a cura di P.C. - 20 aprile 2003
Nota introduttiva: tutte le immagini di questa “settimana in rete” sono tratte da opere della Collezione Albertina di Vienna, che ha felicemente riaperto dopo dieci anni di chiusura.
Claudio Rinaldi sul sito di Libertà e Giustizia 18 aprile
Ieri Silvio Berlusconi ha completato la sua due giorni ad Atene per la nascita dell'Europa a 25. A giudicare dalla sua faccia tesa, livida, il bilancio non è dei migliori. Le sue performance di rilievo, qui riassunte in ordine cronologico, sono state sei.
1. La proposta di eliminare la Commissione, ora guidata da Romano Prodi, dal novero delle istituzioni europee. In seguito Berlusconi ha chiarito che si trattava soltanto di "una provocazione", di "un paradosso".
2. Una dichiarazione secondo la quale ricucire lo strappo causato dalla guerra in Irak è un gioco da ragazzi, giacché Francia e Germania sarebbero smaniose di tornare all'ovile anglo-americano. Le improvvide parole sono state corrette nel giro di poche ore.
3. La protesta contro una bozza di documento sull'Irak che era stata predisposta a sua insaputa da Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna. Esploso il caso, Berlusconi ha asserito di non saperne niente. "Ho votato il documento", ha detto in sostanza, "soltanto dopo aver accertato che proveniva dalla presidenza greca di turno". Per consolare l'emarginato, i suoi tifosi nei mass media hanno rimarcato che i quattro paesi ispiratori fanno parte del Consiglio di sicurezza dell'Onu: niente di strano, si sostiene, se hanno tagliato fuori l'Italia. Ma fra due mesi la presidenza di turno sarà assunta proprio da Berlusconi. La sua deliberata esclusione dai conciliaboli preparatori è stata eloquente.
4. La minaccia rivolta ai partner di opporre in futuro il veto, "indipendentemente dal merito delle questioni", a ogni decisione maturata senza consultare l'Italia.
5. Un attacco all'opposizione italiana che sarebbe indegna di qualsiasi dialogo, sulla falsariga di quelli già sferrati nei giorni 15 e 16.
6. L'ammissione che la famosa spedizione militar-umanitaria in Irak, fatta approvare dal Parlamento in gran fretta, è ancora di là da venire.
Questo è tutto. Ce n'è abbastanza per tre considerazioni provvisorie.
a. La politica estera italiana continua a essere inesistente. Il ministro degli Esteri è un fantasma di buone maniere. Nei vertici il premier non fa che esibirsi in battute fuori luogo inframmezzate da lamenti. Il paese viene snobbato.
b. L'imminente semestre europeo a presidenza italiana appare destinato al fiasco. L'unico vero obiettivo di Berlusconi, finora, era stato quello futile e pressoché realizzabile di far firmare a Roma gli accordi sulla nuova Costituzione dell'Ue. Ieri invece il Cavaliere ha citato il rilancio dell'economia e la riforma delle pensioni. Sul primo fronte, peraltro, in Italia ha fallito; del secondo tema si è occupato poco o niente, con la scusa che prima o poi ci avrebbe pensato l'Europa. Come referenze per il suo prossimo incarico, questi precedenti non sono un granché.
In tali condizioni la maggioranza del fu Ulivo insiste nell'offrire al governo italiano la propria collaborazione, in particolare per il pieno successo del semestre europeo. Il gesto va segnalato in quanto è due volte generoso, al limite dell'autolesionismo: perché a Berlusconi fa orrore la sola idea di farsi aiutare dall'Ulivo, e perché il ripristino del prestigio italiano sembra una causa già persa in partenza. In ogni caso, amici del centro-sinistra, auguri.
Il trotzkismo armato che anima la Casa Bianca Adriano Sofri su la Repubblica del 15 aprile
A Mario Pirani è venuto in mente un paragone fra l´interventismo planetario dei neoconservatori americani di oggi e il trotzkismo della rivoluzione permanente di ottant´anni fa: reso inquietante dal ricordo che a fermare - con le brutte - l´internazionalismo trotzkista fu "l´accorta spietatezza" di Stalin e del "socialismo in un paese solo". Paragone acuto, che rianima le categorie un po´ esauste di isolazionismo e interventismo, e che mi ha incuriosito di più perché mi ero accorto da poco che qualche teorico dell´interventismo neorepubblicano ebbe una gioventù trotzkista. Oltre un´ardita analogia storica, c´è forse qualche tortuosa discesa per li rami?
Mi ha colpito ancora di più un´altra scoperta (divento così ignorante che i miei giorni sono pieni di scoperte) imbarazzante, perché avevo alla leggera applicato all´interventismo dell´America di Bush la categoria del napoleonismo: per l´idea della democrazia esportata a mano armata, che più che giacobina fu napoleonica. La scoperta è che l´interessante ministro degli esteri francese, Villepin, improvviso oratore principe del non interventismo legittimista, e addirittura del pacifismo, è un recente biografo di Napoleone, e fervido ammiratore. E (almeno a stare alla severa recensione di David A.Bell per The New Republic, tradotta dal Foglio) ammiratore, oltre che della grandeur francese, dei granduomini, di cui Napoleone è stato la quintessenza. Al giorno d´oggi io inclino meno al Napoleone di Stendhal e assai più al Napoleone di Tolstoj, e peggio. Comunque, non ammetterei interpretazioni del napoleonismo che non dessero un posto centrale al carrierismo di un provinciale intenzionato a guadagnarsi un´arciduchessa, magari a costo di fabbricarsi un impero. È questo connotato che fa di Napoleone un modello per i grandi dittatori europei del Novecento, e sembra invece estraneo alla democrazia americana, nella quale il formidabile personalismo presidenziale è arginato rigidamente dalla scadenza del mandato. Anzi, le stesse circostanze che fanno dire all´estremismo antiamericano che gli Stati Uniti, con una così alta astensione elettorale, non sono una democrazia, e che in particolare l´elezione di Bush, col pasticcio delle poche schede di Florida, è stata un "colpo di Stato", appaiono al contrario come una conferma dell´antinapoleonismo. (Caso mai minacciato dai ricorsi dinastici, come nei due Bush e le due guerre del Golfo. Guardarsi dai dinastismi, sia pure elettivi: è ormai provato su vasta scala che l´ereditarietà dinastica è stata un connotato decisivo dei comunismi reali, in Corea del nord e in Romania, in Serbia e in Iraq e in Vietnam e a Cuba, e oltretutto che i figli dei tiranni sono per lo più imbecilli e abietti).
