domenica 29 giugno 2014

Suicidarsi per un no

suicidio-Renata Fontanelle- Sentire notizie di questo genere è sempre doloroso perché tutti  pensiamo immediatamente alla sofferenza che c’era in questa giovane per condurla ad una decisione così definitiva,togliersi la vita.
Dietro alle sofferenze della giovane c’è ora anche la sofferenza dei suoi genitori che avranno iniziato a chiedersi quale errore abbiano fatto per condurre la figlia ad un rifiuto della vita così conclusivo ed inizieranno a provare dei tremendi sensi di colpa.
E’ utile comunque cercare di capire sempre i fenomeni che sono alla base di avvenimenti di questo tipo, per lo meno per cercare di evitare che accadano ancora in futuro.
Osservando la natura dei giovani d’oggi, appare spesso evidente la lorofragilità; fragilità che prevalentemente è più caratteristica maschile che femminile. I giovani evidenziano paure di vario tipo: di non essere all’altezza della situazione, di fallire, di essere paragonato ad altri, del futuro in quanto portatrice di novità, di cambiamenti, di solitudine; queste paure, o almeno parte di esse, sono spesso dovute ad errori di educazione da parte della famiglia e della scuola.
Non è il caso di questa ragazza che invece desiderava portare cambiamenti nella propria vita vissuta per allontanarsi evidentemente da una vita che l’annoiava, che le stava “stretta”, per togliersi da un “tran tran” che non rispondeva ai suoi desideri di conquista del proprio spazio in questo mondo.
Ma i genitori non devono aver capito i messaggi che la figlia lanciava,l’importanza che per lei aveva la scelta di andare a studiare all’estero. Probabilmente questo desiderio corrispondeva all’esigenza di questa ragazza di realizzare il proprio sogno: affrontare la vita da sola, come in una avventura, conoscere persone nuove con cui interagire e confrontarsi, mettere se stessa alla prova di fronte alle difficoltà che questo progetto le prospettava. Pur con la sua fragilità lei si sentiva in grado di operare questa scelta, ma non è stata in grado di sopportare la vita di tutti i giorni.
Se vogliamo osteggiare scelte così tragiche dobbiamo trovare delle modalità di prevenzione.
L’uso del “NO”; possiamo immaginare un tipo di educazione che comprenda ildiniego. In Italia particolarmente sappiamo che i genitori trasmettono un’educazione permissiva, che spesso non prevede l’uso del “NO”; l’italiano tende a misurare il proprio status sul tipo di vita che conduce il figlio per cui si tende a “dare” più del necessario, molto di più, creando spesso confusione nella testa dei ragazzi che pensano di essere “principini” a cui tutto è dovuto. Il genitore italiano tende a eliminare qualunque forma di sofferenza al figlio, ovviamente non riuscendoci perché la vita è gioia e sofferenza, perché i ragazzi hanno comunque momenti di vita propria, in cui il genitore non entrerà mai. Il metodo adottato da molti genitori è quello di dare tutto al bambino fino a quando le richieste comprendono oggetti o beni o situazioni che non escludono il genitore stesso, fino ad arrivare a “viziare” esageratamente i figli per poi, quando il figlio cresce e inizia a costruirsi una propria vita esterna alla famiglia e chiede ciò che gli sembra dovuto perché non conosce il “NO”, il genitore si sente estromesso, in pericolo e nega. Ed al primo NO, alla prima sofferenza profonda, la psiche dei ragazzi può subire un “crac”, uno shock incomprensibile ed insopportabile.
Quindi l’uso del “NO” è necessario, soprattutto nei primi anni di vita, ma è necessaria anche una apertura mentale rispetto alle esigenze dei giovani. La famiglia e la scuola devono sempre “sintonizzarsi” sulle loro lunghezze d’onda; molti genitori e docenti ritengono inutile o deleterio consentire ai figli o agli alunni l’uso del computer o del tablet come mezzo di lavoro e di studio o di comunicazione tramite Skype o Facebook o Twitter o altri social network, o tramite Words App del cellulare. Questo perché questi strumenti non hanno fatto parte, ed ancora adesso non fanno parte, del vissuto degli adulti di oggi. Ma togliere queste cose ai ragazzi equivale a relegarli in uno spazio vuoto e buio e costruire una barriera tra loro e i coetanei. Lo stesso discorso si può applicare alle possibilità che vengono offerte ai giovani di studiare all’estero per poter competere con gli altri nel prossimo futuro che sempre più sarà di un mondo globalizzato. Non si può “salvare” un giovane, preservarlo dalle esperienze negative tenendolo staccato dalla realtà; creeremmo solo disadattati bisognosi sempre di una figura di riferimento a cui aggrapparsi, anche nell’età adulta. E pensate quale società ne deriverebbe!
L’insegnamento della pazienza. Siamo abituati a ragazzi e ragazze che, sempre di più, fisicamente sembrano già maturi, pur essendo ancora bambini che, credendosi ormai adulti, chiedono di fare ciò che solo gli adulti possono permettersi (si pensi a quel giovane di 15 anni che, alla guida di un auto di un amico ha travolto pedoni e auto parcheggiate). Spieghiamo bene quale può essere il rischio di tale scelta e che la vita, pur nella sua fugacità, è abbastanza lunga da permettere esperienze diverse adatte alle varie età e che “bruciare le tappe” è inutile e può essere pericoloso. Questa “pazienza” però i ragazzi possono svilupparla se comunque l’adulto gli prospetta una vita adeguata alla sua età, non certo se viene trattato in modo inadeguato e tenuto nella “bambagia”. Facilmente ne nascerebbe un rifiuto che potrebbe portare alle reazioni suddette o di inadeguatezza da adulto o di grave opposizione.
Educare al fallimento. Talvolta certe scelte drammatiche nascondono un forte disagio dovuto alla sensazione di fallimento della propria esistenza ed alla ricerca di una cancellazione di sé per una vita nuova, diversa. Nella storia di ognuno di noi c’è un ricordo, magari ancora imbarazzante, di un fallimento: scolastico, di lavoro, sentimentale. Qualunque esperienza con un cattivo risultato può creare disagio, pensiamo ad una bocciatura scolastica. In questi casi è importante che l’adulto aiuti il ragazzo a reagire alla “sconfitta” in modo positivo, vivendolo come esperienza arricchente da cui si è imparato, cercando soprattutto di non ripetere gli errori fatti.
Empatia nei confronti dei giovani. Chi vive a contatto dei giovani deve farlo per scelta, non per obbligo. I figli devono essere desiderati, non imposti. Il lavoro di insegnante di asilo, di scuola materna, di scuola elementare, di scuola media e di università non deve essere scelto in base allo stipendio o altro ma in base al desiderio di stare a contatto dei giovani, in base alla capacità di amore nei loro confronti, in base alla volontà di essere di aiuto a persone che chiedono di crescere con un’educazione adeguata ai tempi che consenta loro un inserimento felice nella società. Un ragazzo che si sente “compreso” o che vede comunque nell’adulto il desiderio di aiutarlo a crescere, difficilmente farà scelte così drammatiche.

http://www.articolotre.com/2014/06/suicidarsi-per-un-no/

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