sabato 11 ottobre 2014

«Mi sono toccata il viso col guanto»
Ecco come si è contagiata l’infermiera


Maria Teresa Romero si è sfregata il viso mentre si toglieva la tuta isolante, dopo aver assistito il missionario Manuel Garcia Viejo. Morto Duncan, il primo contagiato Usa

di L. Cu.


Maria Teresa Romero con il suo cane Excalibur, soppresso per motivi di sicurezza (Epa)
Maria Teresa Romero con il suo cane Excalibur, soppresso per motivi di sicurezza (Epa)

Maria Teresa Romero, l’infermiera spagnola che ha contratto l’Ebola dopo aver assistito il missionario Manuel Garcia Viejo, si è sfregata il viso con un guanto nel momento in cui si sfilava la tuta isolante. Ecco come sarebbe avvenuto il contagio, secondo quando ammesso dalla stessa 44enne, primo caso di Ebola in Europa. «Credo che l’errore possa essere stato nel momento in cui mi sono tolta la tuta, lo vedo come il passaggio più critico nel quale può esserci stato il contagio» ha detto telefonicamente al quotidiano El Pais. L’infermiera ha avuto due contatti con il missionario ammalato: uno per cambiargli il pannolone e il secondo quando era già deceduto, per pulire la stanza. «Non so come sia potuto accadere - ha aggiunto la donna -. Spero di riuscire a uscirne, devo uscirne».
Morto Duncan, primo caso negli Usa
È invece morto Thomas Eric Duncan, il primo caso di Ebola diagnosticato negli Stati Uniti. Dal 28 settembre era ricoverato a Dallas, nel Texas Health Presbyterian Hospital, dove è stato trattato con un farmaco antivirale ancora in fase sperimentale di sviluppo: si tratta del brincidofovir, che la Food and Drug Administration ha approvato per l’utilizzo in caso di emergenza. L’America ora è sotto choc e ha paura. «Ebola è una crisi mondiale che va risolta urgentemente» ha detto il segretario di Stato John Kerry, sottolineando la necessità che «più Paesi si mobilitino nella lotta all’epidemia, impegnando più fondi e più equipaggiamenti per contenere il contagio». Il 42enne aveva contratto il virus a Monrovia in Liberia, portando una conoscente in ospedale e il 20 settembre, quando ancora non aveva sintomi visibili, era arrivato negli Stati Uniti. Da diversi giorni era in condizioni molto critiche. Altre persone a Dallas potrebbero essere in pericolo: dieci hanno avuto contatto diretto con l’uomo quando era contagioso, altre 38 sono considerate a rischio. Inoltre, quattro persone che vivono accanto all’appartamento di Duncan sono state poste in isolamento in una clinica privata. Tutti saranno monitorati per 21 giorni, il periodo di incubazione della malattia. Duncan era stato sottoposto a uno screening sanitario all’aeroporto di Monrovia, dove i medici hanno misurato la sua temperatura e non hanno trovato sintomi compatibili con Ebola. Ma pochi giorni dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, l’uomo ha cominciato ad avere la febbre, mal di testa e dolori addominali. Dal pronto soccorso è stato mandato a casa per poi essere ricoverato d’urgenza pochi giorni dopo. L’ospedale ha più volte cambiato versione sull’accaduto, prima spiegando che non aveva avvisato di essere arrivato dalla Liberia, per poi dover ammettere di essere a conoscenza delle sua provenienza.

