I risultati di due secoli di dispute su uno dei personaggi più affascinanti e misteriosi della Storia
Gesù Cristo è certamente una delle figure più affascinanti della Storia: è quella su cui si è scritto di più e, per una sorta di curioso contrappasso, quella su cui (storicamente parlando) si sa di meno. Negli ultimi due secoli, con lo sviluppo della critica storica, ci si è cominciato a chiedere se davvero sia vissuto nel I secolo della nostra era un uomo di nome Gesù, detto il Cristo, o se esso non sia piuttosto il frutto delle sofferenze, delle fantasie e delle speranze dell’uomo. Mentre nessuno ha mai messo in dubbio l’esistenza storica dei fondatori delle altre grandi religioni o filosofie (quali sono stati Abramo, Buddha, Aristotele, Maometto...), la figura di Gesù è stata sottoposta ad una vera e propria indagine volta, a seconda degli studiosi, a negare od affermare la veridicità della sua esistenza. Non sarà perciò inutile, ora che questo nodo – più intricato di quello di Gordio – è stato sciolto, valutarne i risultati.
In un contesto di aspra polemica con la Chiesa di Roma, si diffonde (già nel XVIII secolo) la cosiddetta «teoria mitica» dell’origine del Cristianesimo: in Giudea, terra oppressa dai Romani e in attesa di un Messia che la liberi dall’oppressione, nel I secolo cominciano a circolare delle sentenze, delle massime, delle parabole. Col passar del tempo, queste vengono attribuite ad un unico personaggio, inesistente ma dal nome comune, Gesù, di cui si inventano anche fatti della vita. Alcuni di questi racconti sono messi per iscritto e formano i quattro Vangeli (canonici), appunto raccolte di fatti e sentenze, in seguito ampiamente rimaneggiati; altro materiale, più fantasioso, confluisce nei Vangeli apocrifi, che ci sono pervenuti solo in parte. Secondo questa teoria, Gesù non sarebbe mai esistito: si tratterebbe di un mito (come quelli di Krishna, Osiride, Attis, Adone, Dioniso e Mitra) creato in una ristretta cerchia di persone e in seguito, in buona fede o a fin di bene, trasformato in avvenimenti reali. Si cerca allora di interpretare i passi evangelici come semplici simboli di verità etico-religiose: l’Incarnazione rappresenta la divinizzazione dell’uomo, l’acqua trasformata in vino alle nozze di Cana raffigura la nuova vita dopo il matrimonio, l’Ultima Cena rimanda a riti iniziatici orientali in cui ci si ciba magicamente delle carni di Dio, la Resurrezione è la rinascita dell’uomo alla verità.
Ma su quali fonti si basa la nostra conoscenza di Gesù?
Le principali fonti su Gesù sono tutte di matrice cristiana:
1) i quattro Vangeli: sono opere essenziali, brevi, per nulla paragonabili ai poderosi volumina che ci hanno tramandato gli storici dell’antichità, e i soli sopravvissuti fra i molti che hanno circolato tra i Cristiani nei primi due secoli. La parola «Vangelo» richiama la mancia che si dava a chi portava una buona notizia, e da qui è passato ad indicare la stessa buona notizia («lieta novella»); secondo alcuni studiosi non sono libri creati dagli autori di cui portano il nome, ma catechesi predicate per lungo tempo e affidate infine alla scrittura – si tratta, comunque, di testimonianze collettive dell’intero gruppo degli Apostoli. Il Vangelo di Matteo è stato scritto secondo alcuni studiosi in aramaico, gli altri direttamente in greco, vera lingua comune nella parte orientale dell’Impero Romano. Non sono certo modelli di correttezza grammaticale o di rifinitura letteraria, tuttavia l’immediatezza e l’efficacia del loro stile, la vivace potenza delle loro analogie e delle loro rappresentazioni, la profondità dei sentimenti e l’interesse acuto per la storia che narrano dà loro un fascino incomparabile. Ogni Vangelo ha proprie particolarità, presenta elementi differenti dagli altri, vi è discordanza nei particolari anche se, nel complesso, la vicenda e l’insegnamento sono gli stessi. Nonostante manchi una cronologia esplicita (solo in Luca vi è il riferimento al quindicesimo anno dell’Impero di Tiberio, corrispondente al 27 dopo Cristo), vi sono precisi riferimenti a personaggi storici ben noti;
2) gli Atti degli Apostoli: è la narrazione semplice e chiara, disposta in ordine cronologico, degli inizi della Chiesa. La narrazione, scritta da Luca, si interrompe prima della persecuzione di Nerone dell’anno 64, che non viene citata. Sebbene non si parli della vita di Gesù, la sua esistenza fisica è presupposta chiaramente;
3) le Epistole: sono lettere scritte da vari Apostoli, in maggioranza da San Paolo. Anche in esse si presuppone l’esistenza fisica di Gesù. Nessuno ha mai messo in dubbio l’esistenza di San Paolo né i suoi ripetuti incontri con Pietro, Giacomo e Giovanni: e San Paolo ammette non senza un po’ di invidia che quegli uomini hanno conosciuto il Cristo in persona;
4) i Vangeli apocrifi: sono narrazioni di Gesù stese non per tramandare delle verità di fede ma per rispondere a delle domande, a delle «curiosità» dei primi fedeli. Sono immediatamente distinguibili dai Vangeli canonici perché assai fantasiosi, ricchi di particolari e di riferimenti suggestivi. Non hanno nessun valore storico ed ancor meno valore teologico, anche se molti particolari sono entrati a far parte della tradizione cristiana: per esempio, tramandano i nomi dei genitori della Vergine Maria, Gioacchino ed Anna; parlano della presentazione di Maria al Tempio; citano il bue nella grotta di Betlemme; precisano che i Magi sono tre, che sono Re e che si chiamano – secondo la tradizione più diffusa – Gasparre, Melchiorre e Baldassarre; narrano l’episodio del velo della Veronica, e via dicendo.
