giovedì 28 agosto 2025

Insegnare filosofia in carcere

 

- Agosto 27, 2025 
 
 

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Di tutte le materie che possono entrare in carcere, la filosofia è forse la più spiazzante. Lo è anche per Jim Chamberlain, docente all’Università di Sheffield e membro della charity “Philosophy in Prison”, che su The Conversation analizza di come la filosofia sia la più sorprendentemente adatta, perché si fa parlando, senza libri né tecnologia, ed è quindi accessibile anche a chi ha alle spalle esperienze scolastiche discontinue o livelli di alfabetizzazione bassi. Nei suoi corsi, scrive Chamberlain, il dialogo filosofico “equalizza” la stanza, mette sullo stesso piano chi ha titoli di studio e chi non sa quasi leggere, e costruisce regole di disaccordo che disinnescano il conflitto, non poca cosa in ambienti sovraffollati e tesi. In più occasioni, i partecipanti hanno raccontato un cambio di sguardo su di sé: “Con la filosofia, alle persone importa cosa penso. Nessuno ascolta quando sei stato in carcere. Tutto quello che pensi è sbagliato, spazzatura, non sei niente”; “Odiavo la scuola, ho abbandonato a 11 anni, non so leggere, non so scrivere. Ma questo lo so fare.” Queste frasi sono voce di chi, attraverso domande come “che cos’è una vita buona?” o “che cosa mi rende la stessa persona di dieci anni fa?”, ricomincia a tessere legami di fiducia e a praticare un dissenso che costruisce.

Questo approccio è oggi strutturato in dieci carceri inglesi, con liste d’attesa e nuove attivazioni in corso. Nelle evidenze presentate alla Commissione Giustizia e Affari Interni del Parlamento britannico, la charity spiega perché il “fare filosofia” in cerchio funzioni proprio dove tanti percorsi formativi falliscon; è conversazionale, quindi aggira l’ostacolo della bassa alfabetizzazione, e genera un effetto livellante che può riverberare sul clima di reparto e sui rapporti con il personale. Lo stesso documento rivela che il 57% dei detenuti ha competenze in inglese e matematica pari o inferiori a quelle attese a 11 anni.

Quella di Chamberlain non è però un’eccezione. La filosofia in carcere ha origini che risalgono a decenni fa, soprattutto negli Stati Uniti. Negli anni Settanta, con l’apertura dei Pell Grants (borse di studio federali a fondo perduto) agli studenti detenuti, si moltiplicarono i programmi di istruzione universitaria intramuraria; più tardi, negli anni Novanta, iniziative come il Bard Prison Initiative rifondarono questo modello, offrendo anche corsi di filosofia di alto livello. Accanto ai percorsi accademici veri e propri, dal 1997 si diffuse l’Inside-Out Prison Exchange Program, che riuniva studenti universitari e detenuti nelle stesse aule all’interno delle carceri, per discutere di giustizia, etica e società. Da allora la pratica si è allargata a Canada, Regno Unito, Francia, Brasile e Australia, confermandosi come un laboratorio educativo e sociale capace di restituire voce e pensiero critico a chi vive la condizione detentiva.

La ricerca accademica, negli ultimi anni, ha cominciato a descrivere con più rigore cosa succede quando la filosofia entra in un penitenziario. Duncan Pritchard (UC Irvine/Edinburgh) propone di leggere questi corsi non come “contenuto” ma come “sensibilità”, per coltivare virtù intellettuali, apertura mentale, umiltà, capacità di ascolto e argomentazione, con la metodologia delle comunità di indagine filosofica. È un’educazione fondamentale, insieme fine a sé stessa e strumentale, perché allena esattamente quelle disposizioni che permettono di vivere e lavorare con gli altri.

Sul piano più esperienziale, i dialoghi socratici con gruppi di detenuti in Belgio e un corso “Socrates Behind Bars” in Spagna (che ha messo a confronto studenti di giurisprudenza e persone recluse su concetti come verità, paura, responsabilità) mostrano come la pratica filosofica possa creare spazi di riconoscimento reciproco e di “cooperazione ragionata”, oltre stereotipi e ruoli irrigiditi. Quando il confronto non è orientato a “vincere”, ma a capire meglio, le interazioni diventano più sicure e competenti, e i partecipanti riportano effetti sul modo di gestire i conflitti quotidiani. Va detto che le prove “dure” sull’impatto specifico della filosofia su recidiva e reinserimento sono ancora in consolidamento; ma sulle ricadute dell’istruzione in carcere nel suo complesso, i dati ci sono e sono robusti. Le meta-analisi RAND mostrano che chi partecipa a programmi educativi ha il 43% di probabilità in meno di tornare in carcere rispetto a chi non vi partecipa, con benefici anche occupazionali e un ottimo rapporto costi/benefici per lo Stato. In altre parole, dentro un paniere di interventi efficaci, la filosofia è una leva leggera e poco costosa che può incidere sul “clima morale” e sul capitale relazionale, proprio dove la recidiva si decide.

Negli ultimi anni, il quadro internazionale si è allargato. Il programma di Oxford “Practical Ethics” ha annunciato nel 2024 un filone di outreach in collaborazione con la charity Philosophy in Prison; la Scozia ha esteso laboratori ispirati al MOOC “Introduction to Philosophy”, registrando nel tempo richiesta crescente da parte dei detenuti; in Inghilterra, anche iniziative legate agli studi classici stanno portando Aristotele e la tragedia greca nei reparti, con l’obiettivo dichiarato di incidere su capacità decisionali, espressione emotiva e gestione dei conflitti.

E in Italia? Il quadro è vitale e in crescita. A Milano, l’Università Statale porta da anni studenti e docenti dentro Bollate e Opera con il “Progetto Carcere”, che oggi comprende veri e propri laboratori di filosofia con crediti formativi e percorsi misti “dentro–fuori”; l’istituto di Bollate documenta tra le sue attività un laboratorio filosofico su “Libertà e diritti”. I numeri complessivi confermano il dinamismo: la Statale, nel 2024–25, risulta prima in Italia per studenti in esecuzione penale iscritti ai suoi corsi. Accanto all’accademia, il volontariato storico di Sesta Opera San Fedele continua a offrire spazi di riflessione e dialogo, e diversi istituti scolastici interni sperimentano pratiche narrative e filosofiche.

Rileggendo l’esperienza di Chamberlain alla luce di questi dati, il punto torna sempre lì, la filosofia non “raddrizza” nessuno per decreto, non dà risposte prefabbricate, non promette miracoli, insegna semplicemente la grammatica della conversazione ragionata, a farsi domande, ascoltare davvero, dissentire senza umiliare e questo, in carcere, può cambiare la qualità dell’aria. Se è vero, come ricorda la ricerca, che l’istruzione riduce la recidiva e migliora gli esiti del reinserimento, allora vale la pena investire anche su questo tassello “leggero”, un tavolo, un cerchio, una domanda difficile da cui ripartire.

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