domenica 31 agosto 2014

MASADA 1565 CAPITOLO 13


MASADA n° 1565 ROMANZO- UNA SECONDA POSSIBILITA’- CAPITOLO 13

Viviana Vivarelli

Omaggio a Elisa – L’amore è più forte della morte- I figli. Un mistero

Ho imparato a capire
che il dover morire
fa parte della vita.
Che ogni giorno è morire
in ogni battito del cuore.
Ed è con tenerezza infinita
che la comprensione acquista
mi costringe ad amare la vita.

(Elisa)

Oggi sono molto contenta. Ieri ho ricevuto quattro persone in pena e spero di aver dato ad ognuna un po’ di speranza, fiducia nella vita, coraggio per andare avanti. Mi spiace di aver risposto male a una persona che voleva solo vedermi. Rispondo sempre male a chi vuole solo vedermi come se fossi una curiosità da andare a trovare o un pezzo da museo da visitare, ma devo moderare anche questo. Sono io che sbaglio. Ci sarà un senso anche nella sola curiosità e potrebbe essere un tramite per dare qualcosa di me anche così. Devo rendermi conto che ogni cosa ha il suo senso e non devo respingerla solo perché non lo vedo. Ma migliorerò.
Proseguo le mie cure a distanza sull’amica operata di cancro che è sotto chemio e sul signore di 88 anni che non ho visto mai, ma che curo sulla foto e che per Enrico è come un secondo padre. Anzi oggi l’ho sentito per telefono e mi ha detto che sta bene con una bella voce calda e gentile. La mia amica, poi, è andata a una festa e ha ballato il rock and roll. Sono due miracoli. Non li ho fatti io. Li ha fatti la vita,
Ma io stessa ho sperimentato i miracoli della vita. Qualche volta sono i miracoli della morte, ché poi morte e vita non sono due opposti ma l’una confluisce nell’altra e solo quando non ci crediamo non riusciamo a vederne la continuità.
Ho avuto anche una lettera di insulti per quello che scrivo, ma non mi ha tolto il senso di aver fatto qualcosa di bene, anzi mi ha ridimensionato e mi ha fatto capire quanto è difficile vivere bene e come si debba accettare anche di essere insultati se si cerca di aiutare gli altri, perché il mondo ha bisogno di tutti e contiene tutto, ma va bene così. Va bene così.

Quando presi a sperimentare la scrittura automatica, il messaggio in genere riguardava me; l’angelo mi dava consigli su come condurre la mia vita ed era rigoroso e severo. Questi angeli furono diversi e sembravano succedersi secondo una sequenza connessa alle fasi della vita di cui capii ben poco. A volte chiedevo per altri e mi furono dette cose che non sapevo, anche di uomini e donne di cui non conoscevo nulla, nemmeno il nome... Qualche volta i messaggi furono belli, ma ce ne fu uno…
Prima però, devo ricordare il primo cerchio che tenni nella mia casa, quando iniziò il mio lavoro con gli adulti e si formò questo gruppo bellissimo con cui realizzammo tutti un grosso lavoro di coscienza e di evoluzione. Passavamo molto tempo insieme, mezza giornata la settimana, più tanti incontri bellissimi a casa dell’una o dell’altra o in montagna o al parco, e scandagliammo insieme con grande entusiasmo vari campi del sapere, partendo dalla filosofia, poi la psicologia, la psicoanalisi… ma più di tutto parlammo dei nostri problemi che erano quasi sempre problemi della relazione famigliare.
Il gruppo durò otto anni e divenne per noi una seconda famiglia, provocando fenomeni psichici sincronici notevolissimi. Come avviene per due elettroni che hanno fatto un stesso lavoro, fare lavoro d’anima creò un gruppo telepatico, perché cosa c’è di meglio che piangere insieme ridere insieme, mangiare insieme e cantare insieme, per essere una cosa sola? Per cui le nostre onde mentali entrarono in fase in modo armonico, amplificandosi, e capitava che durante la settimana una avesse un problema, un’altra lo sognasse, la terza portasse un libro che conteneva la soluzione o si fosse imbattuta in una storia, una poesia, una frase che lo riguardava. Anche i sogni presero ad intrecciarsi come se ci fosse una sola mente che ci guidava in una armonia crescente e fu in questo gruppo che apparvero spontaneamente gli angeli. Ci furono anche vari fenomeni paranormali che alcune avvertirono simultaneamente, non tutte, ma alcune sì.
Su questo gruppo io scrissi, come ho detto, otto grossi libri di analisi, otto diari in cui riportai ogni loro osservazione e variazione. Loro li leggevano e questo serviva a rivedersi oggettivandosi, producendo un fenomeno di amplificazione del corso evolutivo, una specie di analisi collettiva e di evoluzione collettiva.

