Traffico d'organi israeliano? Stavolta, ad affermarlo non è un qualunque giornalista complottista antisemita. E’ il procuratore dell’Unione Europea distaccato nel Kosovo, di nome Jonathan Ratel, che ha portato il caso davanti al tribunale distrettuale di Pristina.
E’ la conclusione di due anni di indagini: cominciate nel novembre 2008, quando all’aeroporto di Pristina (la capitale del Kosovo) gli agenti notarono un uomo di nazionalità turca, Ylmaz Altun, che aspettava il suo aereo per tornare a casa. L’uomo era pallidissimo e stremato. Interrogato, ammise di aver appena subito l’espianto di un rene, da lui venduto ad un paziente israeliano.
L’intervento aveva avuto luogo in una clinica privata di lusso di Pristina, chiamata Medicus. Fatta irruzione nella clinica, la Polizia ha effettivamente trovato un israeliano in terapia post-operatoria. In seguito è stato possibile ricostruire che la clinica era il centro di una rete che traffica organi di volontari scelti fra gente in condizioni di estrema miseria in Moldavia, Kazakstan, Russia e Turchia. Questi poveracci erano attratti con la promessa di un pagamento di 20 mila dollari, che nessuno di loro ha mai visto. I ricchi ricevitori dei trapianti pagavano invece 110-137 mila dollari per ogni operazione.
Sette medici che lavoravano nella clinica Medicus, o collaboravano al traffico, sono stati identificati. Cinque sono kosovari, alcuni localmente stimatissimi: uno, già ministro della Sanità, aveva dato alla clinica una licenza falsa. A dirigere le operazioni era Lufti Dervishi, un professore universitario. Fra i capi ci sono un cittadino turco e un israeliano, attivamente ricercati dall’Interpol (Kosovo 'organ trafficking' exposed).
Il Consiglio d’Europa (benemerita istituzione a cui l’eurocrazia non riconosce alcun potere) «ha richiesto una serie di indagini, nazionali e internazionali, sulla base delle segnalazioni di sparizioni, traffico di organi, corruzione e collusione che vedrebbero coinvolti gruppi criminali organizzati e ambienti politici in Kosovo». Esistono infatti «numerosi indizi, concreti e convergenti» che confermano che kosovari di etnia serba e albanese sarebbero stati tenuti prigionieri in luoghi di detenzione segreti sotto il controllo dell’UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo) nel Nord dell’Albania, e sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, prima della loro definitiva scomparsa, si sospetta dopo essere stati espiantati. Intanto ha stilato un rapporto che - essendo numerosi ed attivi nelle istituzioni europee i Friends of Israel - farà certamente la fine che ha fatto il Rapporto Goldstone dell’ONU sulle atrocità commesse a Gaza.
E’ dunque solo a futura memoria che ricordiamo i precedenti più rilevanti di questa calunniosa storia, che mira ovviamente a delegittimare Israele. Nel luglio 2009, l’FBI ha arrestato cinque rabbini di Brooklyn per una complicata faccenda di traffico d’organi e riciclaggio, con prove incontrovertibili: tale rabbi Levy Ytzak Rosenbaum, uno dei cinque, era stato intercettato mentre, al telefono, si offriva di procurare un rene per un paziente ebreo alla modica cifra di 160 mila dollari; rene donato da un individuo dell’Est, a cui erano stati promessi dollari 10 mila.
La faccenda sollevò sentimenti di comprensione nella comunità giudaica americana. Sulla rivista Slate il columnist Benjamin Cohen spiegava che il vero delitto non è quello di rabbi Rosenbaum, ma il fatto che tanti americani bisognosi di un rene «non possano legalmente comprarlo da un donatore volontario» (Organ Failure).