Ci sono poi numerose fonti non cristiane:
1) le Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, storico ebreo filo-romano. Nella sua opera appare un passo che parla direttamente di Gesù (ma è chiaramente interpolato) ed altri due che gli fanno riferimento indiretto;
2) il Talmud, che ha dei riferimenti a Gesù, ma sono in genere troppo tardi nel tempo per essere qualche cosa di più di echi del pensiero cristiano;
3) citazioni degli storici romani: le più importanti sono quelle di Plinio, Svetonio e soprattutto Tacito.
Che cosa appare da tutti questi dati?
La «teoria mitica» presuppone che gli scritti cristiani si siano formati in modo analogo ai poemi omerici o alla Canzone di Orlando: ma per un processo del genere bisogna che trascorrano numerose generazioni, in modo che i fatti, tramandati oralmente, non siano più controllabili in modo diretto. Vi sono molti dati interni ai Vangeli che ci permettono di collocarne la prima redazione tra gli anni 52 e 62 per i sinottici (Matteo, Marco e Luca); Giovanni, che scrive probabilmente tra il 90 e il 100, non ignora la distruzione del Tempio di Gerusalemme nell’anno 70 dopo Cristo (per un Ebreo, è equivalente alla fine del mondo). La redazione degli Atti, come già ricordato, deve essere stata terminata intorno al 63 e in seguito rivista, mentre la datazione delle Epistole si pone tra il 50 e il 100. In pratica, tutte le fonti cristiane sono collocabili nella seconda metà del I secolo. Sebbene le date siano solo una congettura e possano essere spostate di qualche decennio (al massimo), manca comunque il tempo per la formazione di una leggenda come accade per la Canzone di Orlando (scritta oltre 300 anni dopo gli eventi narrati). Vi sono inoltre precisi riscontri archeologici che confermano questa datazione:
1) il frammento Rynalds, un papiro trovato in Egitto e databile con certezza al 125 dopo Cristo, che contiene un breve frammento del Vangelo secondo Giovanni;
2) i papiri di Qumran, appartenuti ad una comunità ebraica prima della distruzione di Gerusalemme (70 dopo Cristo). In un frammento in greco sono stati identificati alcuni versetti del Vangelo secondo Marco.
Un altro elemento a favore della storicità dei testi cristiani è la cornice storica e geografica: una caratteristica peculiare delle narrazioni mitiche è che tempi, luoghi e personaggi assumono aspetti irreali. Ma nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli vengono citati località, fatti, personaggi, usanze riconosciuti storicamente esatti dai più moderni studi archeologici. Per esempio, vengono ricordati i tempi indicando i nomi dei magistrati, com’era d’uso; il governatore romano, che in genere risiede a Cesarea, si trova con l’esercito a Gerusalemme per la Pasqua; quando Gesù prende una moneta su cui vi sia l’effige di Cesare non prende una moneta qualsiasi ma proprio un denario, l’unica moneta circolante in Palestina con immagini. Il viaggio per mare di San Paolo è descritto tanto bene negli Atti degli Apostoli, che sembra di trovarsi di fronte ad un trattato di navigazione degli antichi; si afferma che i magistrati che presiedono ai giochi ad Efeso sono denominati «asiarchi», che sotto il procuratore Felice il tribuno della coorte di Gerusalemme si chiama Claudio Lisa: solo negli ultimi anni l’archeologia ha confermato queste notizie. Da tutto ciò risulta evidente che chi scrive conosce perfettamente, e per esperienza diretta, il mondo che descrive.
La leggenda è sovrabbondante, ricca di particolari, i personaggi sono disegnati a tinte forti ed esaltati come modelli perfetti: nella Canzone di Orlando Carlo Magno è già un Imperatore bicentenario, i pochi montanari baschi diventano uno sterminato esercito saraceno, la modesta retroguardia franca rappresenta il fior fiore dell’esercito, i paladini sono cavalieri senza macchia e senza paura.