Una delle persone più belle del gruppo, amatissima da tutti, fu Elisa.  Non so nemmeno dire se fosse bella. Piccola e mobile, esile e acerba, con un’aria da eterna ragazzina. Ma per noi è sempre stata bellissima.
Ho la sua foto davanti che mi sorride col suo sorriso dolce e ammiccante ed è come averla vicina. Minuta, col visino triangolare e i capelli corti e biondo chiaro, ricci come quelli di un bambino. L’amica per antonomasia, la migliore delle creature e la più deliziosa e accogliente  delle padrone di casa.
La conobbi a casa di Graziella che ci faceva provare, mi sembra, qualche sua ginnastica rilassante, e, dopo, mentre aspettavamo l’autobus su un marciapiede di Via Saragozza, la invitai ai miei ‘incontri di filosofia’. Ma lei si schermì dicendo che la filosofia non la interessava. Ma non era vero.
Poi ricevetti uno strano biglietto in cui si firmava ‘piccolo fiore’, che mi inquietò perché odio le lettere anonime e non immaginai nemmeno che fosse lei. Infine si decise a venire, convinta dalle altre. E da allora non ci lasciò più …finché fu in vita e diventò uno dei pilastri portanti del nostro cerchio di amiche.
Era del Leone, gentile e solare, innamorata come tutti i segni Leone, del mare e del caldo, amante dei viaggi che compiva prevalentemente in camper col marito Gino, un grosso orso ruvido e a tratti volgare, con la fronte bassa e i lineamenti pesanti.
La sua casa era molto bella, piena di oggetti strani acquistati nei viaggi, una casa dei ricordi, circondata da un giardino verde. Bravissima cuoca, di una accoglienza e gentilezza straordinarie.
Ma la vera casa era quella di montagna, una casuccia sull’Appennino, in un piccolo gruppo di case rurali, fuori paese, dove andava ai fine settimana e dove andammo a volte anche noi, la casa delle fate. Piccola e angusta con le finestrelle di un tempo a inferriate, il camino, e mobili vecchi e d’accatto, vecchie seggiole impagliate, panche, il lungo tavolo esterno sotto la pergola d’uva, il prato antistante malcurato, il bosco di castagni vicino, il panorama quieto. Niente di pregiato o spettacolare, ma proprio per il suo sapore di tempi andati e il suo carattere rustico e senza pretese, un luogo dove sbracarsi, essere se stessi, sedersi sullo scalino o sdraiarsi nell’erba, mangiare tutti insieme padellate di cose deliziose, salvia appena colta e fritta, spaghetti a olio e ajo, salsicce alla griglia, bevendo vino rosso e imbriacandosi un poco, tra il sole e l’ombra cangiante della pergola, sotto cui era bello cantare a squarciagola o ridere a crepapelle o sognare come cullati dall’insieme odoroso di rosmarino e mentuccia, tra le mosche e gli uccellini, nella brezza leggera o nel calore del sole che irradia, tra una fauna strana di cani, gatti, galline, persone bizzarre pescate chissà dove, veri soggetti da esame psichiatrico, ché lei tutti accoglieva con la stessa cordialità e gentilezza e metteva tutti insieme, il grande primario col contadino, la ragazza rumena con la vecchia duchessa, l’intellettuale con la casalinga…
Dolcissima Elisa, di una disponibilità e cordialità infinita, quasi infantile nei suoi entusiasmi e nei suoi vestiti da bambina sul corpo esile, lieta e aperta alla gioia, sempre positiva, anche quando era triste, anche quando doveva essere disperata.
Era una cuoca straordinaria, capace di trasformare un pugno di erbe di campo in una frittata deliziosa e profumata o di creare una complicata torta nuziale impalpabile e candida come una nuvola da grand’Hotel. Era la persona perfetta che faceva sentire a suo agio anche il ragazzotto non sbocciato e infelice o la nevrotica di turno. Tutti con lei si rilassavano, stavano bene, erano a casa.
Il marito accanto a lei spiccava per contrasto. Scuro quanto lei era bionda. Grosso quanto lei era piccolina. Grossolano quanto lei era aerea e aggraziata. Cosa avesse unito due esseri così diversi rrimase sempre un mistero.
Venne anche lui ai corsi qualche volta. Ci faceva ridere con barzellette pesanti, spesso in dialetto bolognese, che dovevano averlo aiutato quando faceva il rappresentante di mattonelle; non so quanto seguisse i nostri discorsi filosofici, ma c’era in lui come una violenza trattenuta, uno sbandamento genetico, da manigoldo, e spesso ci sbalordiva con racconti su se stesso da cui emergeva una mancanza di scrupoli e una furbizia basse e meschine. Innamoratissimo della moglie, era però capace di farla soffrire crudelmente e di approfittarsi di lei, che riusciva comunque ad addolcirlo e migliorarlo. La faceva piangere spesso, perché diceva che dopo “Rendeva di più sessualmente!” Lei gli rispondeva: “Amami meno, ma amami meglio!”
Eppure quell’uomo grossolano e corpulento faceva dei sogni bellissimi e poetici. Ne ricordo una che chiamai “il sogno in forma di mandala”.
"Sono in un monastero cistercense, giallo dorato, col sole che lo illumina,  vedo il giardino con in mezzo con la fontana,  4 lati e il portico, in mezzo il vecchio pozzo, tutto è bellissimo, restaurato; dal portico si aprono, come occhi illuminati dal sole, le varie sale piene di quadri in oro, bellissimi, finestre bifore e trifore, lavorate. Sfarzo incredibile, cuscini, divani.
Per quanto il sognatore apparisse come un uomo grossolano e aggressivo, attaccato al bere, al mangiare e al sesso, il sogno era molto più evoluto di lui, un mandala dove abbiamo la centralità quadrata dell'inconscio, il luogo della calma e della gioia. É bellissimo anche l'insieme di stanze (possibilità) attorno a questo Sé quadrato. Gino ha  sognato la sua immagine interiore, la sua anima. La quaternità è l'elemento stabile dell'universo. Il sogno è arioso, aperto, la fontana zampillante! Quale migliore immagine dell'anima che risorge, rimessa a nuovo, antica e bella
Gino era un uomo spavaldo e privo di scrupoli, ma, finché lei fu in vita, questa specie di vulcano in procinto di erompere fu in grado di condurre un’esistenza normale e di sembrare una persona perbene. Ma, quando lei morì, la sua vita prese strade strane e storte. Cominciò a bere fino a cadere in crisi etiliche e prese a fare frequenti viaggi in Brasile dove cercava un piacere torbido e trasgressivo con minori di entrambi i sessi, cosa di cui al ritorno si vantava con gli amici di Elisa, così scandalizzati dalla sua pesantezza greve e insopportabile che alla fine smisero di invitarlo, ché anche quegli inviti glieli avevano fatto per memoria di lei.
Elisa aveva due figli, che erano già grandi quando la conobbi, ed erano enormemente diversi da lei, senza somigliare nemmeno al padre, la ragazza grezza e quasi maschile, brusca e sgarbata, il maschio inquieto, senza pace, con sfuggenti occhi scuri, altrettanto sgarbato e indisponente. E’ incredibile a volte quanto i membri di una stessa famiglia non si somiglino affatto, come isole separate e senza analogie. Se Elisa avrebbe potuto aprire una scuola per insegnare la grazia e l’accoglienza, i figli sembravano alieni dalla gentilezza e dalla cordialità della madre, come scogli rinserrati in se stessi in una cupezza angosciante.
L’umanità e la dolcezza di Elisa, invece, erano tali che chiunque la conosceva si sentiva in diritto di disporne continuamente, di invaderla, di sfogarsi con lei in ogni momento della giornata, di usarla come psicologo o confessore. E lei con tutti era  accogliente, sempre disponibile, senza dare mai segni di stanchezza, anche con i più paranoici, e nel gruppo ne avevamo, capace di dare giusti consigli, di alleggerire una situazione pesante, di dire un motto spiritoso per sdrammatizzare una tragedia, per ridurre a dimensioni normali un dramma.
Credo che di lei ricordiamo soprattutto la sua gaiezza, l’incredibile leggerezza che portava con sé come fosse una farfalla.

