Giorgio Gaber se n’è andato vent’anni fa, ed ha lasciato tantissimo a chi lo ha seguito nella sua svolta teatrale. E’ riuscito ad arrivare anche alla generazione dei cinquantenni o giù di lì, che lo hanno scoperto quasi sempre grazie ai genitori gaberiani. Ma non è arrivato, se non in parte, ai giovani.
Gaber è stato uno dei più grandi pensatori del Novecento e ha avuto solo due difetti. Il primo è che se n’è andato troppo presto, il Primo Gennaio 2003, a neanche 64 anni. Il secondo è che, una volta abbandonata la tivù all’apice del successo nel 1969, ha detestato farsi riprendere in video. E Gaber non andava solo ascoltato, ma anche visto. Per fortuna, in quei trent’anni di perfezione di Teatro Canzone dal 1970 al 2000, in almeno due occasioni lo “costrinsero” a eternare in video parte del suo repertorio, sul finire dei Settanta (retrospettiva Rai) e a inizio 1990 (Versiliana). E proprio grazie a quel materiale irrinunciabile – unito alle sue apparizioni mirate nella tv svizzera – possiamo avere piena contezza di quanto la sua presenza scenica fosse mostruosa.
Gaber è un unicum artistico: lo conoscono tutti, ma in realtà non lo conosce - veramente - quasi nessuno. C’è ancora troppa gente che, quando sente il suo nome, reagisce tipo effetto Pavlov dicendo sempre le stesse cose (“Eh, però la moglie berlusconiana…”). Oppure citando le solite due o tre canzoni ridotte a slogan: La libertà, Destra-sinistra. Due brani tra tanti, e neanche i migliori. La seconda era un giochino che l’ultimo Gaber interpretò quasi nei ritagli di tempo, mentre quel “Libertà è partecipazione” – che troppi politici hanno citato ignobilmente, inconsapevoli del fatto che Gaber li avrebbe mandati serenamente affanculo – non era che un ritornello venuto bene e baciato da troppo successo. Un successo che a Gaber dava un po’ fastidio, perché temeva di essere semplificato e depotenziato. Paura legittima: chi in questi vent’anni ha cercato di annacquarlo e santificarlo – levigandone gli spigoli – lo ha reiteratamente violentato, con la scusa nobile ma talora equivoca della salvaguardia della memoria.
Quando si parla di Gaber, e andrebbe fatto sempre perché Giorgio è stato un artista prodigioso e ogni città dovrebbe avere una via col suo nome, non si può prescindere da alcuni punti fermi. Il Gaber televisivo dei Sessanta era già geniale, ma il Gaber vero è quello del Teatro Canzone. Gaber non è mai stato facile o rassicurante: ti scorticava, non aveva pietà e sapeva elevare il concetto di invettiva a livelli inauditi. Gaber non era solo quello lirico di Non insegnate ai bambini, ma – ancor più – quello iconoclasta e spietato di Quando è moda è moda e Io se fossi Dio. Gaber non sarebbe esistito – non quello teatrale, almeno – senza Sandro Luporini, pittore, intellettuale e immane genio pigro, con cui il Signor G ha concepito tutto (e a dirla tutta i testi sono più di Sandro che di Giorgio).
Gaber non dava risposte, ma alimentava dubbi. Gaber è l’unico al mondo ad essere partito da Sanremo, Cerutti Gino e Torpedo Blu per poi arrivare all’eresia più conclamata del teatro incazzato e militante. Gaber non aveva etichette, se non quella di “anarcoide”. Gaber bastonava tutti, non per qualunquismo ma per utopia. Gaber non era pessimista, casomai un nichilista costruttivo. Gaber odiava dischi e discografia, e anche per questo non è facile da avvicinare (ma se lo scopri, poi, non lo lasci più). Gaber era presenza scenica, forza teatrale e fisicità debordante. Gaber ci ha lasciato tutto, e noi non abbiamo imparato quasi nulla. Gaber era Gaber e non avrà mai eredi (quello che lo interpreta meglio resta Giulio Casale). Gaber, come Pasolini, era profetico anzitutto quando non avrebbe voluto, sempre avanti e sempre libero. Gaber era onestà intellettuale.
Gaber era risate (il monologo Luciano andrebbe insegnato nelle scuole), Gaber era lacrime (Il dilemma, L’insolito commiato del signor Augusto), Gaber era indignazione vitale (Qualcuno era comunista). Gaber era pubblico, ma anche privato (Chiedo scusa se parlo di Maria). Gaber era un musicista sopraffino. Gaber, se andava in tivù dopo i Settanta, lo faceva di rado, controvoglia e solo se ad invitarlo erano amici (Minà, Celentano, Carrà). Gaber era talent scout (Battiato lo ha scoperto lui, e lo spettacolo Polli di allevamento con arrangiamenti di Battiato e Giusto Pio è un capolavoro assoluto). Gaber non aveva paura delle contestazioni, anzi a volte le cercava. Gaber e Luporini ti cambiavano (anzi cambiano) la vita. Gaber era una bella persona. Gaber era un cane sciolto, Gaber era un gabbiano ipotetico. Gaber era italiano, per fortuna e purtroppo.
Gaber era coscienza critica, Gaber era fratello maggiore. Gaber buttava lì qualcosa, e dopo averlo visto ti sentivi meno solo. Forse addirittura migliore.
(Uscito il 30 dicembre sul Fatto)
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Andrea Scanzi
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