giovedì 23 febbraio 2012

Sudan: il dramma dimenticato

 

 

Il Sudan non sarà più lo stesso ...


  

"[...] sia che questo porti all’unità o alla secessione, il Sudan non sarà mai più lo stesso perché i suoi cittadini avranno esercitato il loro diritto ad una scelta libera e democratica[...]"
(documento dei vescovi sudanesi)


Il Sudan non sarà mai più lo stesso

La Speranza: “Forgeranno le loro spade in vomeri,
le loro lance in falci!” (Is 2, 4)

p. Daniele Moschetti


Sono grandi la speranza e le aspettative che aiutano la gente ad avere fiducia in un cambiamento che davvero sarebbe storico non solo per il Sudan ma anche per tutta l’Africa. Anche se ad oggi, a garanzia del rispetto degli accordi di pace che nel 2005 posero fine a una guerra civile ventennale, in Sudan sono dispiegati circa 10.000 peacekeeper dell'Onu. E l’ONU sta valutando con il governo di Khartoum e il governo semiautonomo di Juba se rafforzare il contingente dei “caschi blu”. Segno questo però non certo incoraggiante così come le mosse e dichiarazioni contradditorie del generale Omar al Bashir durante tutto questo tempo.
Il presidente sudanese Omar al-Bashir , è uno dei più “celebri politici africani”. Ribalta conquistata anche grazie a un primato mondiale: essere il primo Capo di Stato in carica a ricevere una condanna dalla Cpi del tribunale internazionale dell’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità, oltreché genocidio, commessi in Darfur. Nonostante la fedina penale insanguinata per gli eccidi nella regione occidentale del suo paese, al-Bashir non ha grossi problemi a viaggiare all'estero come invece dovrebbe. Se ce ne sono vengono risolti secondo canoni istituzionali.
Lo si è visto in Kenya non molti mesi fa e qualche settimana fa fa un vertice dell'Igad, Autorità intergovernativa per lo sviluppo dei paesi del Corno d'Africa) sui confini sudanesi in vista del referendum. Il meeting è stato spostato da Nairobi ad Addis Abeba. Un cambio di programma reso necessario per non bissare le polemiche seguite alla visita di al-Bashir nella capitale kenyota, l'estate scorsa. In quell'occasione ventitrè organizzazioni per la difesa dei diritti umani protestarono per la trasferta del generale sudanese, definendola un insulto al rispetto delle leggi internazionali.