In verità non aveva avuto una vita facile. La madre era morta presto di leucemia e lei stessa, giovanissima, aveva avuto questa malattia terribile, e, in quel tempo, era stata l’unica sopravissuta delle malate di leucemia all’ospedale S. Orsola. La sua guarigione era stata considerata una specie di miracolo. La vita le aveva dato una seconda possibilità. E lei l’aveva usata al meglio, per il bene degli altri.
Salvata per vero miracolo da quel male tremendo, si era dedicata alle famiglie dei ragazzi leucemici dell’ospedale S. Orsola e le ospitava spesso, quando venivano dal sud, e andava a trovare i ragazzi malati presentando se stessa come una guarigione possibile. Era in costante rapporto con dei medici del S. Orsola che invitava alle sue favolose cene. Ma era anche l’ancora e la salvezza di una serie di sbandati, isterici, complessati, nevrotici che accoglieva e ospitava con la massima gioia, come se fossero delle perle.
Noi tutte amavamo Elisa per la sua gaiezza costante, la sua luce allegra e sbarazzina, la capacità di accoglierci e ascoltarci ogni volta che avevamo dei dispiaceri e di saperci portare alla fiducia e alla speranza. Ci accoglieva anche nella sua casina rustica di montagna e penso spesso a quelle domeniche bellissime, nel grande prato o sotto i castagni, al sole, e a come ci sentivamo spensierate e felici, ritornati bambine.
Ricordo che una volta, a tavola, eravamo mezze ubriache e prendemmo a cantare pezzi d’opera, senza sapere le parole e nemmeno la musica, cosa che ci faceva ridere ancora di più, in un tripudio generale e Pia, che era la più compassata e perbenista, si sbracò togliendosi la camicetta e rimanendo in reggiseno, persa in una totale felicità e cantando completamente sciolta e a suo agio come non l’avevo vista mai.
I suoi pranzi di Bologna erano memorabili, li preparava tre giorni prima ed erano un tripudio di dolcezze, non erano pranzi ma vere espressioni d’amore, tripudi di bellezza. Ma quando tutto era pronto e perfetto, con i calici che scintillavano sulla candida tovaglia, e le luci sulle porcellane chiare e i fiori deliziosi del centrotavola e i fiocchetti di seta rossa attorno ai rotolini con i pensieri d’amore accanto al tovagliolo,  e le candele accese, e tutto il salotto lustrato a fondo e lucente, e tutto era perfetto nei minimi particolari, lei appariva fresca e in ordine, senza traccia di stanchezza, come fosse appena arrivata e non avesse corso, cotto e preparato per tre giorni, pronta ad accogliere il nostro abbraccio. Mai, nemmeno in tre vite, sarei capace di preparare un pranzo di gala come faceva lei!

