L’UMILIAZIONE DI RE GIORGIO - CHISSÀ CHE FARÀ NAPOLITANO SE IL GIUDICE DOVESSE ACCOGLIERE LA RICHIESTA DI RIINA E BAGARELLA DI ASSISTERE, IN TELECONFERENZA, ALLA SUA DEPOSIZIONE AL QUIRINALE?
Resta da vedere con quali argomenti gli avvocati dei due boss hanno motivato le loro istanze alla Corte - E poi l’ordinanza con cui il collegio ha ribadito “la necessità” di sentire Napolitano ha limitato il tema alla lettera che il suo consigliere giuridico, Loris D’Ambrosio, gli scrisse prima di essere stroncato da un infarto…
1 - I NODI DELLA DEPOSIZIONE AL QUIRINALE - CHIEDONO DI ASSISTERE I BOSS MAFIOSI
Giovanni Bianconi per “il Corriere della Sera”
I mafiosi chiedono di entrare al Quirinale, sia pure in videoconferenza. E appena il presidente della Corte d’assise di Palermo comunica che il capo dello Stato deporrà nel processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia il prossimo 28 ottobre, nel palazzo presidenziale alle ore 10, l’avvocato Luca Cianferoni — in diretta dal carcere di Parma, accanto a Totò Riina — ufficializza l’istanza di partecipazione a nome del suo assistito. Il giudice vuole però sentirla dalla voce dell’imputato, che si avvicina al microfono e conferma: «Voglio assistere all’udienza di Napolitano».
Stessa scena dal penitenziario di Tolmezzo, dove Leoluca Bagarella, capomafia cognato di Riina, dichiara: «Voglio partecipare all’udienza col presidente della Repubblica». Una richiesta senza precedenti per un evento giudiziario senza precedenti.
In realtà la Corte ha già deliberato, nell’ordinanza della scorsa settimana, la «esclusione del pubblico e degli imputati, che saranno rappresentati dai loro difensori». Siccome non esistono altri casi di tribunali in trasferta per ascoltare il capo dello Stato, la Corte ha preso in prestito dal Codice di procedura penale l’articolo 502 che regola l’esame «a domicilio» dei testimoni. Dove, all’ultimo comma, è previsto che «il giudice, quando ne è fatta richiesta, ammette l’intervento personale dell’imputato interessato».
Da questa postilla nasce l’istanza dei boss. Tuttavia gli stessi giudici avevano anticipato che la norma del codice sarebbe stata applicata «nei limiti in cui sia compatibile». E allora: è compatibile l’ingresso (anche solo attraverso un schermo tv) di boss pluriergastolani nell’ufficio-residenza dove il capo dello Stato esercita le proprie funzioni?
A questa domanda dovrà rispondere la Corte d’assise con la decisione che sarà comunicata la prossima settimana. Tenendo conto che il palazzo del Quirinale — dove il presidente dev’essere ascoltato perché così stabilisce la legge, senza prevedere deroghe — è coperto da una sorta di «immunità di sede», che non consente l’ingresso a chiunque. Quindi i giudici sono chiamati a stabilire se questa particolare situazione sia «incompatibile» con quanto previsto dall’articolo 502, oppure no.
Risolta questa questione (in maniera non definitiva se venisse confermata l’esclusione degli imputati, giacché gli avvocati hanno già annunciato i ricorsi di rito), al momento della deposizione di Napolitano ci sarà da sciogliere il nodo dell’ammissibilità delle domande. L’argomento della deposizione è ristretto alla lettera del giugno 2012 in cui il consigliere giuridico Loris D’Ambrosio si definiva amareggiato per le polemiche sulle telefonate intercettate tra lui e l’ex ministro Nicola Mancino, rassegnando le dimissioni dall’incarico.
Poco più di un mese più tardi morì, ucciso da un infarto. In quell’occasione D’Ambrosio scrisse di aver avanzato «ipotesi, solo ipotesi», riguardo alla possibilità «di essere stato considerato un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi» al tempo dei veleni e delle stragi palermitane. Il presidente ha già fatto sapere di non sapere nulla circa le supposizioni e i timori espressi da D’Ambrosio, ma ciò non è bastato a evitare la testimonianza.