Per tante ragioni culturali e religiose, spiegava il comprensivo Cohen, gli ebrei non vogliono donare i loro organi (è brutto risorgere in un corpo senza un rene): solo l’8% hanno la tessera di donatori, contro il 35% della gente occidentale. Il che lascia spazio per un lucroso mercato nero; un mercato aperto e legale risolverebbe il problema (il mercato risolve sempre tutti i problemi, con la mano invisibile).
Si ritiene (ma questo Cohen non lo dice) che, quando pazienti di Sion si recano all’estero in posti esotici come le Filippine, il Sudafrica, l’Ucraina e il Kosovo, e tornano col rene nuovo, il servizio sanitario israeliano copra le spese, secondo la politica «io non chiedo e tu non dirmelo» (don’t ask, don’t tell) che il Pentagono adotta verso i militari gay. Solo di tanto in tanto scoppiano scandali che portano alla luce l’orrido mercato, e allora se ne scoprono le dimensioni ragguardevoli.
Per esempio nell’aprile 2010 una donna di Nazareth denunciò di essere stata portata in volo in Azerbaijan, espiantata colà di un rene per un ebreo, ma di non aver ricevuto i 10 mila dollari promessi. L’inchiesta ha smantellato una rete, in cui è stato arrestato persino un generale, Meir Zamir, eroe del glorioso Tsahal, che dopo la pensione occupava il tempo in questa attività.
A settembre 2010, lo scandalo è scoppiato in Sudafrica, dove tale Richard Friedland, primario del Saint Augustine Hospital in Durban e capo della principale compagnia sanitaria nazionale, Netcare, operava a faceva operare una rete di spaccio di organi per israeliani. Il procacciatore era un ebreo di nome Ilan Perry, che esigeva da 97 a 118 mila dollari per un rene, che lui otteneva a 6 mila (Police smash Israeli organ-trafficking ring).
Nell’agosto 2010 la polizia ucraina ha arrestato un paio di israeliani (di cui non ha fatto il nome) che dirigevano un fitto mercato di organi – tratti per lo più da giovani donne bisognose – da spedire poi in Israele con un ottimo profitto. Il che sembra offrire una qualche conferma alla favola calunniosa che corre in Ucraina, secondo cui negli ultimi cinque anni migliaia di bambini ucraini sono stati portati in Israele per essere usati come ricambi: racconto fantastico, inverosimile, da mettere sul conto del tradizionale antisemitismo ucraino.
Anche il quotidiano svedese Aftonbladet, nel 2009, è stato accusato di antisemitismo per aver riportato le denunce di numerose famiglie palestinesi nei Territori Occupati, convinte che i giovani palestinesi uccisi o gravemente feriti dal glorioso Tsahal vengono poi restituiti svuotati degli organi. Notizia, come si sa, senza il minimo fondamento.
Il governo israeliano ha chiesto al governo svedese di condannare l’articolo dell’Aftonbladet. La reazione è stata controproducente: come ha lamentato Lena Posner, presidentessa del Consiglio delle comunità ebraiche svedesi, l’atteggiamento del governo israeliano «ha trasformato un dibattito sull’antisemitismo in un dibattito sulla libertà di stampa; è ovvio che il governo svedese non condannerà l’articolo; qui la libertà di espressione è sacra».
Anche in Italia la libertà di espressione è relativamente sacra, purchè il governo israeliano e i suoi emissari non ne chiedano la censura. Invece in Svezia, l’opinione pubblica non sembra avere queste limitazioni mentali: in un sondaggio sull’articolo di Aftonbladet, nel 2009, il 66% degli interpellati si dichiarò assolutamente contrario a che il governo svedese porgesse scuse ufficiali al goerno di Sion; il 33% ammise che, se mai, doveva scusarsi la direzione di Aftonbladet; il 92% trovò la pretesa di Israele di scuse ufficiali di Stato, per ciò che aveva scritto un giornalista svedese, «irragionevoli». Non stupisce che ogni tanto un attentato islamico debba colpire un’opinione pubblica di così dura cervice (Swedish Jews: Israel gave IDF organ harvesting claims center stage).
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