L’ultimo giorno del 1995 ero in montagna con Elisa, a casa di sua sorella, con vari amici, facevamo festa per la fine dell’anno e dopo mezzanotte io feci un po’ la maga e predissi il futuro dei presenti, facendo estrarre ad ognuno una runa da un sacchetto di velluto rosso e leggendo poi il responso da un libretto altrettanto rosso, molto carino, scritto da uno psicologo americano, che forse di rune celtiche non sapeva molto ma che sicuramente sapeva scrivere cose poetiche e accattivanti.
In genere i messaggi erano gradevoli e pieni di buoni pensieri ma, quando fu il turno di Elisa, il messaggio che uscì fu terribile, venne una runa di morte, io non sapevo nemmeno che ce ne fosse una e restai scioccata, tra lo sgomento dei presenti, l’atmosfera della festa rovinata. Io, nascondendo male la mia angoscia, presi a dire a Elisa che doveva assolutamente farsi fare un’analisi del sangue. Lei era pallidissima. Mi ascoltò muta. Grazie ai suoi amici medici del S. Orsola, pochi giorni dopo il sangue era stato analizzato e il responso fu: di nuovo leucemia.
Cominciarono così mesi terribili.  Aveva già avuto la leucemia da giovane e sua madre ne era morta.  Ora dopo 17 anni: la recidiva.
Lunghe chemio la distrussero, dentro e fuori dall’ospedale. Quando stava un po’ meglio veniva ancora da noi, minuta e come franta dalla chemio, senza capelli, piccolina, col suo zucchettino bianco fatto all’uncinetto in testa, i muscoli ridotti a uno stato larvale, le forze quasi inesistenti. Alla fine tentarono il trapianto del midollo  spinale prendendolo dalla sorella, ma non servì a nulla.
Nelle lunghe giornate d’ospedale si salvava solo con la musica e la poesia. Diceva che la sua anima si spostava in luoghi meraviglioso. Nella spossatezza viveva rari momenti d’estasi.