Nessuno di questi caratteri è presente nei Vangeli canonici e negli Atti degli Apostoli. Gli Evangelisti ricordano molti fatti che persone che inventano di sana pianta avrebbero taciuto: per esempio, la gara fra gli Apostoli per i primi posti nel Regno, la loro fuga dopo l’arresto di Gesù, il rinnegamento di Pietro, la mancanza di miracoli di Gesù in Galilea, gli accenni di alcuni testimoni alla possibilità che Egli fosse un folle, i Suoi momenti di amarezza, il Suo grido angosciato sulla croce; chiunque legga questi passi non può dubitare della concretezza della figura cui essi si riferiscono. Inoltre, il fatto che i Vangeli siano quattro e non uno solo (come l’Iliade o l’Odissea) esclude che siano un’unione di scritti vaganti: chi si incarica di mettere per iscritto e ordinare leggende tramandate oralmente, ne dà un’unica redazione. I Vangeli, poi, pur presentando gli stessi eventi, si contraddicono continuamente nei particolari: le genealogie non corrispondono, le circostanze degli avvenimenti sono sempre un po’ diverse; è quel che accadrebbe se si chiedesse a più persone di raccontare uno stesso fatto. Probabilmente le conversazioni e i discorsi riferiti nei Vangeli sono andati soggetti alle debolezze di memoria o agli errori di gente illetterata. Il fatto che siano stati accettati tutti e quattro mostra che erano davvero considerati – e lo sono tutt’ora dai Cristiani – ispirati da Dio: in effetti, le vere e proprie contraddizioni riguardano solamente i particolari, non la sostanza. OgniVangelo corrisponde poi ad una diversa personalità: Matteo, che si rivolge agli Ebrei, si affanna a trovare le profezie per ogni fatto accaduto; Marco è il più popolare e il suo Vangelo è basato sia su una raccolta («Logia») dei detti di Cristo, sia sulle testimonianze degli Apostoli o dei loro immediati discepoli; Luca è un uomo colto, si rivolge ai pagani e scrive secondo i canoni del tempo; Giovanni è quello che più degli altri mostra un interesse di inquadramento filosofico, il suo scopo è quello di presentarci il Cristo come il divino Logos o Parola, Creatore del mondo e Redentore dell’umanità. Quanto detto finora porta a ritenere che i Vangeli appartengano al genere delle «memorie», proprie o raccolte da altri: possono essere imperfette, possono aver interpretato gli eventi in modo dubbio, ma certo parlano di fatti concreti, reali.
È inoltre interessante gettare uno sguardo alle fonti non cristiane. Abbiamo già accennato al passo delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio; purgato dei rimaneggiamenti cristiani posteriori, dovrebbe suonare più o meno così: «Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, autore di opere nuove, maestro di uomini che accolgono con piacere le nuove dottrine, ed attirò a sé molti Giudei, ed anche molti Greci. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani» (Antichità giudaiche, XVIII, 63-64). Il testo di Giuseppe Flavio è ricordato, con qualche discordanza, anche dal Vescovo Agapito, di Ierapoli in Asia Minore, che scrive nel X secolo: «Similmente dice Giuseppe l’Ebreo, poiché egli racconta nei trattati che ha scritto sul governo dei Giudei: “Ci fu verso quel tempo un uomo saggio che era chiamato Gesù, che dimostrava una buona condotta di vita ed era considerato dotto, e aveva come allievi molta gente dei Giudei e degli altri popoli. Pilato lo condannò alla crocifissione e alla morte, ma coloro che erano stati suoi discepoli non rinunciarono alla sua dottrina e raccontarono che Egli era loro apparso tre giorni dopo la crocifissione ed era vivo, ed era probabilmente il Cristo del quale i profeti hanno detto meraviglie”». Giuseppe Flavio accenna anche a Giovanni il Battista: «Ad alcuni dei Giudei parve che l’esercito di Erode fosse stato annientato da Dio, il quale giustamente aveva vendicato l’uccisione di Giovanni soprannominato il Battista. Erode infatti mise a morte quel buon uomo che spingeva i Giudei che praticavano la virtù e osservavano la giustizia fra di loro e la pietà verso Dio a venire insieme al battesimo; così infatti sembrava a lui accettabile il battesimo, non già per il perdono di certi peccati commessi, ma per la purificazione del corpo, in quanto certamente l’anima è già purificata in anticipo per mezzo della giustizia. Ma quando si aggiunsero altre persone – infatti provarono il massimo piacere nell’ascoltare i suoi sermoni – temendo Erode la sua grandissima capacità di persuadere la gente, che non portasse a qualche sedizione – parevano infatti pronti a fare qualsiasi cosa dietro sua esortazione – ritenne molto meglio, prima che ne sorgesse qualche novità, sbarazzarsene prendendo l’iniziativa per primo, piuttosto che pentirsi dopo, messo alle strette in seguito ad un subbuglio. Ed egli per questo sospetto di Erode fu mandato in catene alla già citata fortezza di Macheronte, e colà fu ucciso» (Antichità giudaiche, XVIII, 116-119). Altri personaggi citati dagli scritti cristiani vengono ricordati da Giuseppe Flavio, di cui il più importante è forse Giacomo detto «il Minore» di cui si parla negli Atti degli Apostoli: «Anano… convocò il Sinedrio a giudizio e vi condusse il fratello [in realtà: il primo cugino; la parola «fratello» nei Vangeliva sempre tradotta come «parente stretto»] di Gesù, detto il Cristo, di nome Giacomo, e alcuni altri, accusandoli di trasgressione della legge e condannandoli alla lapidazione» (Antichità giudaiche, XX, 200).
