lunedì 10 marzo 2014

Autogestire l’accoglienza

Ricordate i migranti abbandonati dall’amministrazione di Pisa (ne avevamo parlato qui,Nascosti sotto la Torre(*) noti anche per aver distribuito con altri le arance solidali(**) di Sos Rosarno? Con ostinazione, creatività e grazie alla collaborazione di altri pezzi della città, a cominciare da Africa Insieme e Progetto Rebeldìa, la loro esperienza di autogestione del centro di accoglienza di via Pietrasantina è cresciuta tra orti sociali, laboratori di artigianato, tirocini formativi. E grazie alla collaborazione con la Società della Salute e l’Istituzione Centro Nord-Sud in questi giorni festeggiano alcuni contratti d’alloggio. Il cambiamento profondo cresce in basso
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di Fabio Ballerini
Questa è una storia che ha come protagonisti undici migranti richiedenti asilo del Ciad, del Mali e della Liberia, arrivati in Italia in seguito al conflitto libico. Undici ragazzi che per sfuggire alla violenza e all’oppressione hanno dovuto prima lasciare le loro terre d’origine per ricostruirsi una vita in Libia, e poi trovare il coraggio di continuare a sperare, attraversando il mare affindandosi ai barconi della morte.
Arrivati in Italia, si aspettavano di trovare aiuto e di potersi ritagliare il loro posticino nel Nord del mondo. E invece no, un nuovo incubo: due anni in un centro d’accoglienza assistenziale e pregiudicante alle porte di Pisa gestito dalla Croce Rossa su incarico dell’amministrazione comunale. Emarginati in container fatiscenti, chiamati non per nome ma per numero dagli stessi operatori del centro, assistiti con 2,5 euro al giorno di budget e due pasti quotidiani precotti, senza nessun percorso di integrazione sociale e professionale attivato a fronte dei 46 euro giornalieri stanziati per l’accoglienza di ognuno di loro. Le uniche attività organizzate ammontavano a quattro ore settimanali di insegnamento della lingua italiana presso una associazione locale di volontariato che da anni organizza corsi di italiano gratuiti per migranti.
Il 28 febbraio, data di chiusura del progetto “Emergenza Nord Africa” e delle relative strutture di accoglienza tra cui quella di via Pietrasantina, si è toccato il fondo. Quel giorno gli operatori della Croce Rossa si sono recati alle 8 di mattina a chiudere e sgomberare apaticamente la struttura stessa, premurandosi di caricare su un grande camion reti e materassi e portandosi via tutto ciò che era strettamente necessario alla vita in quel luogo.
Il centro d’accoglienza ospitava ancora 22 richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale. Da un lato, volti spaesati e disorientati, bocche immobilizzate dalle barriere linguistiche e dall’impossibilità di comprendere con cuore umano ciò che gli stava accadendo. Dall’altro, personaggi ben vestiti, mai visti prima, che con fare distaccato e sorridente, gli spiegavano che il progetto nel quale erano stati inseriti era terminato proprio quel giorno, che gli avrebbero consegnato 500 euro di buonuscita e che avrebbero dismesso la struttura.
DSC_0889Ma c’è anche un’altra storia da raccontare. Quella di un piccolo gruppo di studenti universitari di “Scienze per la Pace” ed attivisti di Africa Insieme e Progetto Rebeldìa che si erano messi nei mesi precedenti a seguire l’esempio di Alexander Langer ed erano diventati, chi consciamente e chi inconsciamente, “costruttori di ponti” e “saltatori di muri”. Alcuni avevano conosciuto i ragazzi insegnando in una scuola di italiano per migranti, altri tramite amicizie in comune, e si erano create così relazioni molto forti. Ci si dava una mano l’un l’altro, si usciva insieme la sera, ci si divertiva parlando del più e del meno e si cresceva insieme prendendo coscienza delle difficoltà e dei sogni di ognuno. E fu così che si diventò un unico gruppo, una grande famiglia allargata, una piccola comunità di “traditori della compattezza etnica”.