Letto n. 28

Da una settimana
.. da quando?
Il grigio spinge ai vetri.
Entra nella stanza
toglie i colori
ma non confonde
la mia anima.

OKEI IL PESO E’ GIUSTO

Massa muscolare ben distesa
lasciata ad ammollare mollemente
con Cortison-Urbasan bollente
per una settimana
I risultati sono garantiti.
I muscoli son spariti
e modella sottile evanescente
diventata.
Inizia la sfilata:
modello Giuditta.
Lo strascico trattiene la caduta
lungo la passerella di sfilata.
Riprovo col verde mio pigiama
a strisce e striscio sulla stuoia
serpente boa, palude, biscia.
L’ultima prova, la più dura:
camicia bianca trasparente
d’oro, piena di nastri e lacci
Mi tiran due bastoni
infiocchettati come due colonne
di un tempio decaduto.
Effetto assai sicuro!
Il pubblico presente mi declama
Domani ripeteremo la serata!

Dieta
Urbason cortisone= 40 mg. Al mattino e 40 mg. La sera
per un mese.
Continuare il mantenimento con 60 mg. Il  giorno
Si consiglia per gli ottimi risultati ottenuti in breve tempo.

In una delle fasi di miglioramento, era venuta anche ad un corso di ginnastica, col povero corpicino che si reggeva a stento, e il suo zucchetto fatto all’uncinetto, bianco, sulla testa ormai senza capelli. Sorrideva. Sempre.
Ma via via era diventata un mollusco come non avesse più ossa. Non si reggeva più in piedi. Non riusciva a muoversi, nemmeno per andare a letto e restava sdraiata sul divano del salotto esangue. Noi andavamo a trovarla e, anche in quelle condizioni, riprendevamo come degli egoisti la vecchia abitudine di raccontarle i nostri guai e lei, anche in quelle condizioni, ci ascoltava, ci aiutava. E’ una cosa di cui ancora mi vergogno: il nostro egoismo di sfruttarla fino all’ultimo, di mettere sopra di lei, così sfinita, i nostri guai quotidiani. Ricordo che metteva insieme le ultime forze per prepararci dal divano le tartine e altre squisitezze e anche così senza forze era lei che riusciva a pensare a noi.
Ma arrivò un giorno in cui Elisa rifiutò la chemio.
Con l’estate, chiese di essere portata un’ultima volta nell’isola greca che le piaceva tanto. E il marito, straziato, la accontentò. Ma quando arrivò là, fu chiaro che la malattia avanzava troppo rapidamente e fecero appena a tempo a tornare.
Nel settembre era tutto finito.

Nel momento in cui se ne andò, noi tutte, amiche, eravamo sparse lontane. Ma ognuno di noi ‘seppe’ in qualche oscuro modo che qualcosa di grave stava succedendo.
Ad una cadde un vaso che stava sopra un armadio. Un’altra rovesciò una boccetta di inchiostro. Qualcuna aveva fatto un sogno premonitore.
Era mezzogiorno e io stavo per cucinare ma, quando avvicinai la mano ai rubinetti del gas, scoprii che erano come inchiodati, non riuscivo a muoverne nessuno, e nemmeno il rubinetto centrale, come se qualcosa avesse cementato i fornelli. Tutto  inspiegabilmente bloccato per vari minuti.
Poi venimmo a sapere che a quell’ora se n’era andata.

Non riesco nemmeno a dire quanto ci mancò. Eravamo orfane di lei. Io ero caduta in una disperazione profonda. Continuavo a ripetere dentro di me che volevo ‘telefonarle’, volevo sentirla ancora per telefono e sentire la sua voce fresca e allegra, volevo essere consolata da lei per averla persa, come ero stata consolata tante volte quando mi succedeva qualcosa di brutto e mi sfogavo con lei e dopo stavo meglio. Ma lei non rispondeva. Questo bisogno cocente di parlarle andò avanti per un po’ al punto che a ogni squillo del telefono mi balzava il cuore e speravo assurdamente che fosse lei che mi chiamava.
Poi l’amarezza prese il sopravvento su tutto.