Nel Talmud babilonese si trova un passo che potrebbe essere un residuo di tradizione arcaica parallela a quella evangelica sulle accuse, il processo e l’esecuzione di Gesù: «Alla vigilia (del sabbat) del Passah, hanno impiccato Jeshû (ha-nôzrî); un araldo per quaranta giorni andò gridando davanti a lui: “Egli (Jeshû ha-nôzrî) viene condotto per essere lapidato perché ha praticato la magia e ha indotto (all’idolatria) e fatto deviare Israele. Chiunque conosca qualche cosa a sua discolpa venga e dia testimonianza per lui”. Ma non si trovò per lui nessuna testimonianza a favore e lo si appese alla vigilia (del sabbat) del Passah». E poi: «E disse Ulla: “Credi tu che quello (Jeshû ha-nôzrî) fosse stato uno per il quale si poteva aspettare una testimonianza a favore? Egli era in ogni caso un istigatore all’idolatria e il misericordioso ha detto: ‘Tu non devi avere nessuna misericordia e non devi ricoprire la sua colpa’” (Deuteronomio, 13,9). La faccenda di Jeshû era diversa perché egli era vicino al regno». Sebbene alcuni ritengano che il passo non si riferisca al Cristo ma ad un altro Gesù, vissuto verso il 100 avanti Cristo, sono comunque interessanti le coincidenze con il Vangelo secondo Giovanni (circostanza della morte: alla vigilia del sabbat di Pasqua) e con i sinottici (accusa di praticare la magia).
Altre fonti non cristiane risalgono al principio del II secolo e sono opera di scrittori romani. Sono probabilmente una piccola parte di un gruppo più vasto di cui facevano forse parte anche gli atti del processo di Pilato contro Gesù. Esaminiamo brevemente le principali.
Svetonio scrive: «[l’Imperatore Claudio] scacciò da Roma i Giudei che, istigati da Cristo, erano continuamente in lotta...» (Claudius, XXV, 4); si precisa che i Cristiani prendono il nome da Cristo, che sono già numerosi e mal visti ai tempi di Claudio e che vengono considerati Giudei. Il passo concorda con gli Atti degli Apostoli che menzionano un decreto di Claudio per cui «gli Ebrei dovettero lasciare Roma» (Atti degli Apostoli, 18, 2).
Plinio racconta che i Cristiani «erano soliti riunirsi alle prime luci dell’alba, ed innalzare un canto a Cristo, come se fosse un dio...» (Epistolae, 96). Anche in questo caso i Cristiani vengono fatti risalire a Cristo, adorato come un Dio.
La testimonianza più importante è però quella di Tacito: «Per tagliar corto alle pubbliche voci, Nerone accusò di essere colpevoli [dell’incendio di Roma], e sottopose a raffinatissime pene, coloro che il popolo chiamava Cristiani e che erano odiati per i loro crimini. Quel nome veniva da Cristo, che sotto il regno di Tiberio era stato condannato al supplizio per ordine del procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente sopita, questa malefica superstizione proruppe di nuovo non solo in Giudea, luogo d’origine di quel flagello, ma anche in Roma dove tutto ciò che è vergognoso e abominevole viene a confluire e attecchisce. Per primi furono arrestati coloro che facevano aperta confessione di tale credenza. Poi, su denuncia di questi, ne fu arrestata una gran moltitudine non tanto perché accusati di aver provocato l’incendio, ma perché erano pieni d’odio contro il genere umano...» (Annales, XV, 44). Il passo è così tacitiano per lo stile, l’efficacia e i pregiudizi che nessuno può pensare di metterne in dubbio l’autenticità. Si documenta la prima persecuzione ad opera di Nerone, si fanno risalire i Cristiani a Cristo e si cita la condanna a morte per ordine di Ponzio Pilato.
In tutti e tre i casi il riferimento a Cristo è chiaro e inequivocabile: ognuno degli autori è assolutamente contrario ai Cristiani, accusati di odiare l’intero genere umano, eppure non mostra il minimo dubbio nel credere all’esistenza di Gesù. Se Cristo non fosse mai esistito, non sarebbe stato difficile dimostrarlo – gli storici antichi non erano degli sciocchi –; il silenzio su questo punto è la più importante conferma dell’esistenza storica di Gesù Cristo.
Verso la metà del I secolo, un pagano di nome Thallos (in un frammento conservatoci da Giulio Africano) spiega che le tenebre che hanno accompagnato la morte di Cristo sono solo un fenomeno naturale e accidentale («queste tenebre Thallos, nel suo terzo libro delle storie, le chiama eclisse di sole, ma a mio parere senza ragione»); anche in questo caso si dà per certa l’esistenza di Gesù. La negazione di quest’esistenza non è mai stata formulata neppure dai più aspri oppositori, Giudei o gentili, del Cristianesimo nascente.
Quanto detto finora mostra come l’«ipotesi mitica» secondo la quale Gesù non sarebbe mai esistito non può considerarsi storicamente fondata: che pochi uomini semplici possano aver inventato – e diffuso – in una sola generazione una personalità così possente e affascinante, un’etica così nobile e così ispirata ad umana fratellanza, sarebbe un miracolo ancor più clamoroso di quelli ricordati nei Vangeli. La storiografia si è ora orientata verso altre due ipotesi:
1) «ipotesi religiosa»: veramente Gesù fu il Cristo, o comunque il Gesù della Fede;
2) «ipotesi critica»: Gesù fu solo un uomo che venne creduto il Cristo o per dolo o in buona fede o per l’uno e l’altra insieme. L’«ipotesi critica» parte dalla premessa che il Soprannaturale non esiste e quindi tutto ciò che è segno del divino (i miracoli, la Resurrezione...) viene considerato impossibile e pertanto puramente simbolico. Alcune «ipotesi critiche» su Gesù appaiono suggestive (abbiamo un Gesù rivoluzionario, Esseno, ellenizzante), altre sono del tutto inconsistenti (un Gesù figlio di un soldato romano «ariano» di passaggio, tale Panthera), altre ancora risultano totalmente fantasiose (un Gesù alieno o giunto da un lontano futuro: i miracoli sarebbero effetti di una scienza progredita, il suo insegnamento come espressione di una civiltà superiore).