LE OMBRE CINESI
Principale partner commerciale del Sudan, dove in base all'articolo 149 del codice di procedura penale, lo stupro è equiparato all'adulterio, è un altro Stato che non va troppo per il sottile in quanto a diritti umani: la Cina. Il volume di scambi tra Pechino e Khartoum è pari a 6,39 miliardi di dollari. La Cina ha fiutato da tempo le potenzialità africane. Risultando molto più apprezzato degli ex-colonizzatori. In occasione della visita in Sudan del presidente cinese Hu Jintao, tre anni fa, Pechino ha firmato prestiti senza interessi al regime di Khartoum e ha cancellato contemporaneamente milioni di dollari di debito del Paese africano. Il know-how cinese è alla base dell'ammodernamento del Sudan, ben visibile nella capitale, che negli ultimi dieci anni ha cambiato i connotati dello sky-line.
L'occasione cinese è stata colta anche grazie alle punizioni occidentali . L’opportunità è stata cavalcata quando finanziamenti di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale sono saltati, per cause riconducibili al terrorismo internazionale. Ma oggi, nessuno pare avere la puzza sotto il naso, quando si tratta di fare affari col Sudan dell'incriminato al-Bashir. Il Brasile di Lula, per esempio, ha firmato accordi per 500 milioni di dollari nel settore agricolo. Persino chi ha dato addosso con veemenza al Generale, quando è scattato il mandato di cattura della Cpi, cambia tono. Mettendosi in fila, per una fetta della grande torta sudanese
Ma su questo Referendum ci sono molti attori che vogliono far pesare la loro opinione e decisione. È il caso di personaggi come Muhammar Gheddafi. Durante un recente vertice della Lega araba a Sirte, in Libia, il colonnello libico ha definito «pericoloso e contagioso» per il continente africano, un esito separatista del referendum sudanese. A turbare i sonni di Gheddafi, è il nuovo corso che Salva Kiir, presidente del Sud Sudan e vice-presidente del Sudan, intende far intraprendere al Sud Sudan. Qualche tempo fa ha rilasciato un’intervista che poi venne rettificata ma le prime dichiarazioni sono bastate immediatamente per lanciare accuse e discredito sulla possibile secessione. Salva Kiir avea dichiarato: «In caso di secessione dal resto del Sudan, non è escluso che possano nascere ottimi rapporti diplomatici con Israele e che nella nostra capitale, Juba, ci possa essere una loro ambasciata. Lo stato ebraico è considerato come un nemico solo dai paesi arabi e in particolare dai palestinesi mentre non è un nostro nemico. Se vinceranno i sì al referendum disegneremo una nuova politica estera del nostro nuovo stato». Probabilmente un Sud Sudan indipendente, si collocherebbe nella sfera di alleanze allargate strategiche della Nato. In cui rientrano altri paesi africani come Uganda, Kenya, Etiopia e Ruanda. Alleati chiave di Washington.
È continuerà ad essere un complicato intreccio geopolitico-militare, in cui gli interessi economici vengono prima di tutto. Però incombe ora l'incognita per la tenuta della pace, in caso di separazione tra nord e sud . Lo stesso al-Bashir si è contraddetto sulla questione, affermando da una parte di rispettare l'esito del referendum, dall'altra, che non intende accettare «nessuna altra opzione rispetto all'unità» del paese. Proprio per questo, è prevedibile che il nuovo corso di un Sud Sudan indipendente, non sia preso alla leggera da colossi come la China National Petroleum Company . Ovvero dalla Cina. Un tempo, prima che arrivassero gli asiatici, le concessioni per l'estrazione del petrolio a sud del Sudan le avevano altri. Per esempio la statunitense Chevron. Se in un prossimo futuro Salva Kir aprisse realmente a Israele chissà a chi potrebbero andare nuove concessioni.