Pubblici ministeri, giudici e avvocati cercheranno quasi certamente di sapere qualcosa di più dal capo dello Stato che — come lui stesso ha rivelato nella missiva inviata alla Corte — il giorno dopo aver ricevuto la lettera invitò D’Ambrosio nel suo studio «per tentare di rasserenarlo», oltre che per «confermargli stima e fiducia». Una domanda potrebbe quindi riguardare proprio quel colloquio, per verificare se Napolitano chiese lumi sulle «ipotesi» del suo consigliere. Ma già questo semplice quesito rischierebbe di essere bloccato e dichiarato inammissibile.
Nell’ordinanza con cui un anno fa hanno inserito Napolitano fra i testimoni, infatti, i giudici hanno richiamato i confini imposti dalla sentenza della Corte costituzionale che a fine 2012 ordinò la distruzione delle telefonate tra il presidente della Repubblica e l’ex ministro Mancino. La deposizione del capo dello Stato è stata dunque limitata alle «conoscenze che potrebbero esulare dalle funzioni presidenziali, comprendendo in esse le “attività informali” comunque coessenziali alle prime e coperte da riservatezza di rilievo costituzionale».
Un colloquio privato tra il capo dello Stato e il suo consigliere giuridico potrebbe — secondo l’interpretazione della sentenza della Consulta — rientrare nel campo che un processo penale non può esplorare, e in questo caso il testimone potrebbe non rispondere. O il presidente della Corte impedire a pm e avvocati di porre la domanda.
2 - LA TRANQUILLITÀ DI NAPOLITANO E L’IPOTESI IMBARAZZANTE
Marzio Breda per “il Corriere della Sera”
Ve li immaginate due superboss di Cosa Nostra ammessi a entrare, sia pur in videoconferenza, alla Casa Bianca per assistere a una deposizione di Barack Obama ed eventualmente intervenire, quasi da pari a pari? Fatte le debite differenze (ma l’umiliante impatto simbolico sarebbe lo stesso), è questo lo scenario che potrebbe materializzarsi al Quirinale il 28 ottobre, se i giudici dell’Assise di Palermo, impegnati nel processo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia, accogliessero la domanda di Riina e Bagarella di presenziare — in collegamento dalle rispettive celle — alla testimonianza di Giorgio Napolitano.
Alfredo Montalto, che presiede la Corte, si è preso una settimana per valutare la richiesta. Tuttavia, quel suo «si è riservato di decidere» è stato sufficiente a scatenare un mezzo putiferio. E ad aprire una catena di interrogativi sulla reazione del presidente. Che resta — così dice chi gli ha parlato nelle ultime ore — «tranquillo come sempre». Anche se quel qualcuno ammette che, sì, per quanto è messo sotto pressione su diversi fronti, «deve avere la pazienza di Giobbe».
Ora, senza attribuire a Napolitano virtù sovrumane e fatti salvi i diritti di difesa, incomprimibili per qualsiasi imputato, è evidente che la sola ipotesi affacciatasi ieri risulta, più che delicata, imbarazzante. Perché già il semplice rimbalzo di una simile notizia sui mass media rischia di mettere in gioco il prestigio e la dignità del capo dello Stato, da intendersi prescindendo dalla sua persona e quindi in relazione alla carica costituzionale che ricopre. E in questo caso è impossibile non associare questa faccenda alle polemiche e alle provocazioni, politiche e appunto giornalistiche, che assediano il Colle.
Così, la scelta che il collegio siciliano è chiamato a esprimere, rappresenterà una prova specialissima dell’equilibrio e della maturità del nostro sistema giudiziario e della nostra comunicazione. A farla in breve: una prova del buonsenso di un Paese nel quale, per ogni cosa che succede, troppi credono sia lecito chiamare in causa la presidenza della Repubblica.
A costo di minacciare il corretto bilanciamento tra poteri e di sfidare norme e prassi, dato che questa storia è senza precedenti. Ecco che cosa il Quirinale intende verificare, giovedì prossimo. A parte che resta da vedere con quali argomenti gli avvocati di Riina e Bagarella hanno motivato le loro istanze alla Corte, l’entourage del presidente non si mostra preoccupato.
Del resto, l’ordinanza con cui il collegio giudicante ha ribadito «la necessità» di sentire Napolitano limitando il tema alla lettera che il suo consigliere giuridico, Loris D’Ambrosio, finito a propria volta nel tritacarne mediatico, gli scrisse pochi giorni prima di essere stroncato da un infarto. L’interrogatorio, accettato dal capo dello Stato, sarà «compatibile» solo entro questo perimetro e alle condizioni stabilite dal Codice di procedura penale. Oltre non si potrà andare. O, almeno, non si dovrebbe.
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