A questo punto, però, il campo dello storico è chiuso: credere o non credere che Cristo sia il Figlio di Dio non è più una questione storica – è, come si dice, una questione di Fede!
In un contesto di aspra polemica con la Chiesa di Roma, si diffonde (già nel XVIII secolo) la cosiddetta «teoria mitica» dell’origine del Cristianesimo: in Giudea, terra oppressa dai Romani e in attesa di un Messia che la liberi dall’oppressione, nel I secolo cominciano a circolare delle sentenze, delle massime, delle parabole. Col passar del tempo, queste vengono attribuite ad un unico personaggio, inesistente ma dal nome comune, Gesù, di cui si inventano anche fatti della vita. Alcuni di questi racconti sono messi per iscritto e formano i quattro Vangeli (canonici), appunto raccolte di fatti e sentenze, in seguito ampiamente rimaneggiati; altro materiale, più fantasioso, confluisce nei Vangeli apocrifi, che ci sono pervenuti solo in parte. Secondo questa teoria, Gesù non sarebbe mai esistito: si tratterebbe di un mito (come quelli di Krishna, Osiride, Attis, Adone, Dioniso e Mitra) creato in una ristretta cerchia di persone e in seguito, in buona fede o a fin di bene, trasformato in avvenimenti reali. Si cerca allora di interpretare i passi evangelici come semplici simboli di verità etico-religiose: l’Incarnazione rappresenta la divinizzazione dell’uomo, l’acqua trasformata in vino alle nozze di Cana raffigura la nuova vita dopo il matrimonio, l’Ultima Cena rimanda a riti iniziatici orientali in cui ci si ciba magicamente delle carni di Dio, la Resurrezione è la rinascita dell’uomo alla verità.
Ma su quali fonti si basa la nostra conoscenza di Gesù?
Le principali fonti su Gesù sono tutte di matrice cristiana:
1) i quattro Vangeli: sono opere essenziali, brevi, per nulla paragonabili ai poderosi volumina che ci hanno tramandato gli storici dell’antichità, e i soli sopravvissuti fra i molti che hanno circolato tra i Cristiani nei primi due secoli. La parola «Vangelo» richiama la mancia che si dava a chi portava una buona notizia, e da qui è passato ad indicare la stessa buona notizia («lieta novella»); secondo alcuni studiosi non sono libri creati dagli autori di cui portano il nome, ma catechesi predicate per lungo tempo e affidate infine alla scrittura – si tratta, comunque, di testimonianze collettive dell’intero gruppo degli Apostoli. Il Vangelo di Matteo è stato scritto secondo alcuni studiosi in aramaico, gli altri direttamente in greco, vera lingua comune nella parte orientale dell’Impero Romano. Non sono certo modelli di correttezza grammaticale o di rifinitura letteraria, tuttavia l’immediatezza e l’efficacia del loro stile, la vivace potenza delle loro analogie e delle loro rappresentazioni, la profondità dei sentimenti e l’interesse acuto per la storia che narrano dà loro un fascino incomparabile. Ogni Vangelo ha proprie particolarità, presenta elementi differenti dagli altri, vi è discordanza nei particolari anche se, nel complesso, la vicenda e l’insegnamento sono gli stessi. Nonostante manchi una cronologia esplicita (solo in Luca vi è il riferimento al quindicesimo anno dell’Impero di Tiberio, corrispondente al 27 dopo Cristo), vi sono precisi riferimenti a personaggi storici ben noti;
2) gli Atti degli Apostoli: è la narrazione semplice e chiara, disposta in ordine cronologico, degli inizi della Chiesa. La narrazione, scritta da Luca, si interrompe prima della persecuzione di Nerone dell’anno 64, che non viene citata. Sebbene non si parli della vita di Gesù, la sua esistenza fisica è presupposta chiaramente;
3) le Epistole: sono lettere scritte da vari Apostoli, in maggioranza da San Paolo. Anche in esse si presuppone l’esistenza fisica di Gesù. Nessuno ha mai messo in dubbio l’esistenza di San Paolo né i suoi ripetuti incontri con Pietro, Giacomo e Giovanni: e San Paolo ammette non senza un po’ di invidia che quegli uomini hanno conosciuto il Cristo in persona;
4) i Vangeli apocrifi: sono narrazioni di Gesù stese non per tramandare delle verità di fede ma per rispondere a delle domande, a delle «curiosità» dei primi fedeli. Sono immediatamente distinguibili dai Vangeli canonici perché assai fantasiosi, ricchi di particolari e di riferimenti suggestivi. Non hanno nessun valore storico ed ancor meno valore teologico, anche se molti particolari sono entrati a far parte della tradizione cristiana: per esempio, tramandano i nomi dei genitori della Vergine Maria, Gioacchino ed Anna; parlano della presentazione di Maria al Tempio; citano il bue nella grotta di Betlemme; precisano che i Magi sono tre, che sono Re e che si chiamano – secondo la tradizione più diffusa – Gasparre, Melchiorre e Baldassarre; narrano l’episodio del velo della Veronica, e via dicendo.