Dunque rinuncerò al napoleonismo e mi lascerò tentare dal trotzkismo: unica nemesi di quell´eterodossia anche lei spietata e autoritaria, ma vocata al minoritarismo, e però a distanza di tre quarti di secolo capace di decidere delle elezioni francesi, di ispirare Hollywood, e ora di rivelare l´intenzione "rivoluzionaria" della politica americana dopo l´11 settembre. Dopo l´11 settembre: è importante da ripetere, perché la vasta divulgazione dei piani di guerra all´Iraq preparati fin da qualche anno prima ha indotto molti a cancellare quella svolta fatale, o a farne tutt´al più il pretesto conveniente a far uscire le strategie dai cassetti accademici. Tanto più che avrebbero deplorato prima dell´11 settembre la vittoria di Bush e la sua amministrazione come irresistibilmente "isolazionisti".
…
L´Iran può - niente paura: mutatis mutandis - essere il nostro Vietnam. È soprattutto sciita, ma non è arabo (se non per una piccola minoranza). Nella quasi infinita guerra con l´Iraq la rivalità nazionale contò più dell´affinità religiosa con la maggioranza sciita irachena, ed è ancora così. (Per fortuna, direi). Era stato il gran paese dello scià, dell´Impero di Persia, della violenza poliziesca, dell´americanismo spinto e del petrolio infeudato. La rivoluzione khomeinista "fece da sé", e consegnò il potere al fanatismo clericale sciita. Quel barbarico potere tiene da un quarto di secolo, ma dentro i suoi ceppi è cresciuta una società civile e femminile che si prende delle libertà e aspira alla libertà. Una resa dei conti verrà - e l´evento iracheno non potrà che affrettarla. È possibile che prenda la strada della guerra civile, e noi sapremo da che parte stare. Ci staremo, da quella parte, e come? Col Vietnam, pensammo sul serio ad arruolarci in Brigate internazionali, come nelle canzoni della Spagna repubblicana: poi decidemmo che l´Indocina ce l´avevamo qui, nell´officina. Oggi non ci arruoleremmo per l´Iran, siamo più appesantiti dal senso del ridicolo e più alleggeriti dalla nostra nonviolenza. Ma la nonviolenza chiede una forza legittima. Ammetteremo che una forza internazionale sostenga la rivendicazione dei diritti umani e civili della gente libera e inerme dell´Iran? Lascio qui la domanda, un titolo in più della casistica da riaprire.
Il movimento prima no e poi neoglobal ha prediletto nella sua fase originaria impeto e assalto: l´assalto ai fortilizi dei potenti a convegno e l´assalto alla povertà e all´ingiustizia del mondo. All´ingiustizia della povertà, magari a scapito dell´ingiustizia dei diritti e della libertà negati che si tengono a vicenda, però. Se separiamo la povertà dai diritti e dalla democrazia, il nemico è inevitabilmente l´America e l´Occidente (e Israele): siamo noi, il nostro nemico. Dobbiamo rinnegarci, e passare le linee. Non faremo abbastanza attenzione né alla Cecenia, né al Tibet, né ai cristiani ammazzati in Africa e in Asia. Neanche al regime di Saddam, o della Cambogia: del primo vedremo lo strozzamento per fame, del secondo non vedremo che è mantenuto per intero, senza contropartite, dai fondi europei. Mondo complicato. Poi arrivano i rivoluzionari della destra americana, col loro trotzkismo armato (Trotzky aveva una gran passione per la forza armata), e lo spirito di assaltatori dei no e poi neoglobali e pacifisti ripiega su una specie di autismo, di devozione allo status quo, di ritorno più o meno inconsapevole al programma del disarmo unilaterale. E, magari, a uno "stare per sé": tenere l´Italia fuori dalla guerra, tenere la guerra fuori dall´Italia. Chiamarsi fuori. Non è questo il nostro stemma. Noi siamo di quelli che si mettono in mezzo, quelli del mondo intero.
Il nemico dell'OccidenteUn concetto ambiguo e dinamicoFranco Cardini su Golem l'Indispensabile
Credo che abbia ragione Massimo Fini ne Il vizio oscuro dell'Occidente (Marsilio), quando osserva che all'Occidente moderno (o, se si preferisce, alla Modernità: giacché i due termini sono in realtà sinonimi) ben si attaglia l'autodefinizione, rovesciata, che Mefistofele dà di se stesso nel Faust di Goethe: "Io sono lo spirito che vuole sempre il Male ed opera eternamente il Bene". Il che equivarrebbe a sostenere, se si volesse essere un tantino pesanti, che l'Occidente ha il tocco di Mida al contrario, e quel ch'esso tocca non è proprio in oro che si trasforma. E intendiamoci: a giudicare da taluni devastanti effetti della globalizzazione, si direbbe che le cose stiano proprio così.
L'eroe fondatore dell'Occidente moderno - ben l'ha capito un grande storico, David S. Landes - è Prometeo. In una splendida tela di Gustave Moreau, che si conserva nel suo museo parigino, l'eroe che si sacrifica per l'umanità ha gli inequivocabili tratti del Cristo: e il suo supplizio, incatenato su un picco caucasico, richiama con una forza trascinante la crocifissione. È l'eroismo umano divinizzato, il Cristo immanentizzato nell'umanità (Immanentizzazione, ch'è cosa ben diversa dall'Incarnazione), perfetta rappresentazione del mito romantico e progressista dell'Occidente che infrange ogni vincolo e ogni ostacolo, che disobbedisce agli dèi e si fa dio di se stesso, che pretende di fare soltanto il Bene per il semplice, tautologico fatto che ritiene sempre bene quel che fa: al pari del vecchio ottimismo storicistico, secondo il quale tutto quel che accadeva era bene perché accadeva ed accadeva perché era bene.
Ritenendosi realizzatore del migliore dei mondi possibili e scopritore-inventore della formula costitutiva di un inscindibile insieme di libertà, verità, giustizia, ragione, tolleranza e ricerca della felicità, l'Occidente moderno non è praticamente disposto a tollerare in alcun modo "l'Altro da Sé"; esso non può accettare alcuna forma di civiltà che sia diversa dalla sua ma di pari dignità né ritenere possibile che possano esistere alternative (e, meno ancora, ch'esso possa essere in torto). Gli apologeti dell'Occidente, confondendo tra relativismo etico e relativismo antropologico, mostrano d'ignorare la grande lezione lévistraussiana secondo la quale ciascuna civiltà va giudicata nel suo complesso e non c'è nulla di più improponibile di isolarne i singoli componenti per esaminarli alla luce di principî che non sono i suoi.
