Un paese oppresso dai debiti e da un'amministrazione corrotta e obsoleta, che sopravvive solo grazie ai soldi delle potenze europee. Sembra la descrizione della Grecia di oggi, invece è il resoconto fatto da un osservatore francese nel 1858.
La Grecia è l’unico esempio di un paese che vive in bancarotta sin dal giorno della propria fondazione. Se la Francia o l’Inghilterra vivessero anche solo un anno in simili condizioni, si assisterebbe a catastrofi terribili. La Grecia, invece, ha vissuto in pace oltre vent’anni di bancarotta. Tutti i bilanci, dal primo all’ultimo, sono in passivo.
Quando in un paese civile le entrate non bastano a coprire le uscite, si ricorre a prestiti a livello interno. È un sistema che il governo greco non ha mai sperimentato, né potrebbe sperimentare. Perché la Grecia potesse negoziare un prestito all’estero c’è stato bisogno che le sue potenze protettrici ne garantissero la solvibilità. Le risorse fornite da questo prestito sono state scialacquate dal governo, senza alcun vantaggio per il paese, e una volta dilapidati i soldi è stato necessario che i garanti, per puro buon cuore, ne onorassero gli interessi. La Grecia non sarebbe stata in grado di pagarli.
Oggi Atene rinuncia alla speranza di potersi affrancare un giorno dai suoi debiti. Nel caso in cui le tre potenze soccorritrici continuassero all’infinito a pagare per lei, la Grecia non si ritroverebbe in condizioni migliori: le sue spese non sarebbero coperte dalle sue entrate.
La Grecia è l’unico paese civilizzato al mondo nel quale le imposte si pagano in natura. Il denaro è a tal punto raro nelle campagne che è stato indispensabile ritornare a questa forma di raccolta delle imposte. Il governo ha cercato in un primo tempo di imporre il regime fiscale, ma dopo poco gli agricoltori sono venuti meno agli obblighi verso lo stato, che non ha potuto obbligarli a versare il dovuto. Da quando lo stato si è assunto l’incarico di raccogliere le imposte, le spese a ciò connesse sono aumentate e le entrate sono salite di poco.
I contribuenti fanno ciò che facevano gli agricoltori: non pagano. I ricchi proprietari, che sono anche personaggi influenti, trovano modo di eludere lo stato, corrompendo o intimidendo i funzionari pubblici. E costoro – malpagati, senza un avvenire garantito, sicuri di essere licenziati al primo avvicendamento di ministri – non prendono affatto a cuore gli interessi dello stato. Badano soltanto a farsi delle amicizie, ad accattivarsi i potenti, a trarre profitto. Quanto ai piccoli proprietari, che devono pagare per i grandi, sono esentati dai pignoramenti grazie a qualche conoscenza tra i potenti oppure alla loro stessa miseria.
La legalità in Grecia non è mai quella entità incorruttibile che siamo abituati a conoscere. Gli impiegati danno retta ai contribuenti e appena si inizia a darsi del “tu” e ci si chiama fratelli si trova un modo per intendersi. Tutti i greci si conoscono molto e si amano un po’, ma non conoscono quasi per nulla quell’entità astratta chiamata stato, e non l’amano affatto. E l’esattore è prudente: sa che non bisogna esasperare nessuno, che ha strade buie da percorrere prima di arrivare a casa e non si azzarda a correre rischi.
I contribuenti nomadi provano soddisfazione a non pagare le imposte e lo ritengono motivo d’onore. Pensano, come ai tempi dei turchi, che il loro nemico sia il loro padrone e che il diritto più bello di ogni uomo sia di tenere per sé i propri soldi. Ecco perché i ministri delle finanze fino al 1846 preparavano due bilanci delle entrate: il primo, quello d’esercizio, indicava le somme che il governo avrebbe dovuto ricevere nell’anno e i diritti che avrebbe acquisito; l’altro, il bilancio di gestione, indicava ciò che sperava di incassare.
Dato che i ministri delle finanze sono soggetti a commettere errori a vantaggio dello stato nel calcolo delle tasse plausibilmente raccolte, è stato necessario pensare a un terzo bilancio, quello che indica gli importi che il governo era sicuro di poter riscuotere. Per esempio, nel 1845 per la produzione degli oliveti su suolo pubblico, regolarmente affittati ai privati, il ministero aveva scritto sul bilancio d’esercizio la cifra di 441.800 dracme.
Sperava che di quella somma lo stato sarebbe stato fortunato a incassarne 61.500. Tale speranza in realtà era illusoria, tenuto conto che l’anno precedente lo stato non aveva percepito 441.800 dracme e neppure 61.500 per quella medesima voce, ma 4.458 dracme e 31 centesimi, vale a dire circa l’uno per cento del dovuto. Nel 1846 il ministro delle finanze non ha redatto più il bilancio di gestione, e da allora è invalsa l’abitudine di non farlo.
Nessun commento:
Posta un commento