Ci sono poi numerose fonti non cristiane:
1) le Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, storico ebreo filo-romano. Nella sua opera appare un passo che parla direttamente di Gesù (ma è chiaramente interpolato) ed altri due che gli fanno riferimento indiretto;
2) il Talmud, che ha dei riferimenti a Gesù, ma sono in genere troppo tardi nel tempo per essere qualche cosa di più di echi del pensiero cristiano;
3) citazioni degli storici romani: le più importanti sono quelle di Plinio, Svetonio e soprattutto Tacito.
Che cosa appare da tutti questi dati?
La «teoria mitica» presuppone che gli scritti cristiani si siano formati in modo analogo ai poemi omerici o alla Canzone di Orlando: ma per un processo del genere bisogna che trascorrano numerose generazioni, in modo che i fatti, tramandati oralmente, non siano più controllabili in modo diretto. Vi sono molti dati interni ai Vangeli che ci permettono di collocarne la prima redazione tra gli anni 52 e 62 per i sinottici (Matteo, Marco e Luca); Giovanni, che scrive probabilmente tra il 90 e il 100, non ignora la distruzione del Tempio di Gerusalemme nell’anno 70 dopo Cristo (per un Ebreo, è equivalente alla fine del mondo). La redazione degli Atti, come già ricordato, deve essere stata terminata intorno al 63 e in seguito rivista, mentre la datazione delle Epistole si pone tra il 50 e il 100. In pratica, tutte le fonti cristiane sono collocabili nella seconda metà del I secolo. Sebbene le date siano solo una congettura e possano essere spostate di qualche decennio (al massimo), manca comunque il tempo per la formazione di una leggenda come accade per la Canzone di Orlando (scritta oltre 300 anni dopo gli eventi narrati). Vi sono inoltre precisi riscontri archeologici che confermano questa datazione:
1) il frammento Rynalds, un papiro trovato in Egitto e databile con certezza al 125 dopo Cristo, che contiene un breve frammento del Vangelo secondo Giovanni;
2) i papiri di Qumran, appartenuti ad una comunità ebraica prima della distruzione di Gerusalemme (70 dopo Cristo). In un frammento in greco sono stati identificati alcuni versetti del Vangelo secondo Marco.
Un altro elemento a favore della storicità dei testi cristiani è la cornice storica e geografica: una caratteristica peculiare delle narrazioni mitiche è che tempi, luoghi e personaggi assumono aspetti irreali. Ma nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli vengono citati località, fatti, personaggi, usanze riconosciuti storicamente esatti dai più moderni studi archeologici. Per esempio, vengono ricordati i tempi indicando i nomi dei magistrati, com’era d’uso; il governatore romano, che in genere risiede a Cesarea, si trova con l’esercito a Gerusalemme per la Pasqua; quando Gesù prende una moneta su cui vi sia l’effige di Cesare non prende una moneta qualsiasi ma proprio un denario, l’unica moneta circolante in Palestina con immagini. Il viaggio per mare di San Paolo è descritto tanto bene negli Atti degli Apostoli, che sembra di trovarsi di fronte ad un trattato di navigazione degli antichi; si afferma che i magistrati che presiedono ai giochi ad Efeso sono denominati «asiarchi», che sotto il procuratore Felice il tribuno della coorte di Gerusalemme si chiama Claudio Lisa: solo negli ultimi anni l’archeologia ha confermato queste notizie. Da tutto ciò risulta evidente che chi scrive conosce perfettamente, e per esperienza diretta, il mondo che descrive.
La leggenda è sovrabbondante, ricca di particolari, i personaggi sono disegnati a tinte forti ed esaltati come modelli perfetti: nella Canzone di Orlando Carlo Magno è già un Imperatore bicentenario, i pochi montanari baschi diventano uno sterminato esercito saraceno, la modesta retroguardia franca rappresenta il fior fiore dell’esercito, i paladini sono cavalieri senza macchia e senza paura.
Nessuno di questi caratteri è presente nei Vangeli canonici e negli Atti degli Apostoli. Gli Evangelisti ricordano molti fatti che persone che inventano di sana pianta avrebbero taciuto: per esempio, la gara fra gli Apostoli per i primi posti nel Regno, la loro fuga dopo l’arresto di Gesù, il rinnegamento di Pietro, la mancanza di miracoli di Gesù in Galilea, gli accenni di alcuni testimoni alla possibilità che Egli fosse un folle, i Suoi momenti di amarezza, il Suo grido angosciato sulla croce; chiunque legga questi passi non può dubitare della concretezza della figura cui essi si riferiscono. Inoltre, il fatto che i Vangeli siano quattro e non uno solo (come l’Iliade o l’Odissea) esclude che siano un’unione di scritti vaganti: chi si incarica di mettere per iscritto e ordinare leggende tramandate oralmente, ne dà un’unica redazione. I Vangeli, poi, pur presentando gli stessi eventi, si contraddicono continuamente nei particolari: le genealogie non corrispondono, le circostanze degli avvenimenti sono sempre un po’ diverse; è quel che accadrebbe se si chiedesse a più persone di raccontare uno stesso fatto. Probabilmente le conversazioni e i discorsi riferiti nei Vangeli sono andati soggetti alle debolezze di memoria o agli errori di gente illetterata. Il fatto che siano stati accettati tutti e quattro mostra che erano davvero considerati – e lo sono tutt’ora dai Cristiani – ispirati da Dio: in effetti, le vere e proprie contraddizioni riguardano solamente i particolari, non la sostanza. OgniVangelo corrisponde poi ad una diversa personalità: Matteo, che si rivolge agli Ebrei, si affanna a trovare le profezie per ogni fatto accaduto; Marco è il più popolare e il suo Vangelo è basato sia su una raccolta («Logia») dei detti di Cristo, sia sulle testimonianze degli Apostoli o dei loro immediati discepoli; Luca è un uomo colto, si rivolge ai pagani e scrive secondo i canoni del tempo; Giovanni è quello che più degli altri mostra un interesse di inquadramento filosofico, il suo scopo è quello di presentarci il Cristo come il divino Logos o Parola, Creatore del mondo e Redentore dell’umanità. Quanto detto finora porta a ritenere che i Vangeli appartengano al genere delle «memorie», proprie o raccolte da altri: possono essere imperfette, possono aver interpretato gli eventi in modo dubbio, ma certo parlano di fatti concreti, reali.