Ne consegue che l'Occidente moderno è affetto dall'infezione totalitaria espressa dal suo "pensiero unico" che lo conduce a concepire un unico modello di sviluppo per tutta l'umanità. Esso è, inoltre, vittima d'una schizofrenia irremissibile tra la tolleranza e i diritti dell'uomo, valori che ritiene fondanti della sua identità, venera a parole e sostiene di difendere, e il nucleo duro e profondo della sua realtà fondata sull'avere e sul fare anziché sull'essere: la Volontà di Potenza. La folle neoideologia dell'"esportazione della democrazia" proposta dal gruppo dei neoconservative ispiratori della politica del presidente Gorge W. Bush jr., il gruppo dei Wolfowitz, dei Perle, del Kagan, dei Rumsfeld, si fonda sulla vertigine di questa persuasione di eccellenza e di superiorità, sulla convinzione di un "destino manifesto" in grado e in diritto di estendere a tutto il mondo quel "cortile di casa" che, nella tesi isolazionista di Monroe formulata nel 1823, si estendeva all'intero continente americano. Che poi questa sconfinata volontà di potenza, questa ineusaribile ricerca del benessere, della sicurezza della felicità, finisca in realtà col rendere chi cade in questo vortice eternamente insicuro, infelice e inappagato, è un altro discorso: ma nasce proprio da qui il rischio della "guerra infinita" nella quale i cantori del nuovo Occidente rischiano di trascinarci.
Ma, sul piano delle definizioni, siamo nel campo d'un infinito equivoco. L'Occidente sembra oggi una "cosa" reale, un termine chiaro che indica un soggetto preciso: quella "civiltà occidentale" che, secondo Samuel P. Huntington, corre il rischio di venire assalita da altre civiltà, compatte e ben delineate come la sua ma ad essa ostili. Peccato che si tratti soltanto, al contrario, di nomina nuda. "Occidente" non è una cosa, una realtà geostorica o geoculturale: è una parola equivoca, che ha subito nel tempo una serie di slittamenti semantici e il cui attuale significato è tanto recente quanto equivocamente e perversamente diverso da come lo intendono molti europei convinti che esso ed Europa siano quasi sinonimi.
Il che, intendiamoci, è peraltro etimologicamente vero. Giovanni Semerano ha dimostrato che la parola "Europa" nasce da una radice accadica passata poi nel grecoerebos e indicante, appunto, il luogo dell'orizzonte nel quale il sole tramonta, laddove la parola "Asia", al contrario, deriva da un altro termine accadico indicante l'alba. Se ci si potesse limitare ai semplici valori etimologici, l'identità tra Europa e Occidente (e tra Asia e Oriente) sarebbe perfetta. Ma questo non è, purtroppo, un lusso che ci si possa permettere quando si vuol evitare di cadere in trappole grossolane.
Al di là dell'antica contrapposizione tra Asia ed Europa, celebrata in un passo immortale de I Persiani di Eschilo, l'attrazione e la fusione dei valori "orientali" (asiatici) e di quelli "occidentali" (ellenici e poi romani) è passata attraverso le grande sintesi ellenistica, avviata da Alessandro Magno e perfezionata da Cesare - erede del grande pensiero maturato attraverso il "circolo degli Scipioni" - e dalla cristianizzazione dell'impero. I termini "Oriente" e "Occidente", nel mondo tardoantico e medievale, sono stati certo utilizzati: ma nella prospettiva del rapporto tra la pars Orientis e la pars Occidentis dell'impero romano uscito dalla spartizione imposta dal testamento di Teodosio, alla fine del IV secolo. Ai primi del XII secolo un cronista della prima crociata, Fulcherio di Chartres, celebrando il fatto che "franchi" e "italici" dopo la conquista della Terrasanta si fossero impiantati in Palestina, sosteneva che di "occidentali" essi si erano fatti "orientali". Ma non si andava neppure con ciò al di là della distinzione d'origine teodosiana.
Nonostante quanto oggi si crede, l'uso corrente d'identificare la "nostra" con la "civiltà occidentale" è recente. Ancora ai primi del XX secolo, si parlava piuttosto d'Europa, per quanto io tenda a vedere "l'invenzione dell'Occidente" in quel proiettarsi dell'Europa oltre i suoi confini che si è verificato a partire dalla fine del XV secolo e ha coinciso con l'inizio dell'età delle grandi scoperte e delle conquiste geografiche. Il nascere dell'orientalismo come corrente estetico-letteraria, certo, prospettava una qualche distinzione Oriente-Occidente; ma il secondo termine restava sinonimo di Europa. Oswald Spengler, parlando di un Tramonto dell'Occidente, pensava soprattutto all'Europa. Anche gli storici che hanno ustato con sicurezza i termini di "Occidente" e di "civiltà occidentale", come Christopher Dawson e Elijahu Ashtor, non sono andati al di là d'una distinzione che implica diversità ma non appare come contrapposizione. Si potrebbe comunque, tra Cinque e Novecento, seguire l'itinerario di un costante collegamento tra l'idea di sviluppo, di dominio tecnologico, di razionalità-ragione, di progresso, e l'Occidente inteso, come appunto l'Europa, in crescente contrasto con un "Oriente" (o con più "Orienti") luogo (luoghi) della tradizione, dell'immobilità, del sogno, della magia, del favoloso-irrazionale. La civiltà europea sentita da Hegel come "la grande sera" del giorno della civiltà umana è forse il punto d'arrivo del maturare di questa concezione.
Il mutamento importante che riguarda i nostri giorni ha radice però nella pubblicistica statunitense. Come dimostra molto bene Romolo Gobbi nel suo America contro Europa (MB Publishing) è nel XIX secolo che scrittori e politici statunitensi guardano al loro continente e agli States come a quell'Occidente di libertà contrapposto al quale c'è un "Oriente" che gli europei non si aspetterebbero: l'Europa, appunto (del resto ineccepibilmente e obiettivamente a est dell'America), terra dell'autoritarismo, della tradizione, degli infiniti ceppi teologici e giuridici che imbrigliano la libertà.
