di Claudio Tognonato
Esistono ancora le imprese recuperate in Argentina? Continuano a produrre in modo efficiente? Sono un fenomeno che tende a scomparire o ci sono nuove attività recuperate? Anche in Italia ci sono fabbriche occupate? Sono numerose? Molte sono le domande e le curiosità sulla modalità di queste esperienze di recupero nate in Argentina come risposta alla crisi esplosa nel 2001.
Per riprendere la tematica e ridare attualità al fenomeno Comune-info, Altramente, Laboratorio urbano Reset e A Sud hanno promosso un incontro allo Scup di Roma dal titolo «Forme di resistenza, auto-organizzazione e recupero. Esperienze a confronto, dall’Argentina all’Italia, per una conversione ecologica dell’economia e della società». L’occasione è stata offerta dalla presenza in Italia di Fabio Resino (vicepresidente della Confederazione nazionale delle Cooperative di lavoro dell’Argentina e membro di Facta), che ha fatto il punto sulla situazione delle imprese autogestite in Argentina.
La storia di queste rinnovate forme di organizzare il lavoro parte in modo spontaneo dalla base come alternativa alla disoccupazione e alla chiusura a catena dell’industria locale. Il passo del neoliberismo lasciò dietro di sé terra bruciata, disoccupazione dilagante e fabbriche chiuse. Per i lavoratori la crisi economica era vissuta come crisi del lavoro, crisi dei diritti, povertà e solitudine. I giochi dell’economia finanziaria avevano distrutto l’economia reale e produttiva, al punto che più che produrre, conveniva importare i prodotti dall’estero. Tutto apparentemente procedeva liscio fino a quando si svuotarono le casse. Senza più risparmio la crisi economica si trasforma in crisi generale e tutto precipita.
Non vi erano più argini e il fallimento finì per rovesciare il governo, i partiti e i sindacati. In questo clima di rivolta popolare sono nate alcune forme di organizzazione per dare risposta al crollo generalizzato:
i piqueteros, i cacerolazos, le assemblee popolari, il trueque e le occupazioni delle fabbriche. Sono ormai passati molti anni e le varie risposte sono rientrate nei canali istituzionali, restano però le fabbriche ancora autogestite.
Fabio Resino ci conferma che non sono poche, tra le 200 e le 260, le imprese riunite in diverse federazioni che poi hanno dato vita a una forma confederale, la Facta. Un salto qualitativo che mantiene unite le diverse esperienze e consente a quelle piccole, che ancora oggi continuano a nascere, di non sentirsi deboli e isolate.
Il governo, attraverso il ministero del lavoro ha aperto un programma di appoggio che sostiene le attività nate dalle prime occupazioni. È stata anche modificata la legge che regola il fallimento e che ora mette gli operai al primo posto tra i creditori. Quando l’azienda chiude spesso una parte importante del suo debito è nei confronti dei propri dipendenti, che in caso di recupero, possono utilizzarlo per l’acquisto di strumenti e macchinari che gli consentano di continuare a produrre. La grande sfida è passare dalla condizione di lavoratore dipendente alla gestione di un’intera attività, dalla disoccupazione al governo del proprio futuro. Una sfida che si diffonde coinvolgendo ogni aspetto della vita.
In Argentina, in questi anni, l’esperienza è maturata e si è radicata diventando anche un efficace strumento di lotta, perché il movimento operaio sa che esistono le fabbriche recuperate. Gli operai di un’azienda che chiude sanno anche di subire un fallimento di cui non sono responsabili, per cui invece di abbandonare il posto di lavoro propongono l’autogestione.
Anche in altri paesi dell’America Latina sono nate esperienze di questo tipo: in Uruguay ci sono 34 imprese riunite in una federazione. Nel 2011 il governo ha creato una linea di crediti per le imprese autogestite e a fine ottobre 2013 il presidente Pepe Mujica ha promosso un incontro tra alcuni rappresentanti delle fabbriche argentine e l’Arnert, l’associazione delle recuperate dell’Uruguay. Mujica ha voluto partecipare alla riunione, precisando che per loro «l’economia di autogestione non è un palliativo ma una opzione per superare l’attuale sistema economico». Esperienze analoghe di cogestione e autogestione si registrano anche nel Venezuela, con la partecipazione dello Stato che propone diverse forme alternative di proprietà.
E in Italia? Le fabbriche recuperate sarebbero 32, ma si pensa che siano molte altre quelle che vivono la propria avventura in solitudine, isolate da altre esperienze analoghe. Ogni occupazione o recupero segue un percorso con una modalità particolare, le forme sono diverse, il rapporto con la proprietà varia insieme alle condizioni e difficoltà in cui si trova l’azienda. All’incontro erano presenti anche alcuni rappresentanti delle Officine Zero, i lavoratori degli ex Wagon Lits che hanno occupato ormai da più di due anni la ex fabbrica vicino alla stazione Tiburtina. La loro situazione è difficile, ci sono 33 persone che resistono anche grazie all’appoggio dell’adiacente centro sociale Strike e alla solidarietà del territorio.
L’attività ha perso la sua impronta originale, che ora si è convertita proponendosi come cantiere manutenzione e riciclo, ma anche come luogo in cui condividere il proprio mestiere e il proprio spazio di lavoro (co-work). Prima, racconta Antonio, la crisi era per settori. Ora è generalizzata e non c’è più il sindacato.
La risposta delle Officine Zero rompe l’isolamento: «Da soli eravamo morti, ora anche se non è facile organizzarci ci sentiamo vivi». In Italia il punto debole è l’assenza di un’organizzazione centralizzata, manca una federazione in grado di mettere insieme i punti di forza e le debolezze. È stata questa la chiave maestra dell’esperienza argentina, in ogni recupero immancabilmente si davano appuntamento le altre imprese che avevano già intrapreso questa scelta. La somma di quelle piccole realtà diventava in ogni occasione una presenza determinante. La solidarietà è indispensabile per sconfiggere l’individualismo della società di mercato. Una solidarietà che va costruita con il territorio, con il contesto perché le fabbriche non sono isole e possono interagire con la società stabilendo alleanza e radicandosi nei quartieri. Un nuovo patto tra la comunità e un’economia solidale.
L’occupazione delle fabbriche, che inizia come una risposta disperata, si sviluppa andando oltre la difesa del posto di lavoro, come recupero della propria dignità, perché nella lotta si guadagna il diritto a un lavoro degno. Le imprese cercano nuove forme di organizzazione del lavoro in un mondo sempre più interconnesso. La concorrenza è forte ma per abbassare i costi di produzione non è necessario passare attraverso la diminuzione del costo del lavoro, deve diminuire invece il tasso di profitto. Si tratta di un progetto carico di utopia, indispensabile e pieno di realismo, perché chi intraprende questo percorso vuole semplicemente lavorare.
Fonte: il manifesto
http://comune-info.net/2014/03/imprese-recuperate-e-autogestione/
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