Le principali famiglie
Ma chi sono questi personaggi potenti e pericolosi, spesso inquisiti,
arrestati, condannati, mai neutralizzati e sempre in grado di ritornare a
spadroneggiare impunemente anche grazie all’assenza di misure preventive e
cautelari incisive da parte dell’autorità giudiziaria?
Fortemente radicato nel terreno del narcotraffico sarebbe il clan guidato da Michele Senese, legato negli anni Settanta alla Nuova famiglia del boss di camorra Carmine Alfieri protagonista della sanguinosa faida con la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Una guerra cui Senese è scampato per trasformarsi, una volta giunto a Roma, nel punto di riferimento dei gruppi criminali campani e laziali operanti nel traffico di stupefacenti.
Fortemente radicato nel terreno del narcotraffico sarebbe il clan guidato da Michele Senese, legato negli anni Settanta alla Nuova famiglia del boss di camorra Carmine Alfieri protagonista della sanguinosa faida con la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Una guerra cui Senese è scampato per trasformarsi, una volta giunto a Roma, nel punto di riferimento dei gruppi criminali campani e laziali operanti nel traffico di stupefacenti.
La sua sarebbe una figura d’influenza nelle zone
orientali e a sud-est della Capitale e del suo hinterland. Senese è stato
catturato più volte ma, per via di alcune perizie psichiatriche che ne
attestano incapace di intendere e volere, ha terminato il suo periodo di
detenzione. Per cui oggi sarebbe conosciuto nell’ambiente con l’appellativo di
«O pazzo». Certificati ai quali sommare l’ultima sentenza della Corte d’Appello
di Roma che non ha riconosciuto la sussistenza a suo carico del reato
associativo riducendo la condanna inflitta in primo grado da 17 ad 8 anni di
detenzione. Regime che dal febbraio 2012 l’uomo ha iniziato a scontare in una
casa di cura privata. Il che, a quanto risulterebbe da diversi filoni di
indagine in corso in Procura, non gli avrebbe impedito di continuare ad
esercitare la sua influenza in una zona ricca di palazzi residenziali e sedi di
multinazionali. Finché le autorità giudiziarie non ne hanno ordinato il
trasferimento nel penitenziario di Rebibbia. Ma è durato poco. Nell’estate
dello scorso anno, infatti, il boss ha ottenuto gli arresti domiciliari, in
virtù di attestati sanitari che stabilivano la sua incompatibilità con la
prigione.
Altro elemento di spicco sarebbe la vasta famiglia dei
Casamonica, i rom e sinti originari dell’Abruzzo insediati nel territorio capitolino
da più di trent’anni. Forte di vincoli solidissimi e di una rete di un migliaio
di persone, sarebbero riusciti come pochi altri a costruire un impero di
proprietà e beni di lusso legando al traffico ramificato di stupefacenti
attività come la ricettazione di macchine rubate, le truffe e i prestiti a
tassi usurari. Grazie alla loro forza di intimidazione e a una fitta ragnatela
di relazioni con gli esponenti della criminalità romana e delle organizzazioni
mafiose tradizionali trapiantate nel Lazio, la loro area d’influenza andrebbe
dalla fascia Sud della Capitale al confine con i Castelli, in una zona a
elevata commercializzazione. Vivono in ville sfarzose e si muovono in auto di
lusso, risultando ufficialmente poveri o nullatenenti.
Fino al gennaio del 2012, con l’arresto tra gli altri
del loro leader Giuseppe, nessuna delle numerose operazioni di polizia
dirette dagli inquirenti della Direzione investigativa antimafia aveva
intaccato alla radice il potere dei Casamonica. Soltanto allora è stato
contestato nei loro confronti il reato di associazione per delinquere. E,
fattore singolare sul piano sociologico, tutte le vicende giudiziarie vedono
sul banco degli imputati una forte componente femminile, da sempre investita di
un ruolo nevralgico nei traffici illeciti del clan. Che adesso sarebbe guidato
proprio dalla moglie del boss arrestato a inizio 2012.
Gli intrecci che si snodano sul litorale costiero
della Città Eterna troverebbero il loro punto di riferimento nel gruppo diretto
dai fratelli Carmine e Giuseppe Fasciani. Quella che sarebbe una figura di
spicco all’interno del sodalizio, Carmine Fasciani, sarebbe riuscito a imporre
la propria egemonia sulle spiagge di Roma. Una zona dove chi opera ha
intrecciato rapporti intensi con le organizzazioni criminali attive in Spagna
per l’importazione di stupefacenti. Una delle attività di reinvestimento delle
enormi risorse sarebbe la creazione e gestione di prestigiosi locali della
movida estiva di Ostia. Uno dei più frequentati e alla moda, il Village,
fu sequestrato nel 2010, perché era stato pagato 780mila euro a fronte di una
dichiarazione di soli 14mila. Ma dopo due anni di indagini e un processo
sfociato nell’assoluzione è stato restituito a Carmine Fasciani. Alcuni mesi
più tardi, però, gli sono stati confiscati altri beni. Provvedimento che ha
rappresentato il preludio di una condanna non definitiva nel dicembre 2011 alla
pena di 26 anni e 8 mesi di reclusione come capo e organizzatore, assieme al
fratello, di un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.