Quest'identità statunitense di Occidente e libertà è tornata, dopo Yalta, a sostanziare di sé la nuova dicotomia del potere sull'ecumene, distinta ormai fra un "Mondo libero" e un "Mondo socialista": due mondi che appunto s'incontravano e confinavano nella Cortina di Ferro che tagliava in due l'Europa; e che convergevano nel far sparire il concetto stesso di Europa. La fine del tempo dell'equilibrio tra le due superpotenze (guerra fredda sì, ma anche spartizione e sotto molti aspetti complicità) ha condotto con chiarezza a una nuova situazione, definita appunto da Samuel P. Huntington: l'Occidente come cultura unitaria e compatta, ma caratterizzata dalla leadership della volontà politica e dei valori elaborati dagli Stati Uniti, cui la "vecchia Europa" è chiamata in molti modi a uniformarsi e rimproverata di non uniformarsi abbastanza. Dinanzi a questo nuovo "Occidente", l'Europa - conforme del resto anche alla realtà geografica del globo - dovrebbe forse rintracciare la sua vocazione di civiltà nata e cresciuta in stretto contatto con il mediterraneo, l'Asia e l'Africa, e alla luce di ciò rivendicare un ruolo di cerniera con gli "Orienti". Essere occidentali ed essere europei non è più sinonimo.
L'anello mancante tra società civile e politica
Ilvo Diamanti sul sito di Libertà e Giustizia 18 aprile
Se ci voltiamo e guardiamo indietro, scopriamo che nell'ultimo anno e mezzo il rapporto fra società e politica, in Italia, è cambiato moltissimo. In particolare, per quel che riguarda la partecipazione. Si pensava e si diceva che nella società si fosse spenta la voglia di mobilitarsi a fini pubblici. Per protestare, esprimere sdegno oppure condivisione rispetto a obiettivi comuni. E, infatti, gli anni novanta sono stati pervasi di rabbia, dapprima, poi di speranza e di delusione. Ma senza partecipazione. Per protestare si usavano altri mezzi, altri strumenti. I referendum, ad esempio. Occasioni di esprimere risentimento ma al contempo strumenti per modificare le regole, le istituzioni. Perché la partecipazione rispondeva a una domanda di cambiamento diretto. Secondo lo spirito del tempo. Democrazia diretta. Immediata. Senza mediazioni. Appunto. Altro strumento di protesta: la sfiducia. Una sfiducia spessa e grigia, che si poteva vedere, respirare. Un clima torpido, greve, difficile da sopportare, per tutti. Chi stava al governo, per anni, ha dovuto fare i conti con questo modello di partecipazione “non convenzionale”: la sfiducia. Il distacco. Il rifiuto. Perché oscurava l'orizzonte. Affumicava le lenti con cui si guarda il mondo. E tutto appariva in ombra. Opaco. Le cose fatte, le riforme avviate, le politiche realizzate. Non si vedevano. O, comunque, non se ne coglievano gli effetti. E se qualche immagine trapelava, era macchiata di grigio.
Peraltro, nello scorso decennio, i canali della partecipazione risultano perlopiù “invisibili”. Non si “faceva” politica. Si “parlava” di politica. Con parenti e conoscenti. Parlavano di politica, i politici. In tivù. Attraverso i media. Più televisione meno partecipazione (diretta). La regola imposta da Berlusconi, nel 1994, molto presto viene condivisa anche dagli altri. Tutti. Centrosinistra e sinistra compresi. In televisione. Nei telesalotti. Basta con le piazze, con le strade. Basta con la partecipazione visibile. Tutti a casa. Senza rischio. Noi, singolarmente, al di qua dello schermo. Loro, i politici, al di là. A parlare fra loro, a rivolgersi a noi. Spettatori. Opinione pubblica. Nell'ultimo anno, però, la scena è cambiata. Si è assistito a una partecipazione crescente, a molteplici occasioni di mobilitazione. Ha cominciato Nanni Moretti, in una manifestazione semideserta organizzata dall'Ulivo. E' salito sul palco dei leader è a fatto megafono al disagio generale della sinistra. Ha funzionato come una scintilla. Le polveri c'erano già. Pronte ad essere incendiate. Da allora è partita una lunga composita e ramificata sequenza di manifestazioni: piccolissime, piccole, medie e grandi. Girotondi, marce, adunate. Alcune mobilitazioni di massa. Con diversi argomenti, diversi motivi, diversi temi: la libertà di comunicazione rai, la giustizia, il lavoro, l'articolo 18; e poi i decreti governativi sui procedimenti giudiziari. Infine, dall'autunno scorso, la pace e la guerra. L'opposizione all'intervento militare in Iraq, il rifiuto della politica internazionale degli USA. Un processo ampio, esteso, che ha coinvolto milioni di persone. Con alcuni protagonisti sociali, da tempo defilati: i giovani, i giovanissimi. E altri nuovi: le donne, le madri, le casalinghe. Considerati fino a ieri anelli deboli della partecipazione politica.
Non mi interessa, qui, tessere l'elogio dei movimenti e dell'effervescenza della società. L'elogio del vitalismo. (Io, per natura e temperamento, non marcio e non manifesto; sono riservato e “mediano”. Anche nel calcio. Mi piacciono Tacchinardi, Emerson, e Albertini). Né mi interessa ragionare sul merito dei contenuti. Mi interessa, invece, sottolineare questa svolta, questo viraggio. La protesta, il malessere senza mobilitazione, senza partecipazione, senza visibilità, dello scorso decennio, hanno cambiato segno e direzione: oggi si traducono in partecipazione attiva, esplicita e visibile, appariscente. Mantengono e accentuano le forme del passato recente: l'opinione pubblica, i media. Ma tornano a “usare” le piazze e le strade; a occupare luoghi pubblici ed evidenti. Inoltre, intraprendono vie e strumenti differenti: come le bandiere esposte alle finestre e ai terrazzi. Un modo di partecipare e condividere in modo visibile senza allontanarsi di casa. Perché non tutti possono, con facilità, (oppure vogliono) recarsi Roma o nelle città maggiori, per sfilare con gli altri. Quindi: si osserva una diffusa, ampia disponibilità a partecipare, che nello scorso decennio si era eclissata. E al contempo, rispetto agli anni novanta, si assiste a un cambiamento di argomenti e di parole. Restano sullo sfondo i temi acquisitivi, utilitaristi: il fisco, l'interesse locale, la paura personale. Si affermano i temi centrati sull'identità, sulla libertà, sui diritti: l'informazione e la comunicazione, la pace, la democrazia e la sicurezza “globale”.
