di persone, la diffusione delle armi e il proliferare delle
mattanze sanguinarie vengono considerate in Messico come un male
necessario, nella migliore delle ipotesi, o come un effetto o danno
collaterale di una strategia che si presume vincente. Inoltre pare che
il PRI, il partito egemonico per 71 anni al potere dal 1929 al 2000,
abbia vinto le elezioni (siamo in una fase di grosse contestazioni verso
tutto il processo elettorale e la qualità della fragile democrazia
messicana) e il suo candidato Enrique Peña Nieto si appresta a diventare
presidente in mezzo a scandali, manifestazioni popolari di massa,
denunce e polemiche per la compravendita dei voti, gli eccessi enormi
(da 10 a 13 volte del budget previsto) delle spese di campagna e il
trattamento mediatico di gran favore ricevuto per anni da TeleVisa, la
principale catena TV nazionale.
Il 1 luglio scorso s'è votato per eleggere presidente e parlamento, 6
governatori locali e migliaia di altre cariche di tipo amministrativo.
Pochi media ne hanno parlato, ma ci sono stati 9 morti, 7 feriti, 66
arresti e migliaia di altre anomalie. Secondo Cockcroft l'eventuale
arrivo alla presidenza del leader della coalizione progressista, López
Obrador, che s'è ricandidato nel 2012 con un programma di austerità,
tagli alla politica e lotta alla corruzione e ora ha impugnato le
elezioni presso il tribunale elettorale per le irregolarità verificatesi
in tutto il processo, avrebbe rappresentato un grosso problema. Ma per
chi? Sarebbe forse stato un ostacolo evidente per i variegati business
illeciti che, in qualche modo, sostengono i flussi monetari Messico-Usa
e, in particolare, sarebbe stato problematico per i gruppi d'interesse
che da Washington a Mexico City, da El Paso a Sinaloa, sorvegliano e
mantengono in vita i meccanismi della criminalità organizzata e le
interazioni tra l'economia illegale, quella semisommersa e l'illegale
attraverso i business del sequestro e commercio di persone, droga, armi.
Obrador è osteggiato, in Messico (e si sa), ma probabilmente anche
negli USA. Cockcroft non sviluppa oltre l'idea nell'intervista, ma
intanto cominciamo a pensarci.
AMLO è stato l'unico candidato a proporre (poi andrebbe visto se sia
in grado di andare oltre le parole) un cambiamento netto di strategia
rispetto all'ultimo sessennio, mentre Peña Nieto viene visto da molti
come il candidato dei "patti con i narcos", in quanto erede della
corrente più retrograda e antidemocratica del PRI, quella del ritorno al
passato: è il cosiddetto gruppo dei "gobernadores", cioé i governatori
degli stati (21 su 32) in cui il PRI mantiene il potere locale e che
rischiano di diventare i bastioni di un nuovo regime autoritario, vera
nube nera sulla fragile democrazia messicana. Ma cosa sta succedendo
nella primavera messicana (ormai estate piovosa e di lotta) a livello
politico e sociale?
Dopo le presidenziali del primo luglio il Messico non ha ancora
ufficialmente un Presidente della Repubblica ed è immerso in un
conflitto che mette in discussione la legittimità del suo sistema
democratico. In mezzo a scandali per il superamento dei tetti di spesa,
i finanziamenti illeciti, i favori ricevuti dalle TV e la compravendita
dei voti, Enrique Peña del Partido Revolucionario Institucional (Pri),
partito di governo per 71 anni fino al 2000, ha vinto con il 38% dei
suffragi. Secondo, il leader della coalizione progressista López
Obrador, con il 31,5%. Il Presidente in carica Calderón, del
conservatore Acción Nacional (Pan) si affrettò a celebrare la riuscita
delle elezioni complimentandosi col "nuovo presidente" la sera stessa
del voto, ancor prima dei conteggi provvisori. Le televisioni gli fecero
eco e chiusero la questione, ma non fu così per milioni di messicani.
Mentre il vero saldo di sangue e anomalie del primo luglio spariva
dalla cronache e dai messaggi ufficiali a reti unificate, arrivavano
invece copiose le testimonianze della gente e degli osservatori
internazionali che descrivevano il caos prevalso in tante zone del
paese. La gravità della situazione era evidente soprattutto nel bastione
di Peña, l'Estado de México, regione da 16 milioni di abitanti (e da
10,5 milioni di votanti) da lui governata fino al 2011. Nel 2006 Peña
ordinò una delle peggiori repressioni della polizia contro la
popolazione civile ad Atenco e il saldo fu terribile: 2 morti, centinaia
di arresti e di feriti, stupri in carcere, violazioni ai diritti umani e
incarceramenti a tappeto e senza prove. Nessun responsabile,
criminalizzazione indebita dei movimenti sociali e popolari e un
boomerang che è tornato adesso indietro a Peña Nieto, carico di forze di
una nuova generazione di messicani che non dimenticano.