OBIETTIVO: ORO NERO 
E' quindi il petrolio uno dei principali propulsori che ha letteralmente fatto esplodere l'economia. Il Sudan ne ha molto. Il Sudan è il terzo produttore continentale, con una media di 470 mila barili al giorno e riserve per circa 6,3 miliardi di barili ma il 75 per cento di questa fortuna si concentra al sud mentre raffinerie e porti sono al nord. Il petrolio è uno dei massimi fattori di conflitto. Il sud accusa Khartoum di accaparrarsi la maggior parte degli introiti che invece spetterebbero alla parte meridionale del Paese, che ha nell'oro nero la sua principale garanzia di sopravvivenza. Solo nel 2008, il governo di Juba ha incassato 1,9 miliardi di dollari. Il nord, in questa partita, ha tutto da perdere. Non è un caso che non molto tempo fa il ministro dell'Economia sudanese, Ali Mahmood Abdel-Rasool, ha detto di pregare Allah che il Sudan del Sud non dichiari la secessione: “Perderemmo il 70 per cento delle nostre riserve petrolifere e il 50 per cento della rendita".
Qualche settimana fa tanto dall'entourage della presidenza sudanese che di quella del Sudan meridionale sono arrivati riferimenti espliciti ad una possibile guerra : "Se scoppierà, sarà peggiore dell'ultima", hanno dichiarato alcune persone vicine al presidente Omar al Bashir. E l’epicentro è Abiyei, un piccolo territorio a cavallo del confine dei due stati che il 9 gennaio voterà in un referendum particolare, per decidere oltre se alla secessione o unità anche a quale dei due Paesi aderire. Qui c'è molto petrolio e la posta in gioco è davvero alta. In più non è ancora chiaro chi avrà diritto al voto. Juba accusa Khartoum di insediare la popolazione nomade Massiryia musulmane per alterare gli equilibri etnici e assicurarsi un risultato favorevole per poter continuare a sfruttare gli enormi giacimenti di petrolio.
Ma anche la segretaria di Stato Americana, Hilary Clinton ha cercato di immedesimarsi nella parte dei Nord Sudanesi chiedendosi: "Cosa fareste voi se all'improvviso tracciassero una linea e perdeste il 70 per cento delle vostre rendite petrolifere?". Il timore è che Al Bashir e il suo National Congress Party possano usare l'esercito. "Il problema è cosa succederà quando l'inevitabile accadrà", ha spiegato nel suo intervento il Segretario di Stato. Perché molti si aspettano che l’esito del referendum sia già scontato: secessione.
E che l'opzione militare sia una strada obbligata lo cominciano a sospettare in molti. "Ci stiamo preparando per una tale evenienza", ha confessato alla stampa Philip J. Crowley, uno degli uomini più vicini alla Clinton. Circa un mese fa, infatti, ha cominciato a circolare la notizia che il Sudan del Sud ha ricevuto i primi elicotteri militari ordinati alla Kavaz russa nel marzo 2007. Quattro Mi 17-V5 sarebbero arrivati a metà agosto in una base militare di Entebbe, Uganda. I
primi di una commessa di 10 velivoli, per una spesa di 75 milioni di dollari. Ufficiali governativi hanno sempre dichiarato che sono elicotteri da trasporto e che non c’è nessuna intenzione bellicosa. Ma come ben sappiamo questi modelli possono essere facilmente modificati e dotati di mitragliatrici e caricati con bombe da 500 chili. Ed è poco per contenere il potenziale dell'aviazione nord sudanese, che conta su una decina di Antonov per lanciare bombe, una cinquantina di elicotteri d'attacco e una quarantina di mezzi "ibridi".
E allora Washinghton ha dato il via ad un' operazione diplomatica formalmente mirata a contenere il conflitto se non a disinnescarlo. Nelle ultime settimane è stato aperto a Juba una sorta di consolato mentre è cresciuto il numero e il peso del personale diplomatico americano nella regione con l'arrivo di un console generale. Con una linea sempre aperta con l'Unione Africana. Dobbiamo ricordare che il 24 settembre al Sudan è stato dedicato un meeting storico alle Nazioni Unite al quale ha partecipato anche il presidente americano Barack Obama. Obama ha ribaduto che il Sudan del Sud resta una delle massime priorità da sempre della diplomazia Usa. Che guarda con sospetto alla crescita del peso di Teheran nell'area, uno dei migliori alleati di Omar Al Bashir. Anche questo solo in relazione al terrorismo? All’orizzonte per il Sudan come per altri paesi africani si apre un nuovo neocolonialismo peggiore del colonialismo del secolo scorso. Cinquant’anni dopo le dichiarazioni d’indipendenza, il continente africano vende la propria terra, i suoi tesori, proprio quelli per cui generazioni intere hanno lottato. L’acquisizione di terreni da parte di nazioni e società straniere sta preoccupando. Le cifre mondiali di questo accaparramento sono ancora imprecise, ma la Banca Mondiale indica grandi cessioni, secondo i dati ufficiali forniti da alcuni paesi: 3.9 milioni di ettari in Sudan e 1,2 milioni di ettari in Etiopia tra il 2004 ed il 2009. Le nazioni o le loro società, private o pubbliche e i fondi sovrani (veicoli di investimento pubblici controllati direttamente dai governi dei relativi paesi) che dicono di voler garantire i loro approvvigionamenti per beni alimentari ed agro alimentari, e non dipendere più dai mercati imperiali, troppo instabili.
I tassi di rendimento agricolo annuale sono molto alti in Africa (+ 400%). Si ritrovano, in questo nuovo smembramento dell’Africa, i grandi attori di sempre dell’industria agroalimentare che hanno messo le mani sulle piantagioni prima della loro statalizzazione: la svedese Black Earth Farming, l’inglese Lonrho in Angola o nel conglomerato sudafricano, Agri Sa che governa su 10 milioni di ettari nella Rdc, ma anche in modo sorprendente alcuni industriali come Hyundai e Daewoo, giganti della finanza internazionale. Tempi duri.... durissimi per un popolo mal tutelato dalla comunità internazionale. 



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