Un anno dopo, stavo casualmente camminando in una strada della zona periferica dove Elisa era vissuta e, di colpo, me la sentii accanto. Non stavo nemmeno pensando a lei e solo dopo realizzai che ero nella parte della città dove era la sua casa. E lei arrivò come una folata di vento di primavera. Ricordo perfettamente quel momento. Il grigio del lastrico. Il grigio delle case. Il grigio del cielo. Poi lei arrivò e fu tutto luminoso, colorato, come fosse arrivato il sole.  La sua gioia era totale, assoluta, mi girava attorno come più tardi avrei sentito mio marito. Come una trottola. Era viva! Stava bene! Era felice! Ero tutta avvolta dalla sua gaia felicità Quasi il suo movimento mi stordiva, mi rendeva ebbra di gioia, stralunata e felice, come lei. Elisa era tornata finalmente a casa!

Il primo giorno di quel gennaio del 96, dopo la maledetta runa di morte, quando ancora non sapevamo l’esito delle analisi, ero di nuovo a Bologna, e per placare la mia agitazione, chiesi all’angelo un responso sulla mia amica, di cui non sapevamo ancora nulla. Quello che venne in scrittura automatica fu molto sconfortante. E oggi, ogni volta che leggo questi versi profetici, non posso fare a meno di piangere.

Lunghi passaggi di privazione
Senza tregua i controlli
Rilassati in vista degli eventi
Tragici e tristi
Come un piccolo fiore (1)
La morte verrà sepolta
A scuoterti i rami fragranti
La figlia non più sola (2)
Il marito sperso ramingo...
          Tu tieni ben fermo il concetto
Del tuo essere puro
Purificato senza macchia
Nell’asse mediano
Tutto comincia dalla testa
Luce del tramonto, luce dell’alba
La lotta più forte è dentro
Come un’oasi di resistenza
Vanno e vengono in cammino
Forze nuove e foglie che cadono
Finché tutto sarà pronto
Per l’ingresso del Signore
Sia benedetta colei
Che ha conosciuto la gioia
Gli amici si illuminano
Al solo nominarla
Tutte si disperdono le ombre maligne

Infine è tornata

Colei che aspettavamo
Per allietare il desco
Con tutti i suoi sorrisi
        
(1)  Piccolo fiore fu il nome con cui firmò il suo primo scritto
(2)  Durante il funerale la figlia trovò l’amore.
                                 
Nel gruppo del martedì, molte scoprirono i loro talenti, chi il canto, chi la scrittura, chi la pittura.. Elisa scoprì la poesia.
Ci lasciò un libro con le sue poesie.
Nella prima pagina è riportata la sua ultima lettera a noi tutti.

Ai miei cari, i parenti e gli amici, unisco tutti in queste mie parole perché la forza di scrivere ad ognuno non c’è più. Spero che questa mia venga letta fra tanto tempo, ma non ha importanza. I sentimenti sono sempre gli stessi di ora, di allora.
Vi ringrazio per esservi lasciati amare. È stata la ragione della mia vita. Senza di voi avrei avuto una vita arida e vuota e l’amore che ho avuto per voi ne ha fatto una ricchezza immensa.
Sono stata felice con tutti voi e continuerò ad esserlo attraverso il vostro ricordo.
Il mio passaggio sulla madre terra non si cancellerà mai più.
Sarò energia, farò parte del cosmo, sarò la spiga.
Sarò la danza e il canto, E saremo sempre insieme in questa avventura emozionante. La vita per me lo è stata, nei momenti tristi e entusiasmanti. È una bellissima avventura che vale la pena di vivere in ogni suo momento.
Non ho la mente lucida e non trovo le parole che proprio volevo usare per il mio saluto, ma voi andrete al di là di questo, sentirete il mio abbraccio, il mio voler bene, la mia serenità nel dirvi che sono sempre con voi

Elisa

Elisa fu molto religiosa nel senso più spirituale ma non fu mai osservante, anzi si definiva atea, aveva tanti amici preti ma non andava in Chiesa, non credeva nemmeno nell’anima, e, pur praticando l’essenza di Dio, non riconosceva il nome o il culto di un dio. Ma per l’infinito queste sono cose senza importanza. L’unica cosa veramente importante,  e lei ce lo ha insegnato,  è l’amore.