Migliaia di cittadini hanno denunciato irregolarità come la
compravendita di voti con carte prepagate del supermercato Soriana e
della banca Monex. La stampa ha rivelato i presunti nessi, oggetto di
indagini giudiziarie, tra queste imprese e persone legate al partito. Il
risultato è in sospeso. Il Tribunale Elettorale sta valutando le
migliaia di impugnazioni e di irregolarità segnalate sia dalla
coalizione progressista, che ha chiesto l'annullamento del voto, che dal
governativo Pan. La legge prevede l'annullamento nel caso in cui si
riscontrino anomalie nel 25% dei seggi e il Tribunale deve decidere
entro il 6 settembre se è stato violato il principio costituzionale
delle elezioni "libere e autentiche".
"Che il tribunale stabilisca da dove vengono le risorse che hanno
usato il Pri, l'alleato Partido Verde, Peña e i loro collegati,
imprenditori, costruttori e prestanome, e le aziende fantasma che son
venute fuori", spiega Camerino Márquez, rappresentante legale dei
progressisti. Fuori dai partiti il risveglio civico e la protesta sono
stati rilanciati dai social network, internet e dal movimento
studentesco, nato a maggio e battezzato
YoSoy132 (IoSono132)
dopo un video in cui 131 universitari rivendicavano la loro scelta di
opporsi a Peña e al Pri che li aveva sbeffeggiati in un evento pubblico
alla università privata IberoAmericana della capitale. Il candidato era
stato giustamente contestato per i fatti di Atenco del 2006 e per la sua
presenza mediatica strabordante frutto di un patto con la principale
catena TV, TeleVisa, rivelato da The Guardian il giugno scorso, ma da
tempo denunciato dai suoi oppositori. Ed è dal 20 maggio, giorno della
prima marcia anti-Peña organizzata attraverso i social network, che la
gente e il movimento studentesco non smettono di scendere in piazza,
praticamente ogni settimana, trovando forme di protesta pacifica sempre
più creative quanto decise.
Convocate da FaceBook e Twitter, il 7 luglio 150.000 persone hanno
manifestato per la democrazia, contro la "dittatura mediatica" delle TV,
TeleVisa e Azteca, e l'imposizione di un presidente "telegenico ma
illegittimo a suon di voti comprati". Il sabato seguente c'è stato il
bis e il 22 s'è svolta una marcia globale anti-Peña in 87 città del
mondo al grido di "fuera Peña" sulle note de La Bamba e "Peña non ha
vinto". Trenta persone sono state arrestate senza alcun motivo, come
testimoniato dai video su YouTube, veri garanti della trasparenza e dei
diritti umani, e poi liberate il giorno dopo nelle città di Oaxaca e
León, nel sud e nel centro del Messico. "E' l'intolleranza del governo
che criminalizza la protesta sociale", recita il comunicato degli
studenti in merito.
C'è chi va oltre e s'unisce alle voci che vedono il Pri come il
partito dei patti coi narcos. "Se non si chiarisce, se quei soldi son
venuti dalla criminalità, non abbiamo motivi per sopportare una
narco-squadra di politici nei prossimi sei anni", sostiene il vescovo di
Saltillo, Raúl Vera. Il 15 luglio sono iniziati i lavori della
Convenzione Nazionale contro l'Imposizione (
OJO: articolo di Andrea Spotti sulla Convención),
la quale riunisce 500 organizzazioni sociali, tra cui il sindacato
degli elettricisti, il coordinamento dei professori e YoSoy132 contro il
ritorno del Pri, visto come un pericolo per una fragile democrazia.
Nell'agenda di mobilitazioni accordata spicca l'occupazione simbolica
della sede di TeleVisa a Mexico City. Giovedì, proprio nel giorno
d'inaugurazione delle Olimpiadi, in 10.000, tra studenti YoSoy132 e
cittadini, hanno accampato per una notte con uno slogan su tutti: "non
vogliamo Olimpiadi ma rivoluzione". Concerti ed eventi culturali hanno
accompagnato la protesta che cerca di "democratizzare il paese
cominciando dai mezzi di comunicazione". Rispondendo anche a chi
criticava "il blocco" di una parte della città e della sede della TV, il
movimento 132
ha risposto nel suo comunicato finale:
"E' Televisa che ha bloccato l'informazione, che ha cercato di bloccare
la nostra mente, è responsabile del blocco più violento che possa
esistere: quello della democrazia". Pedro Penagos, membro del Tribunale
Elettorale, ha ribadito che "le manifestazioni non influiranno sui
magistrati", ma il nervosismo affiora nel Pri che ha capito che dovrà
affrontare una società più informata ed eterogenea rispetto all'epoca
della sua "dittatura perfetta", come definì lo scrittore Vargas Llosa
l'ancien régime messicano.
Due link in spagnolo ottimi per approfondire da The Narco News Bulletin
YoSoy132 e strategia di lotta
qui
Como non essere divorati dai dinosauri al potere
qui
www.carmillaonline.com