“Il
padre di mio nonno materno, Giovanni Haldaras, è sopravvissuto, ma ha
sempre ricordato la grande fame che dovette sopportare nel campo. Da
quel giorno ha sempre vissuto con un pezzo di pane in tasca ed anche
quando ci ha lasciati, lo abbiamo sepolto lasciando il suo pezzo di pane
in tasca”.
Così il nipote, Emanuele Piave, racconta del suo bisnonno
che, come tanti altri in quel periodo, fu internato nel campo di
concentramento di Agnone, vicino Isernia.
Sì, anche da noi c’erano i
campi di concentramento, e quelli di Agnone, Boiano e Tossiccia (vicino
Teramo), erano riservati ai sinti e ai rom, sprezzantemente chiamati
ancora oggi zingari.
Giovanni Haldaras era uno di loro, abitava a
Prato, per vivere puliva le caldaie e aggiustava pentole di rame. Nel
1938 furono approvate le leggi razziali che colpirono anche le comunità
sinti e rom.
Nel 1940 ci furono i primi rastrellamenti: il campo di
Prato dove Giovanni viveva con la sua famiglia fu distrutto, e tutti gli
abitanti finirono ad Agnone, trascinati in catene nell’ex convento di
S. Bernardino da Siena, che nel 1940 era stato riconvertito in luogo di
reclusione e sofferenza. Lì si pativa la fame e la violenza dei
sorveglianti, si lavorava duramente, molti morivano per la fatica e gli
stenti, per il freddo e le malattie.
Dopo l’8 settembre 1943
iniziarono le deportazioni nei lager nazisti, in particolare ad
Auschwitz-Birkenau, dove era stato creato un apposito settore, lo
Zigeunerlager, pieno di donne e bambini. E lì nella notte del 2 agosto
1944 la follia nazista mise in pratica la famigerata soluzione finale:
tutti i sinti e i rom furono sterminati.
Giovanni e la sua famiglia
riuscirono a scappare alla deportazione, ma furono costretti a
nascondersi nelle grotte sulle montagne della Maiella per mesi,
soffrendo la fame, una fame che Giovanni ricorderà per tutta la vita.
Ma furono molto fortunati, perché riuscirono a sopravvivere.
A
differenza del mezzo milione (ma forse i numeri sono ancora più grandi)
di sinti e rom che furono vittime del genocidio, che in lingua romanas
viene chiamato “Porrajmos”, il grande divoramento.
Un progetto
razzista e persecutorio in cui anche l’Italia prese parte, prima con i
respingimenti e l’allontanamento dal territorio nazionale, poi con una
vera e propria pulizia etnica effettuata con rastrellamenti, confino,
arresto, reclusione nei campi di concentramento italiani, e culminata
infine con la deportazione nei campi di sterminio nazisti.
Una storia di cui si parla ancora troppo poco.
Del
campo di Agnone, ad esempio, non si sapeva quasi nulla. Dobbiamo
ringraziare Milka Goman, che fu internata lì quando aveva 18 anni e che a
distanza di oltre 60 anni, nel 2005, è tornata ad Agnone per rivedere i
luoghi della sofferenza, ma soprattutto per sottrarre all’oblio una
pagina della nostra storia che non possiamo tacere. Ma dobbiamo
ringraziare anche lo scrittore e professore Francesco Paolo Tanzj, che
nel 2001 con i suoi studenti dell’ultimo anno di liceo ha intervistato
gli anziani del paese per trovare testimonianze e documenti di quel
periodo passato sotto silenzio per troppo tempo.
La bella notizia è
che nel 2005 l’allora sindaco di Agnone chiese scusa a Milka Goman e a
tutta la comunità rom e sinti per le sofferenze subite e per quei
pesanti silenzi durati troppo a lungo.
La brutta notizia è che nei
confronti di rom e sinti prevale, purtroppo ancora oggi, il pregiudizio e
l’intolleranza, dovuti in gran parte alla mancanza di conoscenza.
Ma
come diceva Gandhi: “Dato che non penseremo mai nello stesso modo e
vedremo la verità per frammenti e da diversi angoli di visuale, la
regola della nostra condotta deve essere la tolleranza reciproca”.
(Per chi vuole approfondire: Luca Bravi, Matteo Bassoli, Il Porrajmos in Italia. La persecuzione di rom e sinti durante il fascismo, Bologna 2013; Eva Rizzin, Attraversare Auschwitz, storie di rom e sinti: identità, memorie, antiziganismo, Roma, 2020. In foto: campo di concentramento tedesco)
https://www.facebook.com/lafarfalladellagentilezza/photos/a.121246012553110/472468950764146/
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