La caratteristica di ogni comunità che si rispetti è che un problema di un singolo è un problema di tutti. Così, il 28 febbraio, il gioco non consisteva più nell’indurre alcuni migranti isolati ed emarginati ad abbandonare la struttura che li aveva accolti usando come esca una banconota da 500 euro, bensì nel convincere un gruppo unito, compatto ed eterogeneo allo stesso tempo, delle felici prospettive future di questo passaggio.
Considerato che di una qualsivoglia prospettiva positiva non vi era nemmeno l’ombra, undici migranti decisero con grande coraggio, sostenuti dalla piccola comunità che avevano alle spalle, di rischiare di perdere i 500 euro e di iniziare l’occupazione in autogestione del centro di accoglienzadi via Pietrasantina finché non fossero stati attivati – per ognuno di loro – i percorsi di inserimento sociale e professionale che latitavano da più di due anni.
Fu così che iniziò l’esperienza – unica in Italia – di autogestione a 360 gradi di un centro di accoglienza, dove migranti, studenti universitari ed attivisti di Africa Insieme e Progetto Rebeldìa, si convinsero di poter lottare per quella giustizia che, come sostiene il Subcomandante Marcos, non è mai calata dall’alto ma cresce sempre desde abajo (in basso).
Dopo otto mesi di occupazione, il 3 ottobre, data del tragico naufragio in mare vicino alle coste di Lampedusa che è costato la vita ad oltre 350 migranti, la Croce Rossa ha sospeso la fornitura delle utenze di gas e luce costringendo per oltre tre mesi i migranti, tutti titolari di protezione internazionale, a lavarsi con l’acqua fredda e a dormire sotto quattro strati di coperte in container freddi e bui. Più volte i volontari e le associazioni hanno interpellato l’amministrazione comunale di centrosinistra (Pd-Sel), chiedendo il riallaccio immediato delle utenze, senza però mai ottenere risultati significativi, assistendo alla violazione quotidiana dei diritti umani più elementari e della stessa Convenzione di Ginevra sui Rifugiati del ’51.
SONY DSCDurante lo scorso anno, all’interno del centro di accoglienza sono state organizzate alcune attività autofinanziate e autogestite: un progetto di “orti sociali multiculturali” che ha visto la realizzazione di un variegato orto nello spazio aperto della struttura e la vendita di oltre 200 fusti di insalata presso le reti locali dei Gruppi di acquisto solidale (vendute al nome di “insalate migranti”); un progetto di teatro dell’oppresso e dei laboratori di artigianato (lavorazione dell’argilla; realizzazione di borse e di strumenti musicali africani); dei corsi di lingua italiana, arabo e inglese; ed infine la realizzazione di un video documentario dal titolo “CiaLiLaPi (Ciad-Libia-Lampedusa-Pisa). Il lungo cammino verso la speranza” già proiettato in diverse città d’Italia e che racconta le storie di migrazione e di accoglienza di sei ragazzi ciadiani protagonisti dell’autogestione del centro di via Pietrasantina.
A meno di un anno di distanza dall’inizio dell’autogestione, ci ritroveremo sabato 18 febbraio a festeggiare tutti insieme, per l’ultima volta nel nostro centro d’accoglienza, l’esito di un percorso di integrazione e accoglienza dal basso, costruito senza una lira ma con grande abbondanza di abbracci e di sorrisi. La battaglia dell’occupazione e i mesi di autogestione del centro di accoglienza hanno portato – grazie alla collaborazione con la Società della Salute e l’Istituzione Centro Nord-Sud – all’attivazione di percorsi di tirocini formativi retribuiti e alla firma di contratti d’alloggio che hanno portato i migranti protagonisti di questa storia ad entrare nelle loro nuove “vere” case.
A fine dicembre abbiamo ricevuto la visita della Fondazione Langer che ha apprezzato l’esperienza dell’autogestione del centro di accoglienza di Via Pietrasantina come esempio virtuoso di pratica di accoglienza e integrazione dal basso.
Sabato 18 gennaio ci ritroveremo a discutere in vista della Carta di Lampedusa (nei giorni 31 gennaio, 1 e 2 febbraio) insieme a Giuseppe Faso e Alessandra Ballerini, per scrivere una nuova pagina di diritti e una nuova concezione dell’accoglienza, affinchè sia una prerogativa di tutti, e non solo di alcuni, la possibilità di sorridere e di sognare.

