domenica 24 agosto 2014

Mattia Colombo, il torinese che accarezza i leopardi delle nevi



Di solito, il prestigio del made in Italy è un privilegio della moda. Nella biologia dura e ruvida, quella che costringe i ricercatori a interminabili mesi in tenda senza doccia, a mangiare scatolette e rischiare la pelle, prosperano le camice a colori tartan dei ragazzi usciti dalle università americane. C’è una eccezione e si chiama Mattia Colombo. Colombo, 33 anni, nato a Mondovì ma da molto a Torino, è l’unico italiano ad essere stato arruolato nel team di Panthera e dello Snow Leopard Trust nel deserto del Gobi, in Mongolia, per una stagione di raccolta dati sul leopardo delle nevi nel 2012; e oggi è uno delle quattro persone al mondo ad aver avuto tra le mani un piccolo di questo felino che appartiene quasi più alla mitologia che alla realtà. Colombo si definisce un “lupologo” e parla con entusiasmo e umiltà di una esperienza che lo ha cambiato. Prima di quelle settimane in Mongolia, era un biologo specializzato in ecologia e gestione dei grandi carnivori. Oggi è un ricercatore che ha conosciuto la bellezza enigmatica di una specie che impone all’uomo la responsabilità storica della sua sopravvivenza.  

Quando comincia la tua relazione speciale con i carnivori?  
Sin da bambino. La mia famiglia ha un rifugio alpino in provincia di Cuneo e nel 1999 venne avvistato proprio lì il primo branco di lupi sulle Alpi italiane. Nacque così, del tutto casualmente, la mia grande passione per il lupo. 

Come sei entrato in contatto con Panthera e con il Trust?  
Nel 2009 mi sono iscritto ad un Master in Management of Fish and Life Populations alla Swedish University of Agricultural Sciences di Umea in Svezia, e nel 2010 ho scritto la tesi nello Skandinavian Wolf Project presso la Grimsö Research Station sempre in Svezia. Ero già stato in vacanza in Mongolia e quando ho saputo da una mia compagna di Master che un ragazzo svedese, Orjan Johansson, era stanziale laggiù per Panthera e lo Snow Leopard Trust, gli scrissi una mail stringata. Mi rispose e divenni il suo Field Assistant per 40 giorni, con l’approvazione del supervisor di Orjan, il “mitico” Tom McCarthy di Panthera. Orjan faceva il dottorato e metteva i collari GPS ai leopardi.  

Partivi per un viaggio verso l’ignoto. Il leopardo delle nevi è un felino leggendario.  
Gli habitat del leopardo - zone in alta quota sulle montagne dell’Himalaya o massicci rocciosi nelle steppe desertiche dell’Asia - pongono difficoltà di studio notevoli. Sappiamo quindi poco della distribuzione effettiva delle varie popolazioni ancora presenti e della loro condizione sia dal punto di vista numerico che genetico. Ma non conosciamo a fondo neppure le sue abitudini alimentari, come si muove e quando entra in conflitto con l’uomo. Ad esempio, l’analisi genetica delle feci è importantissima, ma devi trovarle le feci!  

Come era composto il team di Panthera in Mongolia? Dove stavate?  
Abitavamo in un gher, la tipica tenda dei nomadi, insieme ad una famiglia mongola. Oltre a me e ad Orjan, c’era Carol, la veterinaria del gruppo, impegnata in uno studio epidemiologico. Stavamo in un campo secondario, mobile, che spostavamo per essere il più vicino possibile ai luoghi di cattura dei leopardi individuati. Poi c’era il campo base, la nostra casa, dove abitavamo con la famiglia di Miji, che si occupava di tutta la logistica, e Sumbee, il tecnico esperto in foto trappole. Abbiamo ospitato per qualche giorno una giovane antropologa giapponese e naturalmente Nadia, la biologa mongola che mi ha insegnato a cucinare i piatti locali. L’energia per le attrezzature radio e satellitari veniva da un pannello solare e da un generatore a benzina. Il mio compito era rilevare le caratteristiche dei siti di predazione, per capire quale terreno fosse più congeniale al leopardo per la caccia, e se quell’area fosse anche una zona di pascolo degli stambecchi, che rappresentano l’80% delle prede totali dei leopardi: nel Gobi l’uccisione di pecore dei pastori nomadi non è un fenomeno massiccio come in altri luoghi, ad esempio il Pakistan. Se durante le mia lunghe camminate trovavo delle cacche di leopardo, le raccoglievo per le analisi genetiche. E’ dai campioni di feci che possiamo capire le differenze tra le diverse popolazioni di felini. Ad Orjan spettava invece il compito più arduo e pericoloso: catturare i leopardi, per tutta una serie di esami di laboratorio, e per allacciare loro il collare GPS che ci serviva per individuare i luoghi di caccia e le zone usate per i loro spostamenti. Davo anche una mano a Carol, che raccoglieva campioni di sangue da roditori e animali domestici per uno studio sulle possibili malattie trasmissibili al leopardo delle nevi. Noi tutti abbiamo poi partecipato agli estenuanti appostamenti che hanno portato alle tane con i cuccioli di due femmine.  

