"Avrei vinto il Pallone d’Oro se fossi stato nel Barcellona o nel Manchester United, ma volevo vincere con la Fiorentina. Volevo conquistare il campionato con una piccola squadra ed entrare nella storia"
Di tutti i giocatori di cui ho memoria, lui è l'unico che possa essere paragonato a qualche personaggio mitologico, di quelli che ancora oggi contano, perché la visceralità, la ferocia che ci metteva lui in campo, pure quando era in teoria pieno di soldi, era quasi irreale. Gabriel Batistuta è stato il giocatore più vicino ad Achille di Ftia, al Re dei mirmidoni che diventò immortale sotto le mura di Ilio che io abbia mai visto. Entrambi erano biondi, ma soprattutto vivevano al 100% la singola battaglia, con il cuore ben fisso però al loro sogno di gloria. Un altro al posto di Bati sarebbe finito a fare quello che si fa oggi: mano sul cuore, dedica alla curva e via a firmare per 30 denari in più appena finito il match. Se avesse voluto, Batistuta avrebbe potuto vincere quello che voleva. Aveva la fila fuori dalla porta di Presidenti che erano pronti a fare ogni tipo di accordo, ad impegnare lo stadio, far pignorare le sedi o vendersi la moglie pur di avere questo 9 mostruoso, questo attaccante che faceva reparto da solo.
Achille allo stesso modo, avrebbe potuto anche dare un calcio nel didietro al pomposo Agamennone. Lui era il più forte, il più temuto, il più ammirato, quello che faceva la differenza tra vittoria e sconfitta. Ma al figlio di Teti non interessava un trono dorato o simili, voleva la stessa cosa che voleva Batigol: voleva essere immortale, voleva essere se stesso. Lui voleva essere a Firenze ciò che il suo idolo e compatriota Diego Maradona era stato per SSC Napoli. Achille nel cercare di essere ricordato, sapeva di rinunciare ad una vita facile, felice, pacifica e ricca, scendendo in guerra sapeva che sarebbe stato infine vinto da un mortale e da un Dio. Ma di lui si sarebbe parlato per sempre. Ed era vero. Batistuta sapeva che rinunciava a trofei facili, a palloni d'oro, da vincere assieme ad altri assi, in collettivi fortissimi e che era tremendamente difficile vincere quella guerra contro eserciti immensamente superiori rispetto al suo battente bandiera viola.
La Lega Serie A era popolata di mostri, fiere feroci, anche loro cercavano di scavalcare quelle mura dietro le quali era custodita la più grande manifestazione della bellezza che il mondo avesse mai visto: lo scudetto italiano, in quel momento il campionato più bello, difficile, competitivo di tutti i tempi.
Vincere in Italia non era come vincere in qualche altro paese, era appena sotto vincere la UEFA Champions League. E basta. Entrambi in campo davano tutto, entrambi vivevano come fosse l’ultima ogni battaglia. Batistuta era uno che non si fermava mai, non si amministrava, se segnava due gol cercava il terzo, se non arrivava il quarto era stata una giornata sprecata. Chi ha letto il poema di Omero, sa che montagne di corpi si lasciava dietro Achille, quale terribile tributo si pagava ad attraversare la sua strada. “Batistuta” dice ancora oggi Walter Zenga “per me è il più grande giocatore straniero mai arrivato in Italia”. Sul serio? Ma Ronaldo Nazário? Marco Van Basten? “No” secondo Zenga “perché Batistuta arrivò alla Fiorentina che non era nessuno”. È vero. Lo definivano un giocatore che non aveva futuro, che in fondo al Club Atlético River Plate, al Boca Juniors, rispetto a noi si faceva folklore, un caloroso casino, si urlava ma poi il livello non era paragonabile. I primi tempi parvero confermare quest’ipotesi, era spaesato, si trovava male, litigava con i compagni di squadra. Secondo molti voleva già andarsene dopo sei mesi.
Invece tenne duro, si adattò al capoluogo toscano, che se ci vai da turista o Erasmus o simili è un paradiso. Ma provate a viverci a Firenze, a stringere amicizia con qualcuno lì, nella fu città del Magnifico, provata ad ambientarvi. “So cazzi” come si dice a Roma.
Achille dovette assistere spaccato a metà, alla rotta dei greci senza lui in campo. Batistuta in campo c’era ma non riuscì ad evitare la retrocessione in B nella stagione del 1993. Nonostante i suoi gol, la sconfitta li aveva raggiunti. Pensava fosse la fine. Fu l’inizio. Li guidò a riprendersi la A, poi dal 1994, diventò quello che era nato per essere: la lama che fende le schiere nemiche. Achille aveva Patroclo, lui trovò la spalla ideale, il compagno in campo in quel Rui Costa 10 che ad oggi è ancora uno dei piedi più educati, intelligenti e raffinati che siano mai visti nei nostri stadi. Con lui vinsero la Coppa Italia, la Supercoppa italiana. Bati diventò il leader, il simbolo di una città, della sua gente, il condottiero che avevano tanto atteso, dopo anni di umiliazioni e illusioni.
I migliori difensori del mondo erano da noi, ed ognuno cercava a modo suo di tenerlo fermo, naturalmente senza riuscirci. Perché Gabriel era fuoco che arde, tempesta e grandine che ti stordisce, era il cavaliere medievale che giocava a pallone, il predatore che inseguiva la preda ma anche il suo destino. Ma quel destino non arrivò. Stagione 1998-1999. C’è un asso come Il Trap in panchina, c’è una squadra più forte degli altri anni, lui appare inarrestabile, segna a raffica, segna in Europa come in Italia, zittisce curve atterrite da quella chioma che corre e da quei piedi che sparano cannonate a mitraglia. Poi, contro il AC Milan succede che quel Dio vendicativo od odioso, scaglia la sua freccia. Achille se la trovò nel tallone, lui invece se la trova nel ginocchio destro. Che va in pezzi. Con quello anche i sogni della viola, visto che l’uomo che potrebbe dare una mano a continuare la testa della classifica, a concretizzare l’essere campioni d’Inverno, è troppo pigro ed egoista per non prendere il largo verso il carnevale di Rio.