Articolo pubblicato anche da il manifesto.

http://comune-info.net/2014/01/pisa-2/
(*)

Nascosti sotto la Torre

Hanno poco più di vent’anni. Sono scappati da un dittatore e dalla bombe della Nato. Hanno vissuto per due anni a pochi metri da una delle torri più note del mondo, ma in un campo sufficientemente nascosto. Due anni senza far nulla, circondati dal silenzio delle istituzioni locali. Il campo profughi di via Pietrasantina, a Pisa, è stato gestito dalla Croce rossa. Il 28 febbraio – il giorno dello sfratto deciso dal governo Monti per ventimila profughi di tutta Italia -, quelli della Croce rossa hanno dimostrato di sapersela cavare anche con gli sgomberi, svuotando i prefabbricati che accoglievano (si fa per dire) i profughi, buttati giù dai letti. I ragazzi sono stati costretti a restare nel centro. L’alternativa era la strada. La Croce Rossa li ha denunciati per occupazione, accusando associazioni come Africa Insieme, il Progetto Rebeldìa e gli studenti del corso di laurea in Scienze per la pace di incitamento all’illegalità.
di Francesco Biagi*
«Vogliamo vivere in Italia coi frutti del nostro lavoro. Non chiediamo elemosine, vogliamo dare il nostro contributo alla vita di questo paese». Farid è uno dei ragazzi di un’età compresa fra i diciotto e ventisette anni che da circa due anni vivono nel campo profughi di Via Pietrasantina gestito dalla Croce Rossa di Pisa. Il campo è situato in periferia, dietro la Torre, accanto al cimitero della città. La marginalizzazione non è solo sociale ma anche spaziale. Non-luoghi come questo devono restare invisibili agli occhi delle persone che attraversano il territorio cittadino, e soprattutto lontano dal tessuto umano che in diverse forme abita la città.
Questi ragazzi sono arrivati a Pisa dopo un lungo viaggio. Scappavano dalla Libia di Gheddafi e dai bombardamenti della «Missione di pace» che la Nato scatenò per cacciare il vile dittatore e donare una nuova democrazia al popolo libico.
Farid e gli altri dicono che anche in Libia, dove sono nati o dove fin da piccoli hanno vissuto, erano duramente discriminati. Anche lì «il negro» con la pelle nera vive una situazione di marginalizzazione, non è un «vero cittadino» libico. A loro non è mai stata concessa la cittadinanza libica, hanno ancora il passaporto degli stati vicini come il Ciad o il Mali.
Formalmente, per le commissioni che giudicano la possibilità di avere lo status di rifugiato, non hanno alcuna prova su cui avvalersi per dimostrare che sono vittime dell’involuzione politica della Libia e delle relazioni diplomatiche fra Italia e Libia. Anche se di migranti e profughi non si parla è piuttosto difficile dimenticare come Berlusconi e Maroni non molto tempo fa hanno pattuto con tal Gheddafi i respingimenti dei migranti che scappavano dalla miseria. Incontrare la polizia italiana in mezzo al mare, dopo aver perso tutto per pagare i trafficanti di uomini che governano le tratte verso Lampedusa, significava subire le loro angherie e maltrattamenti, poi essere riconsegnati alle guardie libiche per vedersi sospesa la vita nel limbo infernale delle carceri predisposte con cura dal signor Gheddafi.
Nonostante i documentari «Come un uomo sulla terra» e «Mare Chiuso» siano stati proiettati e anche masterizzati in tutta Italia, pare che non abbiamo indignato gli uomini delle istituzioni. Come non ricordare il pacifismo strumentale di Bossi, che minacciava Berlusconi di non votare la missione di guerra perché avrebbe comportato un arrivo massiccio di migranti. Il triste motto «state a casa vostra!» stava compiendo una rivoluzione passiva anche nel rapporto fra le categorie di guerra e pace.
Fin dal principio (e per l’ennesima volta) l’accoglienza di tanti uomini e donne migranti era costruito ad arte come un problema, un’emergenza, una situazione eccezionale da gestire con misure altrettanto eccezionali. Non solo il legislatore rispondeva con una prassi giuridica d’urgenza, ma la stessa organizzazione concreta del soccorso non superava il mero assistenzialismo. Il modello politico di accoglienza che venne predisposto furono «i campi», per i più fortunati c’erano modesti alberghi solamente perché i posti nei campi erano terminati.
Lo stato di emergenza si è tramutato in regola in questi due lunghi anni: i ragazzi ci raccontano che durante la settimana non avevano alcuna attività che li tenesse impegnati, tranne le quattro ore di scuola d’italiano offerte dall’associazionismo del territorio pisano. La loro giornata-tipo era un tempo passato fra l’ozio e la noia, con nessuna concreta possibilità di impiegare il tempo in modo costruttivo. Eppure, il manuale Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) ovvero il testo a cui dovrebbero fare riferimento gli enti gestori dei campi che hanno accolto questi profughi, parla chiaramente di come non basti il puro assistenzialismo, ma sia necessario attivare un complesso percorso di inserimento nella società.
