Innovare, trovare cioè idee che funzionino, richiede energie in abbondanza, più di quanto immaginiamo; qualche giorno fa, mentre leggevo “Quello che vuole la tecnologia” di Kevin Kelly (il co-fondatore della rivista Wired) ho trovato la cosiddetta “Piramide inversa dell’invenzione”, una tabella da cui emerge che a fronte di 10.000 / 1.000 inventori impegnati a riconoscere un’opportunità che porti a una specifica soluzione, solo uno di loro giungerà a svilupparla e portarla sul mercato. L’indicazione è molto simile a quella, nota da tempo, che ci ricorda che per generare due / tre idee nuove ce ne vogliono almeno cinquecento, del tutto inedite ma destinate poi a perdersi. Pensate quante idee sono state necessarie per arrivare ai successi di questi giorni al Cern di Ginevra; una dimostrazione straordinaria di partecipazione, condivisione e competizione di idee e teorie, messe a dura prova dagli esperimenti. Senza nuove idee, niente innovazione; senza idee in competizione non c’è progresso, nella scienza, nella tecnica e nella politica. Se di crescita abbiamo bisogno, ciò di cui proprio non possiamo fare a meno sono teste pensanti, cittadini consapevoli, informati, dotati di senso critico costruttivo; investire in ricerca e sviluppo dovrebbe dunque essere la priorità di un Paese impegnato a cambiare, a costruire nuovi scenari e realizzare nuove opportunità. Vale per le discipline scientifiche ma vale anche per la politica; la concorrenza nelle pratiche politiche ha bisogno di centinaia di idee nuove in concorrenza tra loro, esattamente ciò che un governo di tecnici non può consentire perché chiamato ad amministrare un modello preesistente ancorché deficitario.
Vi siete chiesti perché i paesi a ordinamento federale dimostrino in questi anni di crisi una resilienza che non appartiene ai sistemi centralisti, come il nostro? Nei modelli federali la diversità è sistemica ed è in genere in concorrenza con le altre specificità che insieme costituiscono l’unità del Paese. Tante idee diverse “parlano” tra di loro, si confrontano in competizione perché a sopravvivere siano solo quelle che funzionano davvero. Negli ordinamenti federali quella piramide inversa dell’invenzione è la quotidianità di lavoro e amministrazione. La Confederazione Elvetica, da questo punto di vista, resta un esempio istruttivo, probabilmente non esportabile nella sua complessità, ma certamente in alcune, specifiche buone pratiche.
Tra le buone pratiche paradigmatiche c’è l’energia nucleare, declinazione federalista di scelte strategiche cruciali nel futuro di un Paese. Nel maggio 2011, precedendo addirittura la Germania, il governo svizzero scelse, sulla base dei dati emersi dall’analisi avviata dal Datec (il dipartimento dell’ambiente) subito dopo gli eventi di Fukushima, un’uscita pilotata dal nucleare, con modalità ancora in evoluzione e tempi di riferimento legati al naturale ciclo di vita dei cinque reattori in funzione.
A differenza di quanto accadde nel resto d’Europa, infatti, la Confederazione ha reagito immediatamente, senza troppe chiacchiere, con molti fatti, chiedendo agli esperti di sviluppare uno studio destinato a valutare l’impatto delle scelte. In due mesi è arrivata l’analisi, che ha individuato limiti e vantaggi dei tre possibili scenari definiti. In discussione c’era la possibilità di mantenere l’attuale mix di fonti energetiche (in Svizzera il 40% dell’energia elettrica è nucleare; poco meno del 60% è idroelettrico, il rimanente è il frutto della combustione di combustibili fossili), con la sostituzione anticipata delle tre centrali nucleari più vecchie, oppure l’abbandono anticipato del nucleare, disattivando gli impianti prima del termine del ciclo di vita; infine la possibilità di lasciare che i reattori in funzione giungano al termine naturale di vita, senza procedere poi alla loro sostituzione, sviluppando al contempo fonti alternative, con attenzione soprattutto alle rinnovabili. A parlare, dunque sono stati in primis i dati, associati a una buona dose di pragmatica saggezza. Il Governo elvetico ha così sospeso le procedure di esame, peraltro già avviate, delle tre domande di autorizzazione per la costruzione di nuove centrali nucleari e ha dato corso all’impostazione del nuovo Piano energetico, senza per questo bloccare lo sviluppo del Piano Scorie, indispensabile per la selezione di siti destinati allo stoccaggio profondo delle scorie prodotte dalle centrali. La gradualità delle chiusure dovrebbe così consentire l’individuazione di un mix di fonti rinnovabili capaci di sostituire quel 40 per cento oggi di origine nucleare e la prima disattivazione in calendario dovrebbe coincidere con la disponibilità del nuovo deposito profondo per le scorie, previsto per il 2020. Se tutto procederà come stabilito, la prima disattivazione del reattore, quello più vecchio, Beznau 1 è attesa nel 2019, seguita nel 2022 da Beznau II e Mühleberg, Gösgen nel 2029 e Leibstadt nel 2034.