Attualmente l’uomo si trova in stato di detenzione preventiva in una struttura
ospedaliera.
A “governare” il cuore e l’area Nord della
Capitale, storicamente benestante e legata alle professioni, sarebbe una figura di
maggiore spessore e più enigmatica. Si tratta di Massimo Carminati, milanese
trapiantato nella Città eterna. Il suo curriculum, il suo profilo, il suomodus
operandi, lo distinguono. Militante fin dagli anni Settanta nella sezione
Eur del Movimento sociale italiano, poi aderente al terrorismo di estrema
destra dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari fondati dai neofascisti Valerio
Fioravanti e Francesca Mambro, e infine killer per conto della banda della
Magliana tra il 1977 e il 1978.
Un passato “nero” che ha portato più volte il suo nome
nel registro degli indagati di diverse procure e spesso sul
banco degli imputati in vari processi. Il più celebre ed eclatante dei quali è
senza dubbio quello per l’omicidio del giornalista direttore dell’Osservatore
politico Mino Pecorelli, avvenuto nel marzo del 1979. Una vicenda
giudiziaria tormentata e memorabile, che sulla base delle tesi accusatorie dei
magistrati di Perugia individuava in Massimo Carminati l’autore materiale di un
delitto ordinato dai boss di Cosa nostra su ispirazione e richiesta di Giulio
Andreotti al fine di togliere di scena un personaggio insidioso per la fortuna
politica del leader democratico-cristiano.
A differenza dell’ex capo del governo, che dovette
attendere il verdetto della Suprema corte per veder riconosciuta la propria
innocenza, l’ex militante di estrema destra fu assolto già nel primo grado di
giudizio per uno dei tanti insoluti misteri d’Italia. Più volte arrestato per
decine di rapine e omicidi e mai condannato all’ergastolo, oggi Carminati non
presenta conti aperti con la giustizia. E, nonostante l’appellativo di «Cecato»
per la ferita all’occhio sinistro rimediata nel 1981 in uno scontro a fuoco con
un carabiniere, ha scelto di darsi un’immagine più rassicurante e
apparentemente più dimessa, ideale per mimetizzarsi nel turbinio quotidiano
della Capitale. Non ama ostentare il lusso e la ricchezza, non veste in maniera
appariscente, è misurato e gentile nei rapporti con gli altri. Una persona
“normale” che tuttavia riesce a suscitare nell’universo malavitoso romano
timore se non terrore.
Forse per questo è oggi più che mai avvolto dal
rispetto e dalla deferenza dovuta a un uomo di potere, spietato con i
nemici e i “trasgressori” dell’ordine criminale ma allo stesso tempo dotato di
una grande capacità di risolvere problemi a chi gli chiede aiuto. È questo il
segreto più profondo, psicologico, della sua forza. E imprenditori e i
commercianti possono chiedere protezione, interventi per recuperare crediti non
pagati, aiuti per reperire denaro liquido.
I legami con i clan del Sud
Più che trapiantare nella Città eterna e nel suo
hinterland i costumi dei clan di appartenenza, l’interesse
prioritario di molti boss siciliani, campani e calabresi è la ricerca di un
rifugio per una sicura latitanza al fine di riprendere gli affari e garantire
l’intangibilità dei propri patrimoni. L’elenco è nutrito e qualitativamente
rilevante. Da Palermo si sarebbero trasferiti nel quartiere africano di Roma,
Nunzia e Benedetto Graviano, fratelli dei boss di Brancaccio e figure di spicco
dell’ala stragista di Cosa nostra. L’ex capo clan di Brancaccio, il medico
Giuseppe Guttadauro, è tornato libero dopo uno sconto di pena per buona
condotta trasferendo la residenza nella Capitale. Nella zona Flaminia, a
Nord della metropoli, sono attive alcune ‘ndrine provenienti da Africo tra cui
la famiglia dei Morabito.
E i risultati di questa strategia sono illuminati da
pochi dati rivelati recentemente dal sostituto procuratore nazionale antimafia Diana De
Martino: «Tra il luglio 2011 e il giugno 2012 risultano presenti nella città di
Roma tutte le più importanti organizzazioni criminali nazionali e
internazionali; i procedimenti intrapresi dalla Direzione distrettuale della
Capitale sono stati 279, in aumento del 39 per cento rispetto all’anno
precedente; e in appena 6 mesi nel corso del 2012 sono stati effettuati 169
arresti per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso».
