Spero che il titolo non tragga in
inganno, non voglio citare Mao, né evocarlo. È solo il titolo di alcune idee
alla rinfusa in un momento di estrema emergenza come questo. Una vera
rivoluzione contro-culturale negli ultimi trent’anni ha gettato il Paese
nell’ignoranza, favorendo la crisi attuale. L’interesse privato da sempre si
scontra con quei valori di onestà, modestia, equità, che non permettono di
arricchirsi senza limiti e regole. L’interesse privato è la negazione della
cultura, che è invece apertura e conoscenza, come avvertiva il Poeta: fatti non foste a viver come bruti. Ergo,
è stato necessario relativizzare, mettere in minoranza quei valori, rendere il
popolo inetto alla riflessione, ignorante fin nel senso etimologico semplice di
“non sapere”. Come? Fornendo a ripetizione contro-modelli all’apparenza facili,
poco impegnativi e fonte, invece, di frustrazione. In glottodidattica si
chiamano “pattern drills”, frasi registrate e ripetute in continuazione finché
non vengono apprese, imparate a memoria, servono a risolvere problemi immediati
di comunicazione, ma non mettono certo in grado di conoscere e sviluppare le
proprie competenze linguistiche e culturali. Ora non siamo quasi più in grado
di leggere e parlare la nostra lingua, di apprezzare la bellezza del nostro
Paese, non sappiamo più considerare il Bene pubblico come qualcosa che ci
appartiene a pieno titolo. Il crollo delle ideologie e dei sistemi politici
locali tra il 1989 e il 1993 ha favorito la disillusione e il disinganno,
giustificando a torto il ripiegamento sul successo privato privo di ogni remora
e regola. Lentamente (ma neanche tanto, nell’arco di una sola generazione),
tutto ciò che poteva essere considerato “cultura” è stato tacciato di snobismo
e ipocrisia, mentre il nuovo brillante modello portava a confondere l’ignoranza
con la sincerità e la schiettezza, persino l’educazione è diventata sinonimo di
affettazione. Come quando affrontiamo e superiamo una dura prova, il mondo ha
avuto una sorta di scarico collettivo della tensione accumulata durante la
guerra fredda e una perdita conseguente di motivazione per un’abnegazione non
più devota a principî e interessi superiori, non dico in termini di politica
internazionale, ma di etica civica e privata. Pensare costa fatica,
l’attenzione alla regole e al bello costa fatica.
Se la preoccupazione principale è
la fatica, ripartiamo da ciò che già abbiamo senza sforzarci troppo. Abbiamo il
nostro Paese, una penisola lanciata in mezzo al mare, tra l’Europa e l’Africa,
tra Est e Ovest. La vocazione politica nazionale dovrebbe essere in primis mediterranea e solo dopo
globale, un faro di riferimento politico e culturale. Migliaia di chilometri di
coste, montagne, laghi, città e paesi e tradizioni e piatti e vini e canti e
danze e mestieri e lingue. Sono cose che sopravvivono nonostante tutto. Ogni
singolo comune o ogni “libero consorzio” di comuni, potrebbe sfruttare uno dei
tanti beni immobili pubblici abbandonati (uffici provinciali, postali,
caserme…) o anche ex impianti industriali dismessi. Con un piccolo investimento
iniziale per restaurarli, potrebbero diventare centri di promozione culturale
locali, dove dedicare spazi al territorio, all’enogastronomia (che farebbe da
traino, diciamolo sinceramente), ai mestieri tradizionali non “musealizzati”, bensì
riproposti in veri e propri laboratori per i giovani, perché uno dei problemi è
che, purtroppo, molti giovani hanno preferito la carriera universitaria con
l’unico risultato di ingolfare le liste di collocamento. Cosa sono in fin dei
conti i settori dove l’Italia eccelle se non “artigianato” all’ennesima
potenza? Pensate al design in vari campi e all’eccellenza raggiunta in certi
prodotti di nicchia. In quegli spazi troverebbero posto le lingue locali e
l’italiano insieme, per fornire (anche agli stranieri), l’occasione di un
approccio globale, il più possibile completo alla nostra multiforme unicità. Bisognerebbe
istituire delle commissioni di qualità sull’offerta, per garantire standard di
qualità dell’accoglienza e della ricezione sempre affidabili. Pensate
semplicemente quanto lavoro creerebbe la semplice manutenzione dei beni
culturali locali, la presenza di un corpo di giovani guide locali e così via.