La scelta graduale interpreta al meglio il concetto di sostenibilità; trattandosi di una decisione di principio, a cui poi seguirà una legge specifica, l’indicazione del Consiglio federale non scende negli aspetti operativi ma individua le direttrici da seguire: completamento del ciclo di vita dei reattori, senza sostituzione del parco nucleare, contemporanea incentivazione della ricerca in campo energetico (piano Cleantech), potenziamento delle fonti idroelettriche e più in generale delle rinnovabili, parziale importazione e sviluppo di impianti di cogenerazione.
La gradualità nell’abbandono del nucleare dovrebbe lasciare tutto il tempo necessario per il riassetto del sistema energetico; secondo il Consiglio si tratta di una soluzione tecnicamente ed economicamente sostenibile che tiene conto del probabile aumento dei prezzi dell’energia elettrica in tutta Europa, frutto del rinnovo di infrastrutture e centrali elettriche. Proprio per questo l’impatto sulla competitività della Svizzera non dovrebbe avere ripercussioni anche se è possibile che cittadini e imprese si trovino ad affrontare prezzi più alti. Al tempo stesso, i tempi lunghi lasciano ulteriore spazio alla riflessione, alla ricerca, alla valutazione di nuove soluzioni tecniche; insomma non è escluso che l’opzione nucleare possa tornare di attualità in futuro.
Pensate che i cinque impianti svizzeri sono stati costruiti tra il 1969 e il 1984, sono in grado di fornire una quota di energia compresa tra il 39 e il 45%, ben al di sopra della media europea, pari al 33 per cento e si trovano tutti concentrati nell’area più popolosa del paese (una centrale ogni milione e mezzo di abitanti), a qualche centinaia di chilometri in linea d’aria da casa nostra (rispetto a Milano la centrale più vicina è a circa 200 chilometri). La politica energetica nucleare elvetica risale addirittura al 1946 e dal 1957 è incardinata nella Costituzione; la prima Legge sull’energia nucleare risale al 1959, più volte rivisitata fino alla versione attuale del 2005 che ha reso ancor più selettivo il processo per il rilascio delle autorizzazioni. Oggi la competenza sull’energia nucleare (art. 90 della Costituzione) è interamente riservata alla Confederazione, in particolare al Consiglio Federale (in sostanza, il Governo) e poi all’Assemblea Federale, con la partecipazione dei Cantoni nelle fasi di osservazioni preliminari al rilascio delle autorizzazioni. Con la legge sul nucleare del 2005 e l’ordinanza specifica associata (una sorta di regolamento attuativo) si è introdotto anche il referendum facoltativo cantonale nel caso di rilascio dell’autorizzazione di massima per i nuovi impianti nucleari, permettendo così di esercitare la democrazia diretta. La forza dell’esperienza elvetica sta nelle procedure chiare e trasparenti, oltre che nella semplicità organizzativa. In media ci vogliono quindici anni dalla richiesta dell’autorizzazione di massima, una sorta di individuazione del sito, fino al rilascio della licenza d’esercizio, soggetta peraltro a nuove perizie sulla sicurezza, al deposito pubblico dei risultati, alle eventuali osservazioni e infine alla decisione finale. Tutto ciò non esclude, ovviamente, il ricorso a iniziative popolari che rimettano in discussione le scelte; l’ultima consultazione popolare in questo senso risale a maggio 2003, quando i cittadini furono chiamati a votare l’iniziativa “Corrente senza nucleare”, destinata a disattivare le centrali in funzione. Ebbene la risposta dei cittadini fu un sonoro NO, rafforzato dal NO di tutti i Cantoni con la sola eccezione di Basilea Città.