Stavolta non c’è un Odisseo che scettro alla mano lo prenda a bastonate per farlo ragionare. Batistuta vede rosso. In tutti i sensi. Non ha il suo Ettore, ma in compenso ha il suo Agamennone. Cecchi Gori, il Presidente, che non ha trattenuto Edmundo, che non fece nulla per rimediare, che si rassegnò ed arrese. Salpa con le sue navi, a testa bassa va alla AS Roma non per vivere a lungo e felice, ma per vincere la guerra e poi cercare di farlo. I giallorossi del nuovo millennio hanno una squadra pazzesca, con un certo Francesco Totti a dargli il pallone ogni volta che può. Non è più da solo con Rui, ha un allenatore come Capello che sa come e quando colpire. Il Campionato è la sua cavalcata trionfale, pare di vederlo sopra il carro con l’armatura di Efesto, mentre schiaccia i nemici. Poi però incontra il suo passato, incontra quello che non dovrebbe incontrare, si sente come si era sentito Coriolano, nelle rime di William Shakespeare: “Preferirei dover rimettermi a curare le mie ferite piuttosto che sentir raccontare come le ho ricevute”. Ha contro quella che era la sua città, la sua vita, ma servono i gol per vincere lo scudetto, e quel 26 ottobre del 2000, fa quello che deve fare, mette il gol che vale i tre punti e uccide una parte di se stesso. Non riesce a trattenere le lacrime.
Poi arriva il 17 giugno, lo scudetto, cadono le mura di Ilio. Achille era seppellito da tempo, Batistuta non lo sa ancora, ma anche la parte migliore della sua cavalcata di calciatore lo è. Il ginocchio lo tormenta, e non solo quello, cala vistosamente, pare di vedere Prometeo e quella dannata aquila che gli spacca il fegato ogni giorno. Solo che a lui non ricresce. Col tempo sostanzialmente non si trova più cartilagine tra osso ed osso, va incontro a dolori e cali di rendimento assurdi. Sensi lo vende all’Inter. Poi si beerà di aver rifilato “un pacco” ai nerazzurri. Questa la riconoscenza per il Re Leone. Bati ha quasi 35 anni, fossimo nell’Eneide, con un po’ di fortuna sfodererebbe l’ultimo pugno come Entello, ma qui non funziona. Le gambe non rispondono più, ed è solo l’inizio del suo calvario. L’altro, eterno in quegli anni, è stata l’ AFA - Selección Argentina. Nel 1994 era giovane e pieno di sogni, segna quattro gol, ma Maradona era ancora in campo e senza, quando successe, non sapevano che fare. Lì, lì è stato il suo calvario interiore. Lì pescò un altro Agamennone, Pasarella, che lo trattò quasi peggio di come il Re di Micene trattò il suo miglior guerriero.
Si rompe una mano dalla rabbia per le mancate convocazioni. Roba da TSO non convocarlo, per chi poi? Però infine torna, in Francia viene chiamato a furore di popolo, il Pibe de Oro che lo stima immensamente intercede, lui dimostra subito di che pasta è fatto segnando cinque gol. Che forse il fantasma del Kempes passato possa rivivere in lui? Mai nessuno aveva fatto un tripletta prima in due mondiali. Ai quarti però, vi è la l'Olanda della Generazione Dorata e lui non basta. Nel 2002, è già alla fine della sua corsa, Marcelo Bielsa quella volta ci mette del suo, manda in campo l’albiceleste con un 3-3-1-3 che non si capisce ancora oggi come abbia partorito. Escono subito, male. Lui è ancora in lacrime, lì capisce, lo dice “Per me è finita”. Paradosso dei paradossi, non lo capì Achille fino all’ultimo, lo capì il suo rivale: Ettore. Non vede un falso Deifobo sparire nella nebbia delle illusioni, la morte vestita di metallo davanti prima dell'ultima carica. Ma in un certo senso è come se accadesse.
Gabriel Batistuta, discendente di friulani, quel ragazzino grasso e biondo che scelse il calcio perché non ci stava altro, è stato in realtà un po' entrambi. Scudo e condottiero, difensore sfortunato di una città e di una nazione contro tutti e tutti, condannato alla sconfitta per errori non suoi. Ma fu anche conquistatore, freccia lanciata a tutta verso la gloria ed i suoi sogni, feroce massacratore degli estremi difensori nemici, il totem a cui assomigliare. Ronaldo era tecnica, velocità e sogno, Van Basten era bellezza e eleganza. Lui è stato ferocia e potenza, un destro che era quello di un Mark Lenders. Ad un certo punto era stato ad un passo da farsi amputare quelle gambe, un tempo terrore delle schiere nemiche, per il dolore, non riusciva quasi a camminare. Non è successo, per fortuna. I capelli sono diventati un po’ più grigi del solito, non li porta più lunghi, sono cambiate tante cose dentro la sua vita, ma mai quante lui ne ha cambiate nella nostra, quando da bambini lo vedevamo in campo, e pensavamo che dovesse essere fantastico giocare con lui e vederlo non stringere alcun patto con gli altri uomini.
Sono 55 oggi. Tanti Auguri Batigol.
L'uomo che fu leone.
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