È inoltre interessante gettare uno sguardo alle fonti non cristiane. Abbiamo già accennato al passo delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio; purgato dei rimaneggiamenti cristiani posteriori, dovrebbe suonare più o meno così: «Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, autore di opere nuove, maestro di uomini che accolgono con piacere le nuove dottrine, ed attirò a sé molti Giudei, ed anche molti Greci. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani» (Antichità giudaiche, XVIII, 63-64). Il testo di Giuseppe Flavio è ricordato, con qualche discordanza, anche dal Vescovo Agapito, di Ierapoli in Asia Minore, che scrive nel X secolo: «Similmente dice Giuseppe l’Ebreo, poiché egli racconta nei trattati che ha scritto sul governo dei Giudei: “Ci fu verso quel tempo un uomo saggio che era chiamato Gesù, che dimostrava una buona condotta di vita ed era considerato dotto, e aveva come allievi molta gente dei Giudei e degli altri popoli. Pilato lo condannò alla crocifissione e alla morte, ma coloro che erano stati suoi discepoli non rinunciarono alla sua dottrina e raccontarono che Egli era loro apparso tre giorni dopo la crocifissione ed era vivo, ed era probabilmente il Cristo del quale i profeti hanno detto meraviglie”». Giuseppe Flavio accenna anche a Giovanni il Battista: «Ad alcuni dei Giudei parve che l’esercito di Erode fosse stato annientato da Dio, il quale giustamente aveva vendicato l’uccisione di Giovanni soprannominato il Battista. Erode infatti mise a morte quel buon uomo che spingeva i Giudei che praticavano la virtù e osservavano la giustizia fra di loro e la pietà verso Dio a venire insieme al battesimo; così infatti sembrava a lui accettabile il battesimo, non già per il perdono di certi peccati commessi, ma per la purificazione del corpo, in quanto certamente l’anima è già purificata in anticipo per mezzo della giustizia. Ma quando si aggiunsero altre persone – infatti provarono il massimo piacere nell’ascoltare i suoi sermoni – temendo Erode la sua grandissima capacità di persuadere la gente, che non portasse a qualche sedizione – parevano infatti pronti a fare qualsiasi cosa dietro sua esortazione – ritenne molto meglio, prima che ne sorgesse qualche novità, sbarazzarsene prendendo l’iniziativa per primo, piuttosto che pentirsi dopo, messo alle strette in seguito ad un subbuglio. Ed egli per questo sospetto di Erode fu mandato in catene alla già citata fortezza di Macheronte, e colà fu ucciso» (Antichità giudaiche, XVIII, 116-119). Altri personaggi citati dagli scritti cristiani vengono ricordati da Giuseppe Flavio, di cui il più importante è forse Giacomo detto «il Minore» di cui si parla negli Atti degli Apostoli: «Anano… convocò il Sinedrio a giudizio e vi condusse il fratello [in realtà: il primo cugino; la parola «fratello» nei Vangeliva sempre tradotta come «parente stretto»] di Gesù, detto il Cristo, di nome Giacomo, e alcuni altri, accusandoli di trasgressione della legge e condannandoli alla lapidazione» (Antichità giudaiche, XX, 200).
Nel Talmud babilonese si trova un passo che potrebbe essere un residuo di tradizione arcaica parallela a quella evangelica sulle accuse, il processo e l’esecuzione di Gesù: «Alla vigilia (del sabbat) del Passah, hanno impiccato Jeshû (ha-nôzrî); un araldo per quaranta giorni andò gridando davanti a lui: “Egli (Jeshû ha-nôzrî) viene condotto per essere lapidato perché ha praticato la magia e ha indotto (all’idolatria) e fatto deviare Israele. Chiunque conosca qualche cosa a sua discolpa venga e dia testimonianza per lui”. Ma non si trovò per lui nessuna testimonianza a favore e lo si appese alla vigilia (del sabbat) del Passah». E poi: «E disse Ulla: “Credi tu che quello (Jeshû ha-nôzrî) fosse stato uno per il quale si poteva aspettare una testimonianza a favore? Egli era in ogni caso un istigatore all’idolatria e il misericordioso ha detto: ‘Tu non devi avere nessuna misericordia e non devi ricoprire la sua colpa’” (Deuteronomio, 13,9). La faccenda di Jeshû era diversa perché egli era vicino al regno». Sebbene alcuni ritengano che il passo non si riferisca al Cristo ma ad un altro Gesù, vissuto verso il 100 avanti Cristo, sono comunque interessanti le coincidenze con il Vangelo secondo Giovanni (circostanza della morte: alla vigilia del sabbat di Pasqua) e con i sinottici (accusa di praticare la magia).
