LA CONFESSIONE A «SPORTS ILLUSTRATED»
Jason Collins, 34enne nero:«Vivevo in una grande bugia,
ma non volevo mettere in difficoltà i compagni»
ALESSANDRA FARKAS
NEW YORK – «Non puntavo a essere il primo atleta dichiaratamente gay in uno sport di punta. Ma visto che è così, sono felice di cominciare la conversazione». Il lungo articolo firmato sull’ultimo numero di Sports Illustrated dal 34enne veterano della National Basket Association Jason Collins è destinato a passare alla storia come il primo coming out ufficiale non solo nel mondo del basket Nba, ma anche in quello dello sport statunitense in generale. Ovvero l’ultimo bastione del machismo e dell’intolleranza anti-gay.
NEW YORK – «Non puntavo a essere il primo atleta dichiaratamente gay in uno sport di punta. Ma visto che è così, sono felice di cominciare la conversazione». Il lungo articolo firmato sull’ultimo numero di Sports Illustrated dal 34enne veterano della National Basket Association Jason Collins è destinato a passare alla storia come il primo coming out ufficiale non solo nel mondo del basket Nba, ma anche in quello dello sport statunitense in generale. Ovvero l’ultimo bastione del machismo e dell’intolleranza anti-gay.
Collins ( a des.) durante un match dei Boston Celtics (Reuters)
«SONO NERO, SONO GAY» -«Sono un centro Nba di 34 anni. Sono nero. E sono gay», esordisce l’atleta che, dopo aver giocato con i Boston Celtics e i Washington Wizards, si definisce adesso un «free agent», un battitore libero. «Il senso di lealtà nei confronti della mia squadra in passato mi ha impedito di dichiararmi», teorizza, «non volevo che la mia vita privata diventasse una distrazione. Il viaggio alla scoperta di me se stesso è cominciato a Los Angeles, dove sono nato», prosegue Collins che elenca i suoi innumerevoli titoli e trofei, forse per dimostrare come l’orientamento sessuale non abbia certamente interferito col suo straordinario talento.
IL PRIMO COMING OUT CON LA ZIA- Il campione racconta del suo primo coming out, avvenuto con la zia Teri, giudice della Corte superiore di San Francisco. «La sua reazione mi lasciò di stucco», racconta, «sapevo da anni che tu sei gay - mi rispose - e da quel momento mi sono sentito a mio agio dentro la mia pelle». Come moltissimi gay costretti a vivere nella menzogna, anche lui ha cercato per anni di negare un’identità che lo sport lo costringeva a tener nascosta. «Frequentavo le donne», scrive ancora, «e mi sono pure fidanzato perché pensavo di dover vivere in un certo modo ed ero convinto di dovermi sposare e far figli. Vivevo, insomma, una grande bugia». A dargli una mano a uscire allo scoperto è stato Joe Kennedy, nipote dell’ex ministro della Giustizia Robert Kennedy, suo compagno di stanza alla Stanford University e oggi congressman democratico del Massachusetts. «Quando nel 2012 mi disse di aver marciato alla Gay Pride Parade di Boston provai gelosia e invidia perché un amico eterosessuale poteva fare ciò che a me, gay, era precluso».
LA CASA BIANCA - Ad applaudire la sua coraggiosa decisione è stata anche la Casa Bianca. «È un altro esempio nell’evoluzione della sensibilità americana verso i diritti dei gay e dei matrimoni tra omosessuali», ha commentato il portavoce del presidente Obama, Jay Carney. Dello stesso avviso Bill Clinton, padre di un’altra sua compagna di corso a Standford, Chelsea, che in un comunicato ha definito il coming out «un momento importante nella storia dell’emancipazione dei gay e dello sport professionistico».
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