venerdì 12 luglio 2013

Vie di fuga dal lavoro

Troppo spesso nei testi accademici si parla di una fantomatica economia di sopravvivenza. Ci viene proposta l’immagine del «selvaggio» come un uomo sopraffatto e dominato dalla natura, minacciato dalla carestia. Eppure, quel selvaggio non doveva affrontare il problema del buco dell’ozono e dei cambiamenti climatici e ai suoi tempi il numero di persone che soffrivano di fame e denutrizione non raggiungevano i numeri di oggi (circa 2 miliardi di persone). Marshall Sahlins nel suo L’economia dell’età della pietra(Bompiani), ha dimostrato che il lavoro così come pensato oggi non è sempre esistito e ha messo in mostra un’altra differenza, procedendo a una rigorosa quantificazione dei tempi di lavoro nelle società primitive: lontano dal trascorrere le loro giornate in una febbrile attività di raccolta e di caccia, questi supposti selvaggi dedicano mediamente alla produzione di cibo non più di cinque ore al giorno. Una produzione oltretutto interrotta da frequenti riposi e che non coinvolge quasi mai la totalità del gruppo. Il saggio del francese Philippe Godard, Contro il lavoro (elèuthera), comincia proprio dall’analisi di Sahlins. Non è certo una strategia per richiamare e rimpiangere una immaginaria età dell’oro, quanto una chiave  coraggiosa e interessante per mettere in discussione i paradigmi del lavoro e della società moderna dello sviluppo.
Godard, autore di testi per ragazzi e di saggi sui temi del lavoro, attraverso Sahlins, mostra come la categoria del profitto non interessa gli uomini e le donne primitivi: se non reinvestono, non è perché non concepiscono questo atto, ma perché non rientra tra gli obiettivi che perseguono. Diversamente da noi, in quelle società non si vive per produrre ma si produce per vivere. In questo modo, l’economia dei primitivi non solo non risulta un’economia della miseria, ma al contrario le società primitive sono le prime vere società dell’abbondanza. Scrive Godard: «Da un terzo a metà dell’umanità, si corica ogni sera affamata. Nella vecchia Età della pietra, la percentuale deve essere stata molto inferiore. Questa è l’epoca della fame senza precedenti». Non è certo un caso se anche un  libro straordinario, da poco pubblicato, Crack capitalism (Derive Approdi), di John Holloway – testo di cui Comune-info si occuperà a lungo -, sia una durissima critica al lavoro (salariato e astratto) su cui si regge il capitalismo, e richiami spesso le analisi di Sahlins.
È chiaro che nelle società primitive non potrebbe emergere il concetto di lavoro con il significato che oggi si dà a questo termine. Ma il lavoro oggi, «dato il posto che occupa nella vita e nei rapporti sociali, impedisce la creazione e l’invenzione di altre relazioni sociali». Non solo, è anche dominio sugli esseri umani e sulla natura. Del resto, l’economia per Godard non è altro che il prolungamento del lavoro, che ha sostituito il sistema di scambio del dono e del contro-dono, ampiamente descritto da numerosi etnologi. È una modalità del potere basata sull’organizzazione della scarsità, ovvero della povertà di alcuni: «Un’economia rivoluzionaria non esiste: la rivoluzione consiste, tra le altre cose, nell’uscire dall’economia e così invalidare la scarsità. È verso la non-produzione che bisogna andare».
Pur non essendo ancora molto diffusi questi punti di vista sono comunque già stati analizzati da diversi autori. Più originale e interessante ci sembrano i paragrafi su come tentare, in questo momento storico, di ribaltare i paradigmi del lavoro, dell’economia, dello sviluppo. Si tratta, secondo l’autore, di praticare un’idea di politica attraverso il non-agire, cioè agire senza aspettarsi niente e dunque senza costringere altri a fare qualcosa, senza cercare di convincere. «Se il non-agire può diventare un riferimento, lo sarà senza costringere nessuno». Il non-agire non costituisce quindi un programma e non implica il proselitismo, anzi spinge alla «disorganizzazione del mondo», rivalutando la frammentazione sociale. Gli effetti di questo non-agire, spiega Godard, non restano confinati alla sfera individuale in quanto esso presuppone che si smetta di lavorare per imprese che partecipano direttamente alla distruzione del pianeta (armamenti, petrolio, banche, biotecnologie, automobili). Di sicuro, il non-agire non è realizzabile con un colpo di bacchetta magica rivoluzionaria, perchè «non è un modo per fare la rivoluzione, ma di viverla».
Una nota, in questa analisi condivisibile di Godard, le merita infine la critica dell’autore alla decrescita. Come altri studiosi Godard sembra attribuire a questo termine non il significato di slogan provocatorio che allude ai tanti modi per tradurre in pratica la critica allo sviluppo, e dunque ai tentativi di uscire dal capitalismo (cominciando dalla resistenza alla dittatura della crescita infinita), quanto quello di teoria economica ben definita che propone il ritorno a tempi in cui lo sviluppo tecnologico e industriale erano ridotti. Ma questo secondo punto di vista non è certo quello più diffuso tra movimenti e studiosi, a cominciare da un altro francese come Serge Latouche. Che scrive: «Il progetto della società della decrescita ha cominciato a essere formulato negli anni ’70 (anche se il termine decrescita è stato introdotto solo di recente), da teorici come Ivan Illich, André Gorz, François Partant e Cornelius Castoriadis. Le sue radici si perdono nel primo socialismo e nella tradizione anarchica rinnovata dal situazionismo. L’utopia della decrescita è un progetto articolabile sul circolo virtuoso delle cosiddette otto «R», otto parole d’ordine: rivalutare (prima di tutto la sobrietà), ridefinire (la scarsità e l’abbondanza, il pubblico e il privato, le idee e le pratiche educative), ristrutturare (il sistema produttivo, costruendo cose più utili e non nocive), ridistribuire (l’Occidente rappresenta il 20 per cento della popolazione mondiale ma consuma l’86 per cento delle risorse naturali, occorre dunque ridistribuire la terra, il lavoro, il reddito di cittadinanza…), rilocalizzare (la produzione e quindi i trasporti, ma per farlo occorre prima di tutto pensare globalmente e agire localmente), ridurre (la nostra «impronta ecologica», gli orari di lavoro, gli sprechi, i consumi di energia), riutilizzare (per risparmiare risorse naturali),riciclare (ciò che non è possibile riutilizzare)». I sostenitori della decrescita dunque condividono profondamente la critica al lavoro. Scrive ancora Latouche: «La decrescita implica al tempo stesso una riduzione quantitativa e una trasformazione qualitativa del lavoro (…) La riduzione drastica del tempo di lavoro costituisce una prima protezione contro la flessibilità e la precarietà».
Insomma, non è facile di questi tempi ragionare di critica al lavoro (non certo ai lavoratori) e lo sforzo di Godard è quanto mai prezioso (qui potete leggere alcuni stralci di un’intervista al saggista francese pubblicata da Terra nuova). Sforzo che, dal nostro punto di vista, si inserisce pienamente nelle teorie e nelle pratiche dei movimenti per la decrescita (su questo tema suggeriamo la lettura anche di questo articolo di Paolo Cacciari, Il fiorire della vita, il lavoro e la decrescita).

Nessun commento:

Posta un commento