Cruciale, nel futuro energetico della Confederazione, il ruolo della ricerca pubblica, inquadrata in un Piano Direttore, aggiornato ogni quattro anni. In questo contesto così articolato va collocata anche la scelta di uscire dal nucleare entro il 2034, scelta tecnicamente complessa che si sta avvalendo sin da ora di studi approfonditi e che non ha affatto interrotto il processo, già in atto da qualche anno, per la selezione dei siti destinati al deposito di scorie radioattive in strati geologici profondi.
In questo approccio ragionato al nucleare non manca l’analisi dei costi di disattivazione delle centrali che, stando all’ultimo studio di novembre 2011, sono superiori del 10% rispetto alle previsioni 2006. Si badi bene: i costi di disattivazione così come quelli di smaltimento delle scorie in Svizzera sono garantiti da due Fondi indipendenti, quello di disattivazione e quello di smaltimento, alimentati dai contributi dei gestori delle centrali; lo stabilisce la legge sull’energia nucleare che, appunto, guarda da sempre tanto al presente che al futuro. Che le centrali cessino o meno il proprio servizio, è necessario identificare uno o più siti in cui stoccare le scorie, non solo quelle provenienti dagli impianti nucleari ma anche quelle frutto della ricerca e dei laboratori medici. A dicembre 2011 si è conclusa la prima tappa di questo processo, con l’identificazione di sei aree, la raccolta dei pareri dei Comuni interessati svizzeri, tedeschi e francesi vista la prossimità con i due paesi europei delle zone individuate, le indicazioni emerse dalla fase di audizione pubblica. Ora il Consiglio federale ha affidato proprio al Datec lo sviluppo della seconda tappa, quattro anni in cui le aree proposte saranno oggetto di analisi di dettaglio, in cui le regioni di ubicazione studieranno gli effetti socio economici oltre che ecologici, in cui svilupperanno strategie, misure e progetti per lo sviluppo sostenibile. Solo a conclusione di queste azioni si passerà alle selezione definitiva dei due siti, con il Consiglio federale che rilascerà l’autorizzazione di massima, da approvare in Parlamento e da assoggettare a referendum facoltativo.
Solo qualche giorno fa, lo scorso 2 luglio, l’Ufe (Ufficio federale dell’energia) ha reso noto il primo rapporto intermedio dello studio quadriennale in corso sugli effetti economici ed ecologici; il pragmatismo elvetico, infatti, non dimentica di pesare gli effetti socio economici nelle sei aree candidate; un approccio obiettivo che dovrebbe contenere quella sindrome da noi assai diffusa che scatena polemiche e talvolta violenze ogni volta che si parla di infrastrutture essenziali. Con un ciclo di vita di 94 anni, un deposito in strati profondi di scorie debolmente e mediamente radioattive (Sdm) genera, direttamente e indirettamente, un valore aggiunto annuale compreso tra i 4,4 e i 5,5 milioni di franchi; per scorie altamente radioattive (Saa) il valore aggiunto è compreso tra i 15 e i 16,3 milioni di franchi. Anche i posti di lavoro generati variano dai 35 / 45 dei depositi Sdm ai 109 / 120 di un Saa, numero che cresce ancora quando il deposito è combinato (tutte le tipologie di scorie), per superare i 150. Il rapporto, inoltre, ricorda come i depositi diventino catalizzatori di turismo, soprattutto regionale, caratteristica questa tipica di tutti gli impianti svizzeri, costantemente aperti al pubblico, grazie a un sistema efficiente di informazione e alla disponibilità di tecnici dediti alla divulgazione. Effetti negativi sui turisti che amano la natura sono attesi invece per i depositi eventualmente sviluppati in aree a forte connotazione naturale, come la regione del Giura; qui è atteso un ridimensionamento del fatturato pari a 1,1 milioni di franchi. In crescita nelle fasi iniziali, invece, il gettito fiscale annuo medio, destinato poi a ridimensionarsi in funzione dell’evoluzione dell’economia della zona e dell’indotto effettivamente generato. Il rapporto giunge alla conclusione che i cambiamenti socioeconomici generati nella regione di riferimento sono modesti, inferiori all’uno per cento del valore attuale.
In attesa del rapporto finale, atteso per il 2013, i dati emersi sono un primo, prezioso indicatore metodologico; scelte e decisioni finali sono il frutto di analisi, il prodotto di metriche individuate e indici esplorati; tante idee, nuove, insieme in competizione, alla ricerca di risposte da condividere; è la risposta federalista alle sfide tecnologiche contemporanee.
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