Un cambio d'epoca. Che riflette l'intento delle persone di “contare” e di contarsi. Ma riflette anche l'esigenza di colmare il vuoto lasciato dalla politica, che oggi agisce sui media e dentro alle istituzioni, ma lontano dalla società.
Peccato che questi cambiamenti, nuova domanda, questa nuova pratica di partecipazione non trovino risposta adeguata. Peccato. Le forze politiche di maggioranza, d'altronde, sono eredi della fase precedente, di rivendicazione senza mobilitazione. Espressa attraverso i media e il brontolio di sfondo. Mentre l'opposizione, quella è figlia di una fase ancor più vecchia. Immagina la partecipazione come militanza, ideologia. Così, questa stagione di cambiamento, di partecipazione, rischia di sfinirsi, defluire in delta, tracimare in frustrazione e nuova delusione.
Invece, i movimenti, i cambiamenti del clima d'opinione, per durare e contare, devono istituzionalizzarsi. Influenzare le istituzioni, cambiare l'agenda e il linguaggio della politica, innovare le forme di rappresentanza e i modelli organizzativi, formare nuova classe dirigente. Ma ci vogliono risposte adeguate, perchè questo avvenga. Dal sistema politico, dalle istituzioni. Dall'interno del movimento e della società.
Invece assistiamo a due opposte linee, due opposti indirizzi, entrambi riduttivi.
Da un lato, c'è chi rivendica il primato della politica, dell'autonomia della politica dalla società e dai suoi movimenti. La politica si fa nei luoghi della politica, in Parlamento. Si fa progettando, programmando, realisticamente. C'è chi, per questo, guarda i movimenti con sospetto: li considera antipolitica, perché non sono “ragionevoli”, non delineano obiettivi chiari.
Dall'altro lato, c'è chi i movimenti li insegue, li blandisce, ne sancisce lo statuto politico, di attori che entrano nell'agone della rappresentanza in modo diretto. C'è chi contrappone movimenti e classe politica, opinione pubblica e governo-sistema politico. Chi medita di fare dei movimenti un soggetto politico rappresentativo, chi pensa di legittimarsi marciando con i movimenti e nei movimenti, mutuandone il linguaggio, senza rielaborarlo.
Politica lontana dalla società. E società lontana dalla politica. Politica fondata sull'autonomia dalla società e società che si propone di fare politica contro la politica.
Resta un anello mancante, a scindere queste due prospettive. Fra chi pensa di cambiare la politica e le istituzioni potere senza misurarsi con i movimenti che agitano la società, considerandoli un disturbo. E chi ritiene di dare rappresentanza politica ai movimenti sociali senza tradurne il linguaggio, i valori, i messaggi in termini politici, solo riproducendone forme e contenuti, senza mediazione.
Ci vuole una stagione di nuove associazioni, nuove istituzioni, nuove riviste, “fondate” dalla società civile, per raccogliere, intercettarne le voci, le domande, i valori. Per favorire la circolazione di nuove élites. Ci vuole una stagione di ascolto, (auto)revisione organizzativa, comunicativa, da parte dei partiti, del sistema politico, per evitare che i cespugli cresciuti, rigogliosi, in questa stagione, rinsecchiscano oppure divengano arbusti selvatici, incapaci di arricchire il giardino della democrazia.
Michele Serra e Fidel CastroSu la Repubblica
12 aprile
Non sappiamo un granché dei dissidenti cubani condannati pochi giorni fa a qualche decennio di galera, se non che sono dissidenti, sono cubani e sono in galera. è quanto dovrebbe bastare, direi, almeno per una mini-mobilitazione di una sinistra distratta e (anche qui) masochista, che non riesce a cogliere il nesso tra la propria autorevolezza in tema di diritti e la capacità di esercitarla senza omissioni "di parte". L' argomentazione - forte - del superiore livello di scuole e ospedali cubani, rispetto al disgustoso classismo della quasi totalità dell' America Latina, non regge più, se mai abbia retto. Perché il prezzo non può essere - mai - la libertà di espressione, di movimento e di dissenso politico. Curiosamente, il realismo un po' cinico con il quale un pezzo della (vecchia) sinistra oppone al difetto di democrazia a Cuba l' abbondanza di servizi sociali, è speculare a quello della destra di mercato quando alza le spalle di fronte all' indecente scempio di diritti sindacali e anche umani che il "progresso" economico introduce nel terzo mondo. Qui l' argomento è: d' accordo, sfruttano il lavoro dei bambini, però almeno gira qualche dollaro in più~ Ognuno è disposto a chiudere un occhio quando i "suoi" usano mezzi sporchi per un fine ritenuto lodevole. Ma mezzi sporchi, ormai è stradimostrato, sporcano anche il fine. E offuscano le coscienze.
16 aprile
MI sono arrivate diverse lettere a proposito di un' Amaca sulla libertà a Cuba. Nessuna - come temevo - di indignata difesa dell' ultima roccaforte del socialismo. Almeno una, però, mi rimprovera cortesemente di usare gli stessi argomenti della propaganda americana, che confonderebbe il dissenso politico con la delinquenza comune. Ora, a parte che la fucilazione per direttissima dei delinquenti comuni non mi pare, in via di principio, difendibile da chi si ritiene di sinistra, dubito, ahimè, che la repressione del dissenso, l' inesistenza di un' opposizione legale e le dure limitazioni alle libertà personali siano "propaganda americana". Temo che siano cattiva propaganda cubana, ispirata dall' erronea convinzione che la libertà dal bisogno (e dunque buone scuole, buoni ospedali e un minimo di sussistenza garantita a tutti) possa affievolire il bisogno di libertà. Cuba è un eccellente test per ogni mentalità di sinistra: un piccolo paese coraggioso ottusamente osteggiato da un gigante come gli Usa, fiero delle sue conquiste sociali e dignitoso nella sua povertà. Ma non libero. Ripeto: non libero. Non è questa - la non libertà delle persone - una condizione sufficiente perché ci si opponga al regime di Castro? La domanda è semplice e spero non semplicistica. Alla risposta si chiede di essere altrettanto semplice.