Come avviene la cattura di un leopardo?  
Bisogna piazzare le trappole nei luoghi usati dai leopardi per marcare il territorio. Le trappole sono dotate di un congegno radio che segnala quando l’animale ci finisce sopra in modo da arrivare sul posto molto velocemente. Nel campo in cui dormivamo avevamo un rilevatore acceso 24 ore su 24, che innescava l’allarme. A quel punto è possibile essere sull’animale catturato in dieci minuti. Il progetto prevede un “protocollo di cattura” approvato da un Comitato Etico esterno, molto dettagliato, che pone una particolare attenzione nel rendere queste operazioni il meno traumatiche possibile per gli animali.  

Cosa succede quando ci si trova davanti un leopardo immobilizzato e quindi in stato di massima all’erta?  
Orjan si è formato in Svezia e poi ha lavorato sui puma in Canada. È uno che ha ricevuto un addestramento militare, sa come maneggiare animali feroci. Ma il leopardo delle nevi non è il leopardo africano. Non attacca se si sente in trappola. Si è evoluto per mimetizzarsi, per fondersi con il paesaggio scabro, rupestre, sassoso e grigio come la sua pelliccia. Appena è in trappola, si acquatta per diventare invisibile. Orjan ha sempre potuto avvicinarsi moltissimo, sia per narcotizzarli sparando un leggero narcotico, sia mentre si risvegliavano dopo la sedazione, a 2-3 metri di distanza. Lui dice che sono animali “gentili” e ha ragione. Il farmaco ha effetto in 5 minuti; a quel punto arrivavamo tutti, compresa la veterinaria, e si controllava peso, dentatura, temperatura, misure, prelievo del sangue. Orjan allacciava il collare GPS. Cercavo di non fare scemenze, ma il cuore mi batteva al massimo. 

Parliamo delle due tane che avete scoperto e visitato. Una esperienza unica negli annali della biologia. Come sono andate le cose?  
Cerchi sempre di essere duro e professionale, ma quando ci siamo trovati con i piccoli tra le braccia, eravamo emozionatissimi. Dicevamo per scherzo a Carol “Dopo, ti controlliamo lo zaino, che non te ne sei portato via uno!!”. Orjan mi ha insegnato il tipo di concentrazione che ti abbassa l’adrenalina al minimo davanti al felino:l a serenità e la calma ti aiutano moltissimo e l’animale che hai di fronte lo sente. Nella prima tana, quando abbiamo sentito il miagolio del piccolo, non avevamo nessuna certezza sulla presenza della femmina. La grotta era parzialmente ostruita da un muretto di pietre, Orjan è andato avanti con uno specchietto attaccato con il nastro adesivo al bastone da trekking. Aveva anche in tasca una bomboletta di spray al peperoncino in caso di attacco. Grazie allo specchietto infilato nella grotta ci siamo resi conto che la madre era proprio dietro il muretto che ostruiva l’ingresso. Eravamo tutti un po’ nervosi. Dovevamo capire quanti cuccioli c’erano, perché il numero di piccoli per ogni parto era uno degli obiettivi della missione. Così abbiamo sostituito lo specchietto con una fotocamera e abbiamo visto che la femmina aveva solo un piccolo. Il leopardo non ci ha attaccati: era a 1 metro da noi, ci guardava e non si è mossa, come si vede nel video su You Tube che ha fatto il giro del mondo. Una settimana dopo siamo tornati, per verificare le condizioni del piccolo. Stavolta la madre non c’era. Ho tenuto in braccio il leopardo di pochi mesi: aveva lo stomaco pieno di latte, era in perfetta salute. Nella seconda tana invece abbiamo trovato due cuccioli. Mi sono sembrati dei grossi gatti pelosissimi con zampe enormi. Abbiamo prelevato dei campioni di pelo, li abbiamo pesati, io controllavo sul VHF che la madre non stesse tornando. In quei minuti ho pensato: come biologo sono appagato per tutta la vita.  