A Pisa, la Croce Rossa è responsabile di non aver mai avviato possibilità concrete di autentica integrazione: i ragazzi hanno incontrato in modo autonomo le associazioni e le realtà antirazziste del Progetto Rebeldìa, come la scuola di italiano o lo sportello di tutela legale, che hanno prestato i primi soccorsi e si sono posti come mediatori di fronte allo sfratto che pende dal 28 febbraio di quest’anno. La situazione è stata aggravata dal Governo-Monti, che non si è mai discostato dal modus operandi del precedente e ha deciso – con la fine del mese di febbraio – di dichiarare interrotto il capitolo della cosiddetta «emergenza Nordafrica», offrendo come unica soluzione una buonuscita di cinquecento euro e la chiusura definitiva dei vari campi e centri d’accoglienza.
I profughi che vivono presso il centro di Via Pietrasantina sono stati svegliati di soprassalto alle 8 di mattina del 28 febbraio dagli uomini della Croce Rossa, i quali hanno assunto comportamenti tipici di uno sgombero manu militari, vuotando tutti i prefabbricati e portando via letti, materassi, vestiti e tutto il mobilio, sospendendo anche il servizio mensa (che dopo due anni era ancora ridotto al servizio catering). A questa intimidazione si sono aggiunte quelle verbali. Più volte tentando una mediazione e chiedendo una proroga con la contemporanea attivazione di un tavolo di discussione con le istituzioni, ci siamo sentiti ripetere dalla Croce Rossa frasi come: «Dovete andarvene e basta! Anche sotto un ponte o in stazione!» oppure «portateli al vostro ex-colorificio visto che avete tanto spazio!».
Se da una parte la Croce Rossa si trova nella situazione di ricevere ordini che indicano la chiusura dei centri (e non c’è dubbio che grandi responsabilità giungono dal disinteresse nazionale delle istituzioni), dall’altra abbiamo riscontrato la miopia di un’ente che nonostante assuma la Convenzione di Ginevra come esempio per il suo lavoro, si comporta più come un corpo di polizia durante uno sgombero.
Di più, da qualche anno, diciamo dal processo di Norimberga passando per la giurisprudenza che fino ad oggi ha regolato le violazioni dei diritti umani, è stata sancita la responsabilità individuale per atti contro la dignità umana: non si comprendono allora le giustificazioni burocratiche della Croce Rossa rese note per spiegare i comportamenti dei suoi uomini. La «banalità del male» descritta da Hannah Arendt non permette di sperare nella disobbedienza e nell’obiezione di coscienza, ma la Croce Rossa avrebbe potuto di certo giocare meglio la sua autorevolezza costringendo le istituzioni amministrative locali ad assumersi maggiori responsabilità, anziché limitarsi ad eseguire la chiusura del centro dichiarata dal governo.
Intorno al territorio pisano – da Livorno fino alla Valdera – non mancano esempi virtuosi di amministrazioni comunali che attraverso il coordinamento con gli enti gestori dei centri d’accoglienza (dalla Caritas alle cooperative sociali) hanno riorganizzato o continuato un processo di inclusione sociale per queste persone. A Pisa invece scorre sempre lo stesso film, quello dell’assenza e del silenzio dell’amministrazione comunale e delle altre istituzioni (prefettura, provincia regione). Le cifre destinate all’accoglienza sono state spese per allestire un campo indegno di questo nome: container fatiscenti, collocati ai lati di un fosso maleodorante, con servizi igienici inadeguati. A gestire la struttura, sotto gli auspici del Comune, è stata sempre la Croce Rossa, che dopo aver ricevuto generosi «rimborsi», si assume la responsabilità (?) di chiudere il centro senza dare nessuna prospettiva ai suoi ospiti.
I ragazzi sono stati costretti a rimanere nel centro perché la loro alternativa era la strada. La Croce Rossa ha pensato bene di fare un esposto di denuncia per occupazione abusiva accusando l’associazionismo riunito intorno ai ragazzi di invitarli a percorsi illegali e illeciti. Intanto, le sollecitazioni dell’associazione Africa Insieme, di tutto il Progetto Rebeldìa e degli studenti del corso di laurea in scienze per la pace vicini ai profughi non hanno mai ricevuto risposta. Mercoledì 6 marzo si è tenuto un presidio sotto il palazzo che ospita il consiglio comunale in solidarietà ai profughi del centro, che – nonostante il maltempo – ha registrato un’ottima partecipazione.
Ancora una volta in città, chi è purtroppo ai suoi margini, viene ricacciato ancora di più nell’invisibilità. Il muro del silenzio costruito ad arte intorno a realtà come il Municipio dei Beni Comuni continua a ricadere anche sui profughi del Nordafrica. L’amministrazione e il potere unico del Pd pisano si compiace di convegni e giornate dedicate alla solidarietà, ai diritti umani e all’esperienza delle rivoluzioni arabe per creare un rassicurante torpore tra chi, ricordando Primo Levi, vive sicuro in tiepide case e torna a casa trovando cibo caldo e visi amici. Noi invece condividiamo la vita dei ragazzi al centro d’accoglienza vivendo con loro quell’empatia che ci fa ancora oggi nel Ventunesimo secolo chiedere: “Se questo è un uomo!”.