Altre fonti non cristiane risalgono al principio del II secolo e sono opera di scrittori romani. Sono probabilmente una piccola parte di un gruppo più vasto di cui facevano forse parte anche gli atti del processo di Pilato contro Gesù. Esaminiamo brevemente le principali.
Svetonio scrive: «[l’Imperatore Claudio] scacciò da Roma i Giudei che, istigati da Cristo, erano continuamente in lotta...» (Claudius, XXV, 4); si precisa che i Cristiani prendono il nome da Cristo, che sono già numerosi e mal visti ai tempi di Claudio e che vengono considerati Giudei. Il passo concorda con gli Atti degli Apostoli che menzionano un decreto di Claudio per cui «gli Ebrei dovettero lasciare Roma» (Atti degli Apostoli, 18, 2).
Plinio racconta che i Cristiani «erano soliti riunirsi alle prime luci dell’alba, ed innalzare un canto a Cristo, come se fosse un dio...» (Epistolae, 96). Anche in questo caso i Cristiani vengono fatti risalire a Cristo, adorato come un Dio.
La testimonianza più importante è però quella di Tacito: «Per tagliar corto alle pubbliche voci, Nerone accusò di essere colpevoli [dell’incendio di Roma], e sottopose a raffinatissime pene, coloro che il popolo chiamava Cristiani e che erano odiati per i loro crimini. Quel nome veniva da Cristo, che sotto il regno di Tiberio era stato condannato al supplizio per ordine del procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente sopita, questa malefica superstizione proruppe di nuovo non solo in Giudea, luogo d’origine di quel flagello, ma anche in Roma dove tutto ciò che è vergognoso e abominevole viene a confluire e attecchisce. Per primi furono arrestati coloro che facevano aperta confessione di tale credenza. Poi, su denuncia di questi, ne fu arrestata una gran moltitudine non tanto perché accusati di aver provocato l’incendio, ma perché erano pieni d’odio contro il genere umano...» (Annales, XV, 44). Il passo è così tacitiano per lo stile, l’efficacia e i pregiudizi che nessuno può pensare di metterne in dubbio l’autenticità. Si documenta la prima persecuzione ad opera di Nerone, si fanno risalire i Cristiani a Cristo e si cita la condanna a morte per ordine di Ponzio Pilato.
In tutti e tre i casi il riferimento a Cristo è chiaro e inequivocabile: ognuno degli autori è assolutamente contrario ai Cristiani, accusati di odiare l’intero genere umano, eppure non mostra il minimo dubbio nel credere all’esistenza di Gesù. Se Cristo non fosse mai esistito, non sarebbe stato difficile dimostrarlo – gli storici antichi non erano degli sciocchi –; il silenzio su questo punto è la più importante conferma dell’esistenza storica di Gesù Cristo.
Verso la metà del I secolo, un pagano di nome Thallos (in un frammento conservatoci da Giulio Africano) spiega che le tenebre che hanno accompagnato la morte di Cristo sono solo un fenomeno naturale e accidentale («queste tenebre Thallos, nel suo terzo libro delle storie, le chiama eclisse di sole, ma a mio parere senza ragione»); anche in questo caso si dà per certa l’esistenza di Gesù. La negazione di quest’esistenza non è mai stata formulata neppure dai più aspri oppositori, Giudei o gentili, del Cristianesimo nascente.
Quanto detto finora mostra come l’«ipotesi mitica» secondo la quale Gesù non sarebbe mai esistito non può considerarsi storicamente fondata: che pochi uomini semplici possano aver inventato – e diffuso – in una sola generazione una personalità così possente e affascinante, un’etica così nobile e così ispirata ad umana fratellanza, sarebbe un miracolo ancor più clamoroso di quelli ricordati nei Vangeli. La storiografia si è ora orientata verso altre due ipotesi:
1) «ipotesi religiosa»: veramente Gesù fu il Cristo, o comunque il Gesù della Fede;
2) «ipotesi critica»: Gesù fu solo un uomo che venne creduto il Cristo o per dolo o in buona fede o per l’uno e l’altra insieme. L’«ipotesi critica» parte dalla premessa che il Soprannaturale non esiste e quindi tutto ciò che è segno del divino (i miracoli, la Resurrezione...) viene considerato impossibile e pertanto puramente simbolico. Alcune «ipotesi critiche» su Gesù appaiono suggestive (abbiamo un Gesù rivoluzionario, Esseno, ellenizzante), altre sono del tutto inconsistenti (un Gesù figlio di un soldato romano «ariano» di passaggio, tale Panthera), altre ancora risultano totalmente fantasiose (un Gesù alieno o giunto da un lontano futuro: i miracoli sarebbero effetti di una scienza progredita, il suo insegnamento come espressione di una civiltà superiore).
A questo punto, però, il campo dello storico è chiuso: credere o non credere che Cristo sia il Figlio di Dio non è più una questione storica – è, come si dice, una questione di Fede!
(aprile 2007)
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