Si deve ripartire dalle madri e dai bambini, con asili interni alle aziende e
agli enti, con aumenti di stipendio alle madri, con orari più elastici e la
possibilità di lavorare a distanza, da casa. Fin dalle elementari bisognerebbe
impiegare il pomeriggio con più educazione fisica, educazione alimentare ed
educazione civica pratica, non teorica, con veri e propri “laboratori” sul
territorio. Anche i programmi scolastici “curricolari” dovrebbero prevedere un
maggiore equilibrio fra discipline “scientifiche” e “umanistiche” e non
dovrebbe essere possibile diplomarsi e tanto meno laurearsi in qualsiasi
disciplina senza dimostrare di sapersi esprimere in italiano e in almeno una
seconda lingua straniera, che andrebbe insegnata soprattutto nei primi anni,
tra i sei e gli undici anni, quando il cervello, come è noto, è assai più ricettivo
e i meccanismi di acquisizione e apprendimento più fluidi.
I “poli culturali” sarebbero
centri di aggregazione e crescita economica e i guadagni, ridistribuiti e
reinvestiti, tornerebbero sul territorio per intervenire sulle criticità, dal
dissesto idrogeologico all’adeguamento alle norme antisismiche e via
discorrendo. Ovviamente, questi centri dovranno essere autonomi
energeticamente, sfruttando le diverse energie rinnovabili adeguate al
territorio.
Il mare, il mare ragazzi, non
dobbiamo dimenticare che il mare ci circonda completamente, tutto il traffico
commerciale e turistico del Mediterraneo deve per forza passare da qui.
Dovremmo potenziare anche quest’opportunità, anche da un punto di vista
turistico, è mai possibile che la maggioranza del mercato turistico in barca a
vela (tanto per fare un esempio) sia nelle mani di operatori stranieri?
La ricerca scientifica, che a
pieno titolo rientra nell’azione culturale, dovrebbe ricevere l’attenzione che
merita stornando fondi da voci ipertrofiche (stipendi dei parlamentari e dei
manager pubblici e privati), mentre il denaro destinato all’acquisto di armi
moderne di dubbia efficacia andrebbe dedicato alla sicurezza interna, alla
polizia, agli inquirenti, anche per velocizzare indagini e migliorare il rapporto
con il territorio.
I vecchi impianti industriali,
insistendo su territori da essi quasi compromessi, potrebbero essere
riconvertiti in impianti di riciclaggio e riconversione dei rifiuti, per
produrre energia e prodotti riciclati. Nessuno si lamenterebbe di un impianto
che da sempre fa parte del panorama e che, abbandonato a se stesso,
rappresenterebbe soltanto un pericolo e un deterrente allo sviluppo. Si
potrebbe ripensare anche l’organizzazione del servizio sanitario su questa
base, con piccoli, ma numerosi poli collegati sia tra loro che alle istituzioni
di ricerca e, perché no, alle aziende che, sponsorizzando, avrebbero un ritorno
economico e d’immagine non da poco. Pensiamo alle borse di studio per i
ricercatori, anche qui, tanto per fare un esempio.
Ripeto, sto elencando alla
rinfusa idee sparse. Non sono un amministratore perciò non saprei dare
organicità a queste idee. In breve si tratta di riutilizzare, riciclare,
promuovere. Abbiamo un territorio così singolare, perché non viverlo e amarlo
traendone anche sostentamento in modo equilibrato e sostenibile? Si creerebbe
un senso di appartenenza vero, per cui i comportamenti abusivi e aberranti
verrebbero immediatamente denunciati e – non oso sperarlo – derisi. Ragazzi,
abbiamo le Alpi, abbiamo l’Etna, il mare e tante piccole isole meravigliose, i
laghi, i parchi nazionali, grotte meravigliose. Parlo delle bellezze naturali
perché nella mia esperienza lavorativa ho constatato che esse sono
immediatamente apprezzabili da tutti, a prescindere dalla cultura di partenza,
come se la bellezza naturale fosse l’unica vera bellezza “oggettiva”. Sì, non
parlo di monumenti storici, dovrei? C’è bisogno davvero di nominare le nostre
cento città d’arte, i siti archeologici, le cattedrali, le abbazie? Il nostro petrolio
è la cultura, intesa nel senso più ampio e vero.
Marco Martorana
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