Un panorama inquietante, che spiega come mai camorra,
‘ndrangheta e Cosa Nostra riescano, in complicità e relazione chi è
attivo da tempo sul territorio romano, a conquistare settori centrali
dell’economia capitolina, inizialmente per mezzo di società ad hoccon
capitale sociale ridotto intestate a prestanome con lo scopo di fare da scudo
all’utilizzo delle risorse mafiose. È in questo modo che simili organizzazioni
sono entrate in possesso di storici locali romani: il ristorante George di via
Sardegna, il Café de Paris in via Veneto, il bar California di via Leonida
Bissolati, il caffè Chigi, lo stabile del teatro Ghione, a pochi metri da San
Pietro. Ma un’iniziativa così ambiziosa non avrebbe trovato sbocco senza il
concorso attivo e prezioso di una rete di personaggi conniventi che in cambio
di guadagni significativi offrono le loro prestazioni ai clan malavitosi. Si
tratta di imprenditori, professionisti, esponenti del mondo finanziario ed
economico.
La riscossione del denaro viene abitualmente affidata
a individui in stretta relazione con le cosche originarie delle regioni
meridionali. È sufficiente la loro affiliazione e il loro nome per incutere paura
e spingere il debitore a restituire il prestito con gli interessi. Per i
trasgressori la risposta arriva puntuale, come dimostrano i numerosi atti
intimidatori e i danneggiamenti compiuti nell’ultimo anno nel basso Lazio ma
anche nell’hinterland della Capitale e sul litorale. Se forse è prematuro
parlare della presenza di organizzazioni criminali in grado di imporre sul
territorio un racket delle estorsioni, è tangibile un clima diffuso di omertà e
una scarsa propensione a denunciare le prevaricazioni subite. Basti pensare che
in tutto il 2011 a Roma e provincia sono state presentate soltanto 38 denunce.
La vista dal Gianicolo (Flickr - ale17)
Il terreno in cui si può comprendere la gravità di
tale clima è proprio quello legato all’usura. Perché accanto ai
singoli malavitosi dediti allo strozzinaggio operano holding
finanziarie-mafiose che reinvestono nei prestiti a tassi esorbitanti i profitti
delle loro attività illegali. Una corsa frenetica e vorticosa ad accumulare
denaro su denaro e violenza su violenza. Dove le vittime sono commercianti e
imprenditori alla disperata ricerca di liquidità, costretti a consegnare la
gestione, il controllo e la proprietà delle loro aziende ai sodalizi
malavitosi.
Ma le mani della criminalità organizzata pervadono
anche il settore cruciale degli appalti pubblici, ostacolando la
concorrenza virtuosa fra imprese sane per la realizzazione di un’opera di
interesse generale. Non è un caso che nei primi dieci mesi del 2010 il numero
delle gare d’appalto sia calato di oltre il 20 per cento rispetto al 2008. E
che si stia diffondendo il fenomeno degli appalti senza gara, riflesso di un
intreccio perverso fra clientelismo politico e penetrazione mafiosa, come
rivela il tentativo delle cosche camorristiche di entrare nell’assegnazione
delle infrastrutture per i mondiali di nuoto al Foro Italico di Roma nel 2009.
La prostituzione è un mercato illecito che i clan
autoctoni e nazionali hanno appaltato in pianta stabile alle organizzazioni
malavitose straniere, anche per assicurarsi dal rischio di invasioni e interferenze nei propri
affari. Fenomeno che vede egemoni realtà nigeriane e dell’Europa orientale,
entrambe attive nella tratta di esseri umani, latino-americane e cinesi. Alle
ragazze viene riservato un trattamento differente in base all’identità dei loro
aguzzini: pesanti vessazioni fisiche e psichiche da parte degli africani, uno
stato di schiavitù ad opera dei gruppi est-europei, un margine di autonomia
economica nel caso dei sodalizi sudamericani e asiatici.
La criminalità cinese, che negli ultimi anni ha
allargato il proprio raggio d’azione dall’Esquilino ai quartieri
meridionali Casilino e Appio-Tuscolano in direzione di Ostia Lido, ha
incrementato il volume dei traffici illeciti di merci provenienti dalla
madrepatria, in gran parte contraffatte, frutto di contrabbando, talvolta
tossiche.
Sempre più frequenti sono poi le estorsioni contro i
connazionali, i reati legati all’immigrazione clandestina, le malversazioni e
truffe connesse alle agenzie di Money Transfer, che trasferiscono in Cina
rimesse e somme cospicue. Spesso, attraverso l’indicazione di mittenti e
destinatari di fantasia e utilizzando circuiti non ufficiali, vengono sottratte
risorse guadagnate da cittadini onesti nel nostro paese, e in altri casi si
trasferiscono in patria le somme derivanti dal contrabbando delle merci o dalla
violazione dei vincoli fiscali commerciali. Quanto alla malavita rumena, una
piaga ampiamente diffusa è costituita da furti e delitti contro il patrimonio,
mentre nel narcotraffico il suo impiego è finalizzato alla ricerca di corrieri
per conto di organizzazioni albanesi, nigeriane e sudamericane.
Così si completa un mosaico
complesso ed eterogeneo i cui tasselli sono tutti inseriti nel patto malavitoso imperante
nella Capitale da oltre un anno. Un panorama che Lirio Abbate su L’Espresso
riassume come «il laboratorio di una nuova formula criminale, flessibile ed
efficiente, che permette il controllo del territorio limitando l’uso della
violenza alla punizione di chi viola i patti e mette in crisi il sistema di
potere»Alessandro Verga
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