Perché questo progetto in Mongolia è così speciale per questa specie?  
Orjan sta facendo qualcosa di incredibile: ha catturato 19 leopardi. Ciò fa di lui il ricercatore che ha avuto in maggior numero di contatti diretti con il leopardo delle nevi. Il pregio del progetto in Mongolia è l’impostazione di lungo termine, che ci consentirà di avere dati davvero solidi: i GPS sono indispensabili per avere risultati scientifici validi, ma non bastano. Devi stare sul campo a lungo per capire davvero cosa sta succedendo ad una specie, capire come funziona il contesto umano che le sta attorno e cosa vuol dire avere un gregge di pecore e capre nel Gobi. Lo Snow Leopard Trust crede molto nelle capacità dei ricercatori mongoli che lavorano nel Gobi e su tutto il territorio nazionale e si sta impegnando per sostenerli e fornir tutto l’aiuto possibile per svolgere le loro attività sia sul campo che a livello governativo. 

Ti sei reso conto nel Gobi di quanto indispensabile sia vivere a stretto contatto con questo tipo di animali.  
Devi sbatterci la faccia sul problema. Hai una mole di dati raccolti col GPS, va bene, ma poi devi interpretarli calandoti nella realtà vivente ed integrarli con altri. In Mongolia puoi percepire la complessità di questo processo. Solo stare sul campo fornisce alla mente di un biologo le intuizioni che fanno comprendere le dinamiche di una specie; impari ad ascoltare ogni piccolo segnale di mutamento. La tappa finale è poi condividere il tuo lavoro con i pastori nomadi. Infine devi trovare il modo di applicare il tuo lavoro alla realtà, alla gestione pratica del territorio nella nazione in cui ti trovi. Perché saranno i Mongoli a salvare il leopardo delle nevi, non noi. 

Questo ci porta al conflitto con gli esseri umani e alla questione dello sviluppo industriale, della crescita economia in Asia. Che cosa hai colto di questo processo mentre eri nel deserto?  
Intanto, i pastori percepiscono come responsabili degli attacchi alle greggi più i lupi che i leopardi anche quando in realtà è il leopardo ad essere più impattante. Questo da una parte aiuta il leopardo, nel senso che non è la “bestia nera”, ma dall’altra, nonostante nel Gobi siano attivi programmi di compensazione e prevenzione per i danni alle greggi, il felino spesso viene comunque ucciso illegalmente. Quindi è importante lavorare sulle comunità locali e supportare attività che producano un profitto addizionale per quelle famiglie che hanno come unica forma di reddito l’allevamento. Più in generale, la Mongolia sta cambiando e non a vantaggio del leopardo: ci si attende uno sfruttamento minerario massiccio ed esteso. Durante il viaggio di andata facevo scalo a Mosca e all’aeroporto ho conosciuto un geologo che andava nel Gobi per il business delle miniere. Era lui il vero antagonista del leopardo che desideravo tanto incontrare!  

Ma in Asia il grande nemico dei felini, come per la tigre, è la Cina.  
Dalle montagne del Tost riesci a vederla. Orjan mi diceva sempre, se ti perdi non andare a sud, perché se ti prende la polizia di frontiera cinese, ti arrestano senza tanti complimenti. La pressione psicologica del gigante cinese te la senti continuamene addosso. La forza politica di questa nazione domina il continente, e quindi il tipo di espansione economica e umana da cui dipenderà il futuro di molte specie. Ho capito in Mongolia la “criticità dell’Asia”, il nesso tra povertà, potere e biodiversità. La popolazione di leopardo nel Gobi è ancora numericamente vitale, per questo va protetta. Qui non riusciamo a renderci conto dell’entità di quello che sta succedendo; dobbiamo essere realisti, perderemo molto. Ma in Mongolia c’è ancora margine, possiamo ancora agire, siamo ancora in tempo.  

Che significato ha per te lavorare come biologo su specie in via di estinzione?  
Svolgi un compito per la collettività e non solo per il mondo scientifico, e per te stesso. Il mio lavoro non è sempre una avventura da documentario patinato. La realtà è un po’ meno spettacolare: è un lavoro durissimo, in cui spendi tanta fatica fisica, con una infinità di giornate medie, mediocri e poi 1 solo giorno che ti ripaga di anni. Ma è questo tipo di dedizione e di umiltà che ti insegna il rispetto per la terra come habitat di animali, piante, uomini.  

http://www.lastampa.it/2013/09/24/scienza/ambiente/inchiesta/mattia-colombo-luomo-che-accarezza-i-leopardi-delle-nevi-7RoI813gmBXLcQIIJVXltI/pagina.html

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