*Francesco Biagi, Africa Insieme/Progetto Rebeldìa
Link utili:

http://comune-info.net/2013/03/nascosti-sotto-la-torre/

(**)Vitamine di solidarietà ribelle

Dobbiamo creare un modo diverso di vivere, oggi non domani, ripetono quelli del Municipio dei beni comuni di Pisa. Il loro fare sociale, a cominciare dall’ex Colorificio da poco sgomberato, è piuttosto noto ovunque. Per questo Sos Rosarno ha inviato a Pisa una tonnellata di arance, un modo diverso di sostenerli. E’ nata così una strana alchimia tra il Gruppo di acquisto solidale, il Distretto di economia solidale Altro Tirreno,  l’associazione Africa insieme, i profughi provenienti da Libia, Ciad e Mali, che insieme hanno promosso una straordinaria distribuzione delle arance di Rosarno. La città ha risposto prontamente, prenotando tutto il carico di vitamine in arrivo, una riconoscenza grande nei confronti dei contadini africani di Rosarno ma anche l’espressione di una volontà chiara: riapriamo l’ex Colorificio. Ancora una volta, l’amministrazione locale ha girato lo sguardo altrove. Ciò ha impedito a questa bella storia di germogliare? Naturalmente no
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di Fausto Pascali e Danilo Soscia
Le storie, a volte, sono fatte per intrecciarsi. E così i luoghi, i teatri delle storie, orizzonti sui quali si muovono mondi, amicizie, distanze, singole persone comuni. Un po’ come la storia delle arance che da Rosarno arrivano a Pisa, passando – idealmente – per la Libia, il Ciad, il Mali: la storia che vorremmo raccontare.
C’è la vicenda dell’ex Colorificio Toscano, fabbrica abbandonata e recuperata dal Municipio dei Beni Comuni di Pisa, che ne ha fatto un centro di aggregazione sociale, ma anche il vivace laboratorio di una nuova economia, rispettosa dell’ambiente, dei diritti umani.
C’è la storia dei Gruppi di acquisto solidale, in particolare quello del Progetto Rebeldia, che all’interno della fabbrica ha trovato da subito un luogo per la raccolta e la distribuzione dei prodotti del territorio e l’organizzazione di mercati che rimettessero al centro i contadini biologici e l’artigianato locale.
C’è la storia di Africa Insieme, e del suo sportello legale per i migranti, una vera e propria istituzione della solidarietà cittadina. Un giorno tra i tanti che da sempre consultano i volontari di Africa Insieme, arrivano anche i profughi della Libia, del Ciad e del Mali, ospitati nel centro d’accoglienza di via Pietrasantina, a Pisa. Troppo spesso i nomi non corrispondono alle cose, e così di accoglienza i giovani profughi ne ricevono ben poca, in uno spazio inadatto, gelido d’inverno, rovente d’estate, quasi privo di servizi, dal profilo sinistramente disumano.
_MG_0038La Croce Rossa li identifica con i numeri, non a caso, forse. All’ex Colorificio liberato i giovani profughi si affacciano invece su un mondo diverso. Trovano un luogo dove sperimentare anche la loro cittadinanza, acerba eppure già matura, dove crescere con gli altri e creare relazioni, inserirsi nella comunità. Comunità, quella di tutto il Municipio, che li sostiene e dà loro la forza di resistere quando il 28 febbraio l’emergenza Nord Africa finisce e viene negato loro anche l’unico spazio in cui poter sopravvivere. Un primo brano di storia si chiude, ma è un lieto fine. I giovani decidono di comune accordo di creare il loro di spazio, occupato e legittimo, riprendendosi quello che era stato loro sottratto. Un centro di accoglienza richiedenti asilo e rifugiati autogestito, seppur senza luce e senza acqua, le cui forniture il Comune, sapientemente, decide di interrompere.