19 aprileAncora su Castro e la sinistra italiana. Un pezzo del dilemma è allentare il crampo affettivo che ancora lega molti maturi compagni alla loro giovinezza da barbudos. Ma l´altro pezzo è l´arroganza normalizzatrice con la quale un autonominato "pensiero occidentale" pretende di piallare dalla faccia della terra ogni differenza e asperità. Anti Castro e dunque filo Usa, questo è il passo? Ma uno come me, per esempio, che scrisse male del dittatore Castro quasi vent´anni fa, sulla prima pagina de l´Unità (senza alcuna audacia, per giunta: già allora la maggioranza dei lettori la pensava come me), ma ha in totale disgusto il classismo bieco e la povertà indecente perfettamente compatibili, in America Latina, con il glorioso libero mercato, che dovrebbe fare e dire? Che sinistra vogliono, i puntuti censori democratici, una neosinistra finalmente in regola con il rispetto dei diritti umani senza se e senza ma, o una nonsinistra che ingoia le porcherie del liberismo, applaude l´embargo e sottoscrive la "democratizzazione" dell´Iraq in punta di missile? E se domani o dopodomani la rivoluzione permanente di Bush volesse imporre a schiaffoni anche ai cubani il glorioso modello privatistico che ingrassa i ricchi e fotte i poveri, possiamo essere "né con Castro né con Bush", in quanto di sinistra, oppure saremo accusati di intelligenza col nemico? Cioè: la sinistra può ancora essere di sinistra, o non è dato?
Prodi: "La Russia non entra nella Ue""Atene è una svolta, ora serve la difesa comune"
Andrea Bonanni su la Repubblica del 19 aprile
BRUXELLES - La Russia nell'Unione europea, come continua a chiedere Berlusconi? Per il presidente della Commissione, Romano Prodi, la questione non si pone proprio. Il vertice di Atene che ha coronato il suo obiettivo di un'Europa finalmente riunita, spiega, "ha anche consacrato la nostra politica di vicinato che dà al continente un assetto definitivo, almeno per la prossima generazione"
E quale sarebbe, questo assetto?
"Ad Atene abbiamo aperto l'Unione non a sei, come era previsto inizialmente, ma a dieci nuovi membri come avevo proposto. I referendum popolari di adesione vanno a gonfie vele dimostrando che l'unificazione non è solo una scelta dei governi, ma anche e soprattutto dei popoli. Poi ci sono Bulgaria e Romania che stanno marciando forte per tenere l'appuntamento dell'ingresso nel 2007. Le porte dell'Unione potranno ancora aprirsi per la Turchia, per le repubbliche dell'ex Jugoslavia, per l'Albania. Poi, almeno nel futuro prevedibile, basta. Come scriviamo nel documento della Commissione che ha trovato un largo consenso al vertice di Atene, attorno alle frontiere dell'Unione si creerà un "anello degli amici": paesi che, dalla Russia al Marocco, avranno rapporti strettissimi con l'Europa. Con loro potremo condividere tutto, tranne le istituzioni".
E la Russia?
"Alla Russia va bene così. Ad Atene ho parlato con il ministro degli esteri russo, Ivanov, e mi ha confermato quello che già aveva detto Putin, cioè che non è nelle loro intenzioni chiedere di entrare nell'Unione europea".
Ma Berlusconi insiste...
"Posso solo dire che ad Atene non ho sentito altre voci in questo senso. Neppure quella di Ivanov. Un allargamento senza un disegno politico va bene solo a chi vuole ridurre l'Unione europea ad una zona doganale".
Soddisfatto, allora, di aver portato a termine il principale obiettivo della sua Commissione?
"Sì. Anche perché in questi giorni nella sala del Consiglio, agli incontri, alle cene, ho veramente respirato uno spirito di identità europea tra tutti e venticinque i membri. E' questo che dobbiamo chiedere all'Europa: non solo accordi commerciali ma l'essere parte dello stesso destino".
Un destino mica tanto chiaro, però. E che l'allargamento rende più problematico. I nuovi arrivati sembrano portare valori più atlantici che europei, poco compatibili con il progetto di una vera Unione politica...
"Ho affrontato chiaramente la questione con tutti i nuovi governi. Ho parlato della lettera degli Otto e anche di quella del Gruppo di Vilnius che hanno spaccato l'Europa sulla questione irachena. E il messaggio che ho spiegato e ripetuto è questo: è vero che la nostra politica estera è ancora in formazione, è vero che su certi punti manca l'accordo anche tra i vecchi membri dell'Ue. Ma sia chiaro che se entri nell'Unione entri in una famiglia. Non si può pensare di affidare il portafoglio all'Europa e la sicurezza all'America".
E loro cosa rispondono?
"Giustamente fanno osservare che occorre prima crearla, questa politica estera e di difesa dell'Europa. Ma credo che abbiano capito il senso del mio discorso".
Anche i polacchi?
"Anche loro. Ne ho parlato con il presidente Kwasniewski. Certo non fa piacere che il giorno dopo la cerimonia di adesione la Polonia firmi un megacontratto per l'acquisto di caccia americani. Ma anche altri paesi membri hanno fatto lo stesso...".
Insomma lei è ottimista?
"Sì. Anche sui temi della Convenzione i nuovi si sono schierati massicciamente per difendere le istituzioni comunitarie, contro un eccessivo del Consiglio. Hanno il senso dell'Europa. Ma certo hanno anche il senso di una storia che dobbiamo cercare di capire e rispettare. Sentono di dovere la loro liberazione agli Stati Uniti. E su questo hanno ragione. Ciò comunque non impedisce ai nuovi entrati di volere con forza una politica estera comune".
Già, ma quale? Quella dell'Europa o quella degli Usa? Non crede che questa frattura diventi sempre più grave?
"Vedremo se davvero queste posizioni sono inconciliabili come qualcuno dice. Io non lo credo. Anche dalla Convenzione viene una forte spinta perché l'Europa si doti di una vera personalità politica. L'idea di un ministro degli esteri europeo, che segue le direttive del Consiglio ma che fa parte della Commissione, mi sembra un grande passo avanti. E i dati dell'ultimo Eurobarometro, la nostra indagine demoscopica, dimostrano che una larghissima maggioranza di europei vuole una politica estera e di difesa".
In un'Europa così disorientata qual è il margine di mediazione della Commissione?
