Giovanni Brusca, detto “O scannacristiani” è libero. Definitivamente, a 68 anni, dopo i quattro anni di libertà vigilata, venticinque di carcere e 150 omicidi commessi e ammessi, tra cui la strage di Capaci e un bambino sciolto nell’acido.
Chi non ha un sussulto, un moto istintivo di rabbia o smarrimento, o non ha cuore o non conosce la storia degli ultimi 30 anni di mafia in questo Paese. Oppure entrambe le cose.
Poi c’è la ragione.
Che, quando si parla di mafia, è infinitamente più utile ed efficace di qualsiasi moto viscerale o di pancia da cui nessuno, forse, è completamente in salvo.
Ed è quella ragione che ti consente di fare un salto indietro di 34 anni al 15 gennaio del 1991 quando Giovanni Falcone - non uno che passava di lì per caso - intuì per primo che, per far fare un salto di qualità all’antimafia, era necessario introdurre un sistema “premiale” per i collaboratori di giustizia, che fino a quel momento esisteva solo per i terroristi. Tra coloro che successivamente si avvalsero di quella legge ci fu anche Giovanni Brusca, che per quasi due decenni contribuì in modo diretto o indiretto a far arrestare un numero imprecisato di mafiosi a ogni livello e a svelare per la prima volta rapporti tra mafia, politica e imprenditoria oggi considerati scontati.
In quasi vent’anni di collaborazione Brusca ha contribuito a far luce, tra le altre cose, sulla strage di Capaci, sull’omicidio Di Matteo, le innervature dei clan corleonesi, le profonde connessioni tra mafia e politica, i rapporti con l’allora neonata Forza Italia, l’esistenza stessa della trattativa Stato-mafia.
Senza quell’intuizione di Falcone, non solo Brusca non avrebbe mai parlato, ma, come lui, quasi nessuno degli oltre mille collaboratori di giustizia che hanno contribuito a cambiare radicalmente la storia della lotta alla mafia in Italia.
Senza quello sconto di pena che comprensibilmente turba le nostre coscienze, oggi Giovanni Brusca sarebbe in carcere a Rebibbia a scontare un ergastolo senza scomodare la rabbia e l’indignazione di nessuno, ma fuori ci sarebbero decine, centinaia di mafiosi in più a piede libero e le nostre conoscenze delle dinamiche di Cosa nostra sarebbero infinitamente più arcaiche e primordiali.
È persino superfluo, e per certi versi improprio, ricordare l’articolo 27 della Costituzione, secondo cui “le pene (...) devono tendere alla rieducazione del condannato”.
La domanda qui non è se Giovanni Brusca potrà mai essere recuperato come cittadino.
La domanda da farsi è se vale di più la libertà dopo 30 anni ad una bestia pluriomicida o le vite e le atrocità che abbiamo salvato e risparmiato in cambio di quella libertà.
Questa è la sola e unica domanda che abbia senso farsi oggi. E occorre anche il coraggio - e la razionalità - per dare una risposta.
Gridare allo scandalo è umanamente comprensibile, ma è anche per certi versi miope e, in fin dei conti, pericoloso, perché rimette in discussione uno dei principi cardine - forse IL principio cardine - della lotta alla mafia negli ultimi 30 anni, per cui uomini come Falcone e Borsellino hanno dato la vita.
Si chiama Legge, ed è quello che più ci allontana e ci preserva dalla barbarie che uno come Giovanni Brusca ha rappresentato e rappresenterà sempre.
E lo ha ricordato proprio Maria Falcone, sorella di Giovanni.
Quattro anni fa, nel giorno della libertà vigilata, mentre Meloni e Salvini ululavano alla luna, gridavano alla “vergogna di Stato” e allo “schiaffo morale”, cavalcando la rabbia popolare e populista, Maria Falcone ce lo ha spiegato con una dignità e con parole infinitamente più forti e coraggiose di quelle che potrei usare io.
“Umanamente è una notizia che mi addolora” ha detto, “ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello. E quindi va rispettata.”
Amen.
Lorenzo Tosa

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