Misure extra in cinque aeroporti Usa
Le autorità americane intanto hanno deciso di intensificare le misure adottate per prevenire la diffusione del virus: in cinque dei principali aeroporti, ai passeggeri in arrivo dall’Africa occidentale verrà misurata la temperatura. Inoltre, i viaggiatori dovranno rispondere a un questionario. Le misure entreranno in vigore il prima possibile, forse già a partire da questo fine settimana. Gli aeroporti interessati sono il John F. Kennedy International di New York, il Washington Dulles International, l’O’Hare International di Chicago, l’Hartsfield-Jackson International e il Newark Liberty International. Negli Usa sta lottando contro Ebola anche Ashoka Mukpo, cameraman dellaNbc ricoverato a Omaha in Nebraska. Anche lui, come Duncan, viene trattato con il farmaco sperimentale brincidofovir. Kent Brantly, il primo medico americano colpito dall’Ebola in Liberia e guarito dopo il reimpatrio negli Usa, ha donato il suo sangue per Mukpo, aumentando in questo modo le sue speranze di sopravvivere.
«È rimasta soprattutto in casa»
Anche l’infermiera spagnola, caso “zero” in Europa, è stata curata con trasfusioni di sangue di Paciencia Melgar, la suora guarita dopo aver contratto il virus in Liberia. Le sue condizioni sono stazionarie. Martedì Romero, sposata e senza figli, si era detta certa di aver seguito tutti i protocolli sanitari previsti. Il marito, anche lui ricoverato in isolamento per precauzione, ha aggiunto che, dopo aver cominciato ad avvertire i primi sintomi (il 30 settembre) e prima del ricovero (lunedì 6 ottobre), la donna è rimasta soprattutto in casa. Per sei giorni la temperatura non è mai salita oltre i 38,6 gradi, che sono la soglia di allarme ufficiale per il riconoscimento di Ebola. L’uomo ha aggiunto di sentirsi bene, ma il periodo di incubazione della malattia è di 21 giorni. Dunque per i medici resta un soggetto fortemente a rischio per i contatti ravvicinati che ha avuto con la moglie. L’appartamento dove vive la coppia, in una zona residenziale di Alcorcon a Madrid, è stato disinfettato a fondo e il cane, Excalibur, è stato abbattuto per precauzione. Un gruppo di animalisti si è radunato di fronte all’abitazione tentando di salvare la vita all’animale.
Il governo spagnolo ammette: possibile falla
Altre cinque persone, oltre alla Romero, sono ricoverate in isolamento nell’ospedale Carlo III come casi sospetti di Ebola: tra loro Juan Manuel Parra Ramirez, il medico del pronto soccorso dell’ospedale di Alcorcon che lunedì mattina ha assistito la Romero prima del trasferimento all’ospedale Carlo III, e il medico di famiglia dell’infermiera, la dottoressa dell’ambulatorio di Alcorcon che per prima l’ha visitata. Entrambi non presentano sintomi di contagio. Il terzo sanitario sotto osservazione è un infermiere del Carlo III, che ha assistito i due missionari spagnoli rimpatriati dalla Sierra Leone e poi deceduti. Per «contatti a rischio» altre tre persone sono ricoverate nel reparto di vigilanza attiva: tra queste Javier Limon, il marito di Teresa Romero, che a sua volta non presenta sintomi dell’infezione, e un’infermiera dello stesso ospedale, che aveva partecipato al dispositivo di emergenza per i due missionari rimpatriati. Sono invece stati dimessi dall’ospedale, perché negativi ai test dell’Ebola, un ingegnere spagnolo che era rientrato dalla Nigeria con sintomi febbrili e un’altra infermiera che aveva assistito i due missionari deceduti. Adesso le autorità sanitarie spagnole stanno cercando di rintracciare le persone con cui Maria Teresa Romero è stata a contatto prima di essere ricoverata: sono sotto monitoraggio in 54, per lo più personale sanitario. Secondo il ministro della Sanità spagnolo, Ana Mato, al momento nessuno di loro presenta sintomi di Ebola. Intanto la Procura di Madrid ha aperto un’inchiesta per accertare eventuali responsabilità penali nel primo caso di contagio europeo. La stessa Commissione europea aveva chiesto «chiarimenti»: il governo spagnolo ha comunicato al Comitato di sicurezza sanitaria della Ue e all’Organizzazione mondiale della sanità che il contagio è avvenuto «per un possibile allentamento di alcuni procedimenti, inclusa la manipolazione del cadavere» del missionario deceduto, «o per lo smaltimento di materiali medici». Secondo l’informativa, riportata da El Pais, Madrid ha dunque ammesso per la prima volta una possibile falla nella sicurezza. Tuttavia, il rappresentante spagnolo nel Comitato di sicurezza sanitaria ha sottolineato che si tratta di un’ipotesi e che l’indagine va avanti.
«Noi medici non siamo preparati»
Va avanti poi la protesta del personale sanitario dell’ospedale Carlo III, che martedì ha manifestato chiedendo le dimissioni del ministro della Sanità. «Non sono preparato per curare la malata di Ebola - ha detto un medico, chiamato insieme ad altri colleghi a curare Teresa Romero -. Nessuno mi ha insegnato ad indossare la tuta protettiva. E lo stesso accade a molti miei colleghi. Non potrebbero occuparsene persone con una formazione specifica?». La denuncia di Santiago Yus, medico specialista in terapie intensive con oltre 30 anni di esperienza alle spalle al Carlo III, si aggiunge a quella di una quindicina di suoi colleghi che si sono riuniti con la direzione dell’ospedale per lamentare la scarsa preparazione specifica ricevuta: qualche incontro di dieci minuti su come trattare un malato di Ebola, alcune foto alla parete nei reparti che spiegano come mettere e togliersi la