"Credo che possa essere fondamentale. Ad Atene ho avvertito un forte desiderio di preservare unì istituzione che tuteli gli interessi generali, che componga la rottura tra i "grandi" e i "piccoli", tra i filoatlantici e i filoeuropei. Non è retorica se tutti cominciano i loro interventi chiedendo più poteri per la Commissione".
Berlusconi per la verità vorrebbe abolirla...
"Ha detto lui stesso che si trattava di uno scherzo".
Va bene, ma quale potrebbe essere allora la strada di un possibile compromesso tra "partito americano" e "partito europeo" in politica estera?
"Il problema è di metodo decisionale. La politica estera europea ha sofferto delle sue divisioni e soprattutto dell'abilità con cui gli Stati Uniti le hanno sfruttate. Occorre trovare un metodo che ci consenta di coagulare consenso su strategie comuni. Credo che l'idea di un ministro degli esteri ancorato alla Commissione e al Consiglio vada nella direzione giusta. In fondo gli unici che la contestano integralmente sono i britannici".
Però lei ha difeso l'iniziativa autonoma del vertice franco-belga-tedesco sulla difesa: un passo non molto comunitario...
"L'ho difesa come avevo difeso l'accordo franco-britannico di Saint Malo, che ha portato alla creazione della Forza di reazione rapida europea. E ho insistito con francesi, belgi e tedeschi perché l'iniziativa resti aperta a tutti".
Ma se si arrivasse alla creazione di un quartier generale autonomo, come i belgi propongono, non diventerebbe un'iniziativa anti-Nato?
"E perché mai? Forse che gli Stati Uniti non hanno i loro quartier generali autonomi pur essendo nella Nato? Si andrebbe verso un'alleanza veramente fondata su due pilastri, uno europeo e uno americano".
Ma si creerebbero degli inutili doppioni...
"E quelli americani, allora, che cosa sono? Questa è la vera Nato, un arco che si appoggia su due pilastri. Non quella a cui ci siamo abituati, che è solo la Nato degli americani".
Come pensa di convincere i super-atlantisti dell'Unione?
"Anche loro dovranno rendersi conto che, guardando al futuro, si tratta di uno sviluppo inevitabile. Sto parlando di una visione. Non si può fare politica se non si ha una visione. Certo, ci vorrà molto tempo. Ma alla fine dovrebbero essere proprio gli americani a rallegrarsi. Ricordo quando ai tempi del Kosovo gli Stati Uniti rimproveravano a noi europei di spendere l'equivalente del 60% del bilancio Usa per la difesa ma di avere meno di un decimo delle loro capacità operative. E' una lezione che non ho dimenticato".
Intanto però si direbbe che siano proprio i neoconservatori americani i meno interessati a mantenere il legame atlantico...
"La politica degli Stati Uniti è così adesso. Ma non è stata così in passato e non è detto che debba esserlo domani. Paradossalmente, l'ostilità verso l'Europa cresce con la possibilità di frammentare le posizioni degli europei. Un'Europa più unita si farebbe rispettare di più e renderebbe più facile la cooperazione tra le due sponde dell'Atlantico".
Berlusconi dice che dobbiamo accettare il fatto che gli Stati Uniti sono l'unica superpotenza globale e non cercare di contestarne la supremazia...
"Che gli Usa siano una superpotenza è innegabile. Ma di fronte a questa constatazione si può reagire in due modi. Si può accettare il fatto compiuto. Oppure si può cercare di crescere abbastanza da poter offrire al mondo modelli alternativi, come l'Europa ha fatto con il protocollo di Kyoto, con il Tribunale penale internazionale, con l'euro".
Vuol dire che l'euro è stato il punto di svolta?
"Sì. Perché il problema Europa negli Stati Uniti si è posto solo adesso? Perché almeno su un punto, quello della moneta, abbiamo dimostrato di essere competitivi. Per dieci anni ci hanno ridicolizzato nei nostri sforzi verso l'Unione monetaria. Quanti premi Nobel ci hanno spiegato che la moneta unica non era materialmente possibile? Ora l'euro è una realtà che fa concorrenza al dollaro sui mercati mondiali, e gli americani scoprono la questione europea. Il mio sogno è che lo stesso percorso, per quanto accidentato e difficile, possa compiersi anche per l'identità europea di sicurezza e di difesa. E so che questo sogno si avvererà".
Il refuso germogliaEmilio Gauna su Golem l'Indispensabile
Una guardia è una Guardia e non ci piove: incute rispetto, fors'anche un po' di timore. Ma che cosa sarà mai una Gaurdia? Qualcosa che spaventa e mi allarma: un mostro possente, forse; una specie di enorme gorilla che sbadiglia, da sopra le nostre spalle? Può darsi...
Ieri stavo prendendo appunti sulla Katarina Ismailova di Dimitri Sciostakovic, una storia cupa di cronaca nera che somiglia a Ossessione di Visconti. Mi è uscita fuori una Katatina che invece fa tenerezza, forse una fata gentile e un po' imbranata, paffutella...
Strane scoperte spuntano dal computer. Le lettere ci sono quasi sempre tutte; se fai l'appello, di solito, le trovi, ma l'ordine in cui escono sullo schermo lascia stupefatti e a volte pare di intuire una qualche volontà nascosta, forse una Musa del computer intenta alla sua misteriosa opera.
Di certo c'è che gli errori non sono gli stessi che faremmo scrivendo con la biro (ecco che stavo scrivendo: brio!) o con la matita, e non ci sono neanche più le vecchie tristi e care macchie di quando si usava l'inchiostro. Nascono così anche molte delle mie rime; da errori fortuiti (e non solo di battitura) possono crescere equivoci e filastrocche che sono dei veri e propri cortocircuiti.
Un corto circuito albanese
confonde Tirano e Tirana
la neve del valtellinese
e i resti dell'età ottomana.
Però la tastiera del pc sembra avere una sua volontà, smonta e rimonta le parole a suo piacimento, toglie qualcosa qui e aggiunge qualcosa da un'altra parte. A volte sono lapsus, e sono miei, i vecchi e cari lapsus del dottor Freud, ma a volte escono mostri paurosi che non hanno nulla a che vedere con la parola originale, o magari gentili creature sorridenti e un po' instabili, che muovono simpatia e che dispiace cancellare, altre volte voci flebili e indifese che magari vorrebbero dire qualcosa, ma noi le eliminiamo subito e le condanniamo all'inesistenza, radicali liberi che durano un attimo, vapori sottili del calamo. (Ma che calamo d'Egitto - scusate! Il calamo ce lo avevano le penne d'oca...)