SONO VIVA

E quando il silenzio
intorno
non è silenzio
so che sono viva.
Nella danza del vento
nel canto delle foglie
sotto i passi sciolti
nel pianto delle nuvole
che invadono la stanza
so che sono viva.
E nel mio silenzio
so che sono viva.

(Elisa)

Quando io lascerò questa casa
il deserto intorno, l’aria calda,
l’affetto degli amici, il sole luminoso
tutto porterò
nel cuore e nella mente.
E vi guarderò con gli occhi della memoria.
Sarò insieme a voi
giovani e generosi
innamorati ed affettuosi.
Ed il mio augurio:
che voi siate sempre felici!

(Elisa)

Una lettrice mi scrive:

Ciao Viviana, sono Daniela, ho potuto leggere la tua mail solo questa mattina, volevo ringraziarti di avermi resa partecipe dell’omaggio a Elisa, mi è entrato dentro, ha toccato le corde di un dolore enorme che io mi porto dentro, e quindi mi ha scatenato prima un’emozione di grande dolore ma subito dopo di dolcezza infinita, mi ha dato nuovamente consapevolezza del fatto che la cosa più giusta è quella di riuscire a trasformare il dolore in amore, pazienza ed accoglienza degli altri. Sono contenta di averne ripreso coscienza perché in certi momenti il mio dolore fa emergere talmente tanta rabbia, che mi accorgo di essere aggressiva nei confronti di chi mi sta di fronte, soprattutto mi accorgo di sfogare questa rabbia verbale nei confronti delle persone a cui voglio bene. Pensa, Viviana, è stata talmente forte l’emozione mentre leggevo la poesia di Elisa che la posta elettronica aperta davanti a me ha iniziato a vibrare e non smetteva più. La batteria era ovviamente carica e il computer è nuovo. Non aveva mai fatto così ma è logico, in quel momento io vibravo come uno strumento.
.

In cima alle sue poesie, Elisa ne aveva messa una di Oscar Wilde:

La morte significa riposare
sotto la soffice terra bruna
con l’erba che ondeggia
sopra la testa e ascoltare il silenzio.
Non avere passato né futuro.
Dimenticare il tempo, perdonare
alla vita e raggiungere finalmente la pace
poiché l’amore ti accompagna sempre
e l’amore è più forte della morte.