tuta protettiva e un corso due mesi fa. «Sono venuti un medico e un’infermiera. Si sono infilati la tuta e se la sono tolta. Molto amichevoli e disponibili. Ma la formazione è stata ed è assolutamente insufficiente». Anche Juan Manuel Parra Ramirez, il medico del pronto soccorso dell’ospedale di Alcorcon che ha assistito la Romero, ha denunciato «gravi carenze nel protocollo di sicurezza» e di mezzi per far fronte all’emergenza. Ramirez, che è rimasto in contatto con l’infermiera per 16 ore, critica inoltre la mancanza di informazione e il ritardo con il quale l’ammalata è stata trasferita in isolamento al Carlo III. Il medico ha saputo del risultato positivo all’Ebola dei due test effettuati sull’infermiera da organi di stampa, e non dall’ospedale. E, pur avendo richiesto il trasferimento a mezzogiorno di lunedì, questo non è avvenuto prima della mezzanotte. Per cui il medico ha dovuto indossare «in almeno 12 occasioni la tuta di sicurezza», le cui maniche - spiega - «mi sono andate corte dal primo momento». Ora il medico è ricoverato in isolamento, senza sintomi: è stato lui stesso a chiedere di essere sottoposto a una maggiore sorveglianza. Anche Peter Piot, il medico che scopri nel 1976 il virus dell’Ebola e che oggi lavora per l’Oms, sottolinea il rischio corso dal personale sanitario: «Potrebbero esserci molti casi di Ebola tra medici e gli operatori sanitari che lavorano nei raparti di terapia intensiva, e non solo in Africa, anche nei Paesi occidentali che hanno sistemi sanitari efficienti. Ogni piccolo errore nella fase di assistenza dei malati può essere fatale». Come è stato per Maria Teresa Romero.
Sierra Leone, cadaveri nelle strade
Intanto, è sempre più tragica la situazione nei Paesi africani colpiti dall’epidemia. In Sierra Leone i corpi delle vittime dell’Ebola sono stati lasciati per le strade a causa di uno sciopero del personale che si occupa delle sepolture (ora concluso), in protesta per il mancato pagamento dello stipendio. Proprio in Sierra Leone ci sono stati 121 morti e 81 nuovi casi nella sola giornata di sabato, una delle peggiori da quando è comparsa la malattia. Il numero totale di morti nel Paese è arrivato a quota 678. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il bilancio complessivo delle vittime di Ebola (aggiornato all’1 ottobre) è di 3.439 morti su un totale di 7.492 casi. Il virus è comparso in Guinea a marzo, quindi si è diffuso in Liberia e in Sierra Leone. Focolai minori in Nigeria e Senegal sembrano essere invece sotto controllo. Il conto è salato, e non solo per quanto riguarda le vite umane. Secondo la Banca Mondiale, se l’epidemia di Ebola si estenderà ad alcuni Paesi vicini a quelli più colpiti - Sierra Leone, Liberia e Guinea -, l’impatto finanziario a livello regionale sarà di 32,6 miliardi di dollari entro la fine del 2015.
Lorenzin: nessun allarme in Italia
Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha ribadito che l’Italia «non sta vivendo un allarme o un’emergenza» legata a Ebola, anche se «è molto preoccupante la situazione in Africa occidentale». «Ho chiesto che ci sia una riunione della Commissione salute in Europa per capire se possiamo immaginare nuovi tipi di tracciabilità per i passeggeri che vengono da questi Paesi, soprattutto per gli operatori nel caso siano stati in contatto con i malati - ha aggiunto il ministro -. Noi stiamo provvedendo a delle misure più alte in previsione di un aumento dell’epidemia in Africa. Ho anche chiesto 5 milioni in più nella legge di stabilità proprio per intensificare la sorveglianza. Bisogna predisporsi ad ipotesi che possono essere anche diverse da quelle attuali. Ma Ebola - ha concluso - è un virus che in un Paese con il sistema sanitario e igienico come il nostro si trasmette molto difficilmente». Lorenzin, che ha elogiato i cooperanti italiani impegnati nei Paesi africani colpiti («sono persone eroiche»), ha poi ricordato i due ospedali impegnati nel contrastare il virus: «Lo Spallanzani di Roma e il Sacco di Milano sono di altissimo livello e vengono presi come esempio e interpellati dall’Oms».
«Attenzione ai rapporti sessuali»
Infine, c’è un’allerta della Società italiana malattie infettive e tropicali, secondo cui «le regioni italiane più esposte geograficamente al rischio di importazione della malattia da virus Ebola sono le regioni costiere presso le cui aree portuali sbarcano periodicamente clandestini provenienti dai Paesi africani: la Sicilia sembra essere la regione più interessata dal potenziale contagio, a causa dei periodici sbarchi di clandestini lungo le sue coste». Lo ha spiegato Antonio Chirianni, vicepresidente della società scientifica. «Il lungo tempo di incubazione, fino a 21 giorni - rileva ancora la Simit -, può comportare la probabilità che un individuo asintomatico proveniente dai Paesi endemici manifesti la malattia al suo arrivo in Europa». Inoltre bisogna fare attenzione ai rapporti sessuali: «Sebbene l’infezione si trasmetta mediante contatto interumano diretto con organi, sangue e fluidi biologici - spiega Chirianni -, è importante anche evidenziare che il virus permane a lungo nello sperma e che, pertanto, i rapporti sessuali possono rappresentare un veicolo di diffusione dell’infezione anche 6-7 settimane dopo la guarigione».

http://www.corriere.it/salute/14_ottobre_08/con-guanto-ho-sfiorato-viso-ecco-come-si-contagiata-l-infermiera-2e22d7be-4ef3-11e4-b3e6-b91ef8141370.shtml

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