Intanto il Municipio dei Beni comuni cresce, organizza nuovi momenti di riflessione e allarga i suoi orizzonti fino a comprendere il tema – antico e contemporaneo – della terra. Accade che il 20 settembre, giorno della sentenza che porterà al sequestro dell’ex Colorificio Toscano, durante un incontro nazionale lungo tre giorni – Common Properties – si organizzi un dibattito su Terra Bene Comune, aperto da una lectio magistralis di Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale, dedicata alle origini storiche della proprietà. A questa interviene Nino Quaranta di Sos Rosarno, un progetto che mette insieme la difesa dei migranti, quella di un lavoro equo e tutelato con il rispetto dell’ambiente e della terra, per un’agricoltura etica e prodotti sani. Un progetto che opera dove quotidianamente si muore di sfruttamento, come di recente è accaduto a Dominic Man Addiah, sfuggito alla guerra in Liberia per morire di freddo in Italia.
Anche il Distretto di economia solidale Altro Tirreno ragiona su come poter supportare l’esperienza dell’ex Colorificio. Perché non provare con il microcredito, lanciando un’esperienza di risparmio sociale autogestito, una “Mag Tirreno”, con cui poter finanziare attività lavorative che recuperino a pieno la vocazione produttiva dell’ex fabbrica?
Accade poi che si arrivi allo sgombero dell’ex Colorificio di nuovo vuoto, abbandonato. Eppure non si svuotano, né si abbandonano i luoghi – anche quelli figurati – e le relazioni che fino a questo punto della storia si sono intrecciati. Accade che Sos Rosarno invii una tonnellata di arance a sostegno del Municipio dei Beni Comuni. Accade che il centro autogestito ospiti il Gruppo di acquisto solidale. Accade che lo stesso centro si candidi a punto di distribuzione di quelle arance che provengono da Rosarno. Accade che la città di Pisa risponda prontamente, prenotando tutto il carico di vitamine in arrivo, una riconoscenza grande nei confronti del gesto dei nostri compagni agricoltori e l’espressione di una volontà chiara, distinta: riapriamo l’ex Colorificio.
Accade che ancora una volta l’amministrazione locale volti lo sguardo altrove, a chissà quali interessi privati, volti le spalle a un Colorificio chiuso, volti le spalle a un centro accoglienza senza luce e senza riscaldamento.
Qual è il prosieguo di questa storia? Le storie, a volte, sono fatte per intrecciarsi. E immaginare non costa niente, se non la creazione di una lotta di popolo il cui fine sia quello di riportare a nuova vita l’ex Colorificio Liberato, vedere i fondi raccolti con le arance di Rosarno diventare il primo tassello di una produzione alternativa e sostenibile all’interno della fabbrica – un’opportunità di lavoro equo -, assistere a un cambio di rotta dell’amministrazione locale che promuova finalmente un simile processo.
Questa è una storia che non finisce. Un cerchio perpetuo di solidarietà e di vita insieme, di luoghi e di persone né vuote, né abbandonate.
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http://comune-info.net/2013/12/vitamine-di-solidarieta-ribelle/

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