.
Ricordare Elisa mi ha mosso molte cose dentro. Ma l’inconscio è stato colpito in particolare dalle differenze tra lei e i suoi figli, un caso che ho incontrato spesso. Negli incontri del martedì ascoltavo moltissimi sogni e tanti di questi riguardavano proprio il rapporto con la famiglia.
Elisa amava enormemente i propri figli e si preoccupava molto per loro. Di Ugo diceva “Bimbo non tutto sorrisi e dolcezze, come avevo sognato. Bimbo chiuso dentro una corazza di arroganza, durezza di difesa”.  Di Giovanna parlava di “cuore muto, che non sa affrontare la forza della vita”.
Io per altri motivi mi trovava una figlia molto amata, molto curata anche, che d’improvviso mi si era messa contro, senza che, con tutta la mia psicologia, riuscissi a capire il perché.
Così stanotte ho fatto un sogno.
Ho sognato un ponte di Firenze, e il ponte in genere indica qualcosa che unisce due sponde diverse, due mondi, due Paesi separati, due persone e in questo caso il ponte era mobile, dunque era il ponte della relazione. E io avevo, invisibile ma presente alla mia destra, Jung che mi suggeriva. Al centro della spalletta di sinistra del ponte (affettività) c’erano degli ingranaggi, come dei giunti cilindrici, che facevano sì che il ponte, ovvero la relazione si alzasse o si abbassasse,  e io cercavo di ripulirli da uno strato di plastica trasparente che li ricopriva per riportarli in chiaro, per far risplendere l’ottone di cui erano fatti. Dunque volevo chiarire il perché la relazione è volte c’è e a volte manca.
Ma Jung gentilmente mi faceva capire che non era giusto che io cercassi questo e che quella pellicola di protezione era stata messa proprio come difesa, perché certe cose non è nemmeno bene saperle.
Al di là del ponte c’era il laboratorio di Jung, dove i figli di Elisa lavoravano con dei camici bianchi. Jung era pallidissimo, e molto vecchio e stanco, come fatto di vetro. Era stato un altro che, immerso nelle sua attività e nelle proprie ricerche, aveva trascurato molto i figli, mentre io mi ero dedicata moltissimo a mia figlia piccola, almeno fino ai 12 anni, molto di più di quanto non facciano tante madri. Eppure il risultato sembrava lo stesso: figli che scelgono di essere il più possibile diversi dai loro genitori per allontanarsi quanto possono da loro, figli che costruiscono la loro autonomia nella diversità o nella lontananza, per emanciparsi da genitori troppo incombenti o per un motivo o per un altro in rapporti in cui ogni eccesso diventa un difetto.
Jung raccontava di un santo uomo che era così santo che la sua ombra crebbe a dismisura e alla fine si riversò sui figli che vennero uno ladro e l’altra una prostituta.
Ma, nei casi migliori, possiamo avere figli che fuggono da casa o si costruiscono personalità alternative, come se l’affermazione di se stessi passasse attraverso la differenziazione dalle figure famigliari. Anche questa è una seconda possibilità ma tale da creare una lacerazione nel tessuto affettivo, che porta con sé rancori ingiustificati, rabbie senza ragione, smemoratezze e falsi ricordi da integrazione.
Ieri è venuta da me una madre musulmana in grandissima pena perché la figlia più bella è sparita senza una parola e non si fa vedere da due mesi. Rintracciata attraverso la polizia, fa sapere, tramite avvocato, che sta bene, che non ha bisogno di nulla, ma che non vuole più avere rapporti con la famiglia. Supposto che ciò sia vero e che non le siano accadute cose gravi, fatti di cui non c’è conoscenza, cosa può spingere una figlia molto amata a fuggire e a mettere un muro tra sé e i suoi, senza una parola di scusa, senza un messaggio d’amore per chi l’ama?
Nel sogno Jung era molto vecchio e stava seduto, come accasciato e io stavo in piedi davanti a lui. Io e lui ci siamo stretti la mano, come per una comunanza. La sua mano era diafana, delicata, senza forze.
Era come se mi dicesse che non importa quanto sai e quanto ami, un figlio può restare sempre un mistero. E su questo mistero puoi camminare solo in silenzio. Con rispetto
.

Bambino, se trovi l'aquilone della tua fantasia
legalo con l'intelligenza del cuore.
Vedrai sorgere giardini incantati
e tua madre diventerà una pianta
che ti coprirà con le sue foglie.
Fa' delle tue mani due bianche colombe
e portino la pace ovunque
e l'ordine delle cose.
Ma prima di imparare a scrivere
guardati
nell'acqua del sentimento.


Alda Merini
.
INDICE ROMANZO


Regressioni a vite precedenti – La guarigione a distanza – Le visualizzazioni- I numeri simbolici


Le malattie psicosomatiche – Induzione e ipnosi come forma di terapia – Le verruche


Tutto comincia dalla testa – Talismani: la croce di Ankh – Rievocare altre vite o momenti traumatici del passato – Incubi ricorrenti – Leggere negli altri una storia fatta di tante storie


Isobare psichiche – Rane – La lezione del dolore – La lezione del piacere – La sessualità sacra – La verginità eterna – Ma cos’è l’orgasmo? – Eiaculazione precoce, vaginismo e omosessualità


Pene d’amore – Il tradimento – La trasgressione – Amare l’impossibile


La casa infestata – Sogni premonitori – Messaggi dall’al di là – Le vite precedenti


Storia di Deneb – Testimonianze sulla premonizione – Sentirsi estranei a questo mondo – Rispettare la propria unicità – La diversità è un dono – I prescelti


Le discriminazioni – La cultura è il frutto del potere – Rifiuto sociale delle diversità – Chiaroveggenza – Il motivo per cui siamo venuti a nascere – Un compito che si realizza in più esistenze successive – Profezia – Il terzo occhio – L’archivio globale


Il mio amico omosessuale – I segni sincronici – L’essenza di una coppia


Esistere come non umani – Nostalgia delle esistenza perdute – Altri mondi-
Siamo tutti angeli caduti – Un messaggio dell’Imperatore


Vedere i fantasmi – Bachi vampirici, boli, ragnatele, girandole di luce – I punti nodali – Figure non terrestri – Una guarigione miracolosa- Uscire dal corpo – La psiche, l’anima, lo spirito – il Tunnel – L’Osservatore- L’Aldilà


Omaggio ad Elisa – L’amore è più forte della morte
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