Nel chiostro sterminato
l'inchiostro è terminato
ci arride la battaglia
finita è la bottiglia
finito è ahimè l'inchiostro
scompare l'orrido mostro
solo una macchia resta -
sul foglio bianco m'incanto.
Nel menu della mensa aziendale ho trovato wurstel cruati, prosciutto curdo, spaghetti alla bolgonese: tutto un menu che sposta la geografia e che la sposa - si può anche riderne, ma se non si sta attenti può anche passare la voglia di mangiare (la voglia o la volgia?)
Cosa saranno mai i proprositi? Forse propositi un po' indecisi, di gente che si mangia le unghie, e rosica ma non risica, forse proprio il proposito di chi vuole smettere di mangiarsi le unghie ma ode in lontananza un rosicchiare lontano: proprositi...
Far flettere al direttore
le articolazioni ribelli -
lo yoga ti rende più elastico,
a lui ed anche ai suoi redattori.
Ti muovi e sei un po' meno statico:
è un metodo assai democratico,
è cosa che fa anche riflettere.
Una lunga sequenza del film Lo specchio di Andrej Tarkovskij è dedicata alla madre del regista, in ansia perché faceva la redattrice di un giornale e credeva di essersi lasciata sfuggire un refuso fortemente antistalinista: errore che, all'epoca, poteva avere conseguenze gravi. Del resto, anche da noi c'è una lunga aneddotica di episodi simili, avvenuti durante il triste ventennio. Ma qui stiamo parlando di cose molto meno drammatiche.
Per questo stupido capoverso,
che io ho saltato,
mi ha preso in giro;
Per questo stupido capoverso
ecco che invano
piango e sospiro.
Starò più attenta,
che cosa chiedo:
la comprensione, che degli errori
non si può proprio mai farne a meno.
Ecco un piccolo campionario di miei personalissimi errori, tutti autentici (io non so battere a macchina, uso solo due dita - come la maggioranza della gente, del resto):
Un piccolo incubo nucleare: sotto il portone o sotto il protone?
Priamidi, avevo scritto: edifici troiani? Di discendenti o di antenati di Priamo?
Il citrosil disinfetta; ma cosa sarà mai il ritrosil, forse un farmaco contro la timidezza o contro la frigidità?
Una bira direi che la bevono a Roma; una birrra forse su Marte...
L'atomaia non è più una parte della scarpa: è forse la serra dove si coltivano gli atomi?
E il lito, che forse è un antico strumento a pietra.
i.
Non so se dire nàrvalo o narvàlo
non so neppure dove vive lo snualo
non so se vive o non vive il nagualo
e se s'arrampica o se vive al suolo
ma quel che so è che non ve n'è d'ugualo
che il cuor m'opprime e che provoca il duolo.
ii.
Ho poi fatto una ricerca sul mio nàrvalo
ho il risultato ma non so se dirvelo;
snark is the shark as he lives in Carroll,
it was a phantom with a name of animal;
e quanto a Castaneda e al mito del nagual,
no non ve n'è no non ve n'è d'ugual.
I musicisti dicono che quando, suonando, si sbaglia bisogna andare avanti lo stesso, recuperare l'errore e magari approfittarne per cavarne qualcosa di bello o di divertente. Le cronache raccontano che nel 1996 il grande violinista Gidon Kremer, a Milano, mentre suonava Mendelssohn fu disturbato da un telefonino che squillava. Invece di interrompersi, inventò lì per lì una cadenza partendo da quel suono inopportuno, e naturalmente alla fine piovvero applausi (o appalusi? mah!). Io non c'ero, e mi dispiace; però mi sono letto il libro principe di questi inconvenienti, e di altri ancora: si tratta di La vita e le opinioni di Tristram Shandy, di Lawrence Sterne. Siamo a metà del Settecento, non ci sono ancora macchine per scrivere né tastiere del computer; ma quel libro è pieno di pagine bianche, asterischi, capitoli spostati, e tanti altri accidenti (anche il nome del protagonista è un errore: avrebbe dovuto chiamarsi Trismegistus, e invece saltò fuori Tristram) e chissà quante fatiche sarà costato al tipografo che lo stampò la prima volta...
Questo con cui concludo è un piccolo omaggio al Maestro, ripreso dal capitolo 37 del terzo volume del Tristram Shandy (1760). Mi sembra un buon modo per chiudere.
L'Ispirazione
Per cancellare l'errore
uso con cura la gomma
buco 'sto foglio
e attonito resto
di fronte alla pagina rotta.
Cos'è 'sto buco - penso -
che tutto il sottostante mi rivela? Vedo un cartòn
un cartòn grigio e spento:
ecco chi c'era dietro
alla mia opra!
( a L. Sterne )
Bentornata Albertina Massimiliano Fuksas su L'espresso 10 aprile
Dopo dieci anni, l'Albertina riapre al pubblico. Il progetto completa il patrimonio museale viennese, dopo il Mac per l'avanguardia e il complesso del Museum Quartier inaugurato l'anno scorso. L'Albertina è situata al centro di Vienna e accoglie una delle più straordinarie raccolte di grafica e disegni. A luglio si aprirà la mostra intitolata "Da Raffaello a Goya", dedicata al più importante fondo del museo. L'edificio originale è stato costruito nel XVII secolo sulle antiche mura fortificate. Nel XVIII secolo l'Albertina è stata rimaneggiata per essere destinata a ufficio dell'imperatrice Maria Teresa d'Austria. All'inizio dell'Ottocento il palazzo è stato ampliato con l'ala Burggarten in stile neoclassico. Hans Hollein, architetto viennese, è stato incaricato di una parte del recupero. Il suo compito era di esporre permanentemente non meno di 10 mila disegni. Il controllo della luce, per non distruggere le opere sensibili alla sovraesposizione, è stato uno dei dilemmi più difficili da risolvere. La modulazione dell'intensità luminosa è stata raggiunta utilizzando sofisticati sistemi digitali. Hollein ha realizzato la hall d'ingresso nel lato sud dell'edificio con una scala mobile obliqua che marca lo spazio. Non è chiaro quanto abbia inciso l'intervento dell'architetto viennese e quanto il lavoro di Steinmayer-Friedrich Mascher incaricato dell'ampliamento di quattro piani. Completano il progetto un centro studi, un auditorium e un'area di 800 metri quadrati per le esposizioni.
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