Brasse, il fotografo di Auschwitz:
“Dopo il campo, mai più un clic”
Nel libro di Luca Crippa e Maurizio Onnis (Il fotografo di Auschwitz,
Piemme) la vera storia del prigioniero polacco incaricato di documentare tutti gli internati che arrivavano nel campo di sterminio: in 5 anni scatterà tra i 40 e i 50 mila ritratti, ma una volta libero, all’età di 27 anni, non riuscirà mai più a fotografare nulla
Piemme) la vera storia del prigioniero polacco incaricato di documentare tutti gli internati che arrivavano nel campo di sterminio: in 5 anni scatterà tra i 40 e i 50 mila ritratti, ma una volta libero, all’età di 27 anni, non riuscirà mai più a fotografare nulla
Ci sono libri la cui qualità è nel farsi bere tutto d’un fiato. I pensieri, le riflessioni, le sedimentazioni vengono dopo. E’ il caso della storia vera di Wilhelm Brasse, il fotografo polacco sopravvissuto ad Auschwitz grazie al suo talento e scomparso il 23 ottobre del 2012.
L’incarico di documentare tutti i prigionieri in arrivo nel famigerato campo di concentramento ad uso dell’ufficio politico, che Brasse riceve dal comandante nazista Rudolf Franz Ferdinand Hoss, ci scaraventa subito nel cuore dell’inferno di cui il protagonista afferra i contorni man mano che emergono nella camera oscura. In 5 anni scatterà tra i 40 mila e i 50 mila ritratti ma una volta libero, all’età di 27 anni, non riuscirà mai più a fotografare nulla.
Il racconto è in prima persona. Brasse che per la prima volta vede lo sguardo di una donna all’ingresso della camera a gas e ci legge “paura e sbalordimento insieme alla tremenda consapevolezza che tutto stava per finire, che lei sarebbe stata la prossima”. Brasse che coglie la lentezza dei gesti di quelli che si fanno fotografare e non vogliono andarsene perchè assaporano il riposo concessogli dal diversivo, gli occhi di uomini e donne vivi ma probabilmente per poco, l’ultima espressione del volto consapevole dell’imminente chiusura del sipario. Brasse nello studio fotografico con l’orologio a cucù che impedisce al kapò di turno di picchiare i detenuti inventandosi che le foto devono essere pulite e non sono ammessi occhi neri. Brasse che ascolta gli aguzzini prendersi gioco delle loro vittime quando gli fanno saltare i denti (”mi fanno ridere, ci rimangono cosi male...”). Brasse che addolcisce con un matita le ombre per dare alla memoria dei “dead men walking” un abbozzo di dignità, quegli spettri ancora capaci di vergogna quando nel mettersi in posa si coprono sotto la giacca la camicia sporca. Brasse divorato dall’angoscia per quella volta che ha chiesto al kapo Ruski di non uccidere con cattiveria i tre ebrei provenienti dalla sua città e il sollievo nel saperli finiti con un colpo alla testa e non soffocati con la pala.
I libri-documento su Auschwitz sono fiammelle di memoria. In questo siamo spettatori quasi in contemporanea, guardiamo attraverso le foto il dolore degli altri come nell’ultimo saggio della scrittrice americana Susan Sontag (”Regarding the Pain of Others”). Il fotografo di Auschwitz ci mette nella sua prospettiva quando cammina a testa bassa sperando che vedendo il meno possibile di quell’orrore potrà dimenticare, quando s’imbarazza per l’arrivo delle donne convinto com’è che la guerra sia roba da uomini e quando dolorosamente scopre che non potendo lavarsi puzzano anche loro le creature angeliche a cui le botte naziste hanno eliminato le mestruazioni, quando deve scattare una foto bucolica da mandare agli anziani genitori dell’SS che ha appena ucciso gli ebrei greci con un’iniezione letale, quando scopre nella lista dei morti del giorno il nome di suo zio Lech, quando deve lavorare per Mengele che spiegandogli di essere Dio gli manda a immortalare nani, malati, gemelle, esperimenti ginecologici di sterilizzazione delle donne ebree, quattro ragazzine magrissime, persone cavie da dimenticare ogni notte prima di dormire per non smettere di dimenticare e andare avanti.
I giorni di Wilhelm Brasse scorrono via tutti uguali ma ognuno scortica la pelle in maniera indelebile, come il disegno del paradiso terrestre tatuato sulla schiena del fuochista di Danzica che il sadico medico Entress desidera al punto da far scuoiare il poveretto per rilegarci un libro. Un amico, incaricato di fotografare i prigionieri suicidi, azzarda che siano loro i più coraggiosi, quelli che muoiono senza aspettare di toccare il fondo della disumanità tra i fantasmi vaganti al di là del filo spinato. Eppure lui, il protagonista, sopravvive ingegnandosi a chiedere pane e margarina extra facendo ritratti alle SS e abbellendoli per le loro famiglie. Sa che deve tacere, abbozzare, subire i tentantivi di “conversione” al nazismo in virtù dei suoi nonni austriaci, ma avverte anche, con la pancia, che le foto possono cambiare la storia, che portano la testimonianza del fumo dei forni crematori più intenso di quello della locomotiva, che immortalano i prigionieri inizialmente pochi diventare una valanga con i loro occhi lì, indelebili nell’archivio del campo di concentramento.
Quando nel dicembre 1944 la fine appare prossima e gli alleati vicini il fotografo di Auschwitz rompe gli indugi e oltre ad aiutare come può la resistenza passando informazioni dall’interno progetta il più ambizioso dei colpi, salvare le foto e farle uscire dal campo per i posteri, perché possano credere l’incredibile guardando i volti dei morti viventi e quelli dei carnefici gelidi come l’SS che pur sforzandosi di sorridere riesce solo ad abbozzare un ghigno. Spera, dice a se stesso, che i russi ne facciano buon uso. Nel frattempo sì è innamorato. Lì, nel vuoto dei sentimenti annullati dell’odio, lui si innamora di Baska, le regala una foto di fiori mentre l’odore di carne bruciata incombe sul campo. Non c’è tempo per l’amore, tra i mucchi di cadaveri che crescono nonostante i tedeschi stiano perdendo la guerra e i bombardamenti dei vincitori si avvicinano. Eppure lui, anche per vivere, ama. Baska sparisce. L’andrà a cercare alla fine della guerra, quando tutto sarà archiviato sull’altare della sconfitta del nazismo, ma lei lo caccerà via muta e furiosa per essere andato a ricordarle Auschwitz. L’amore come l’arte, non sopravvive ad Auschwitz. Non restano che le foto, la memoria degli occhi dei condannati che ieri come oggi impedisce di chiudere i propri.
http://www.lastampa.it/2014/01/28/esteri/libri/brasse-il-fotografo-di-auschwitz-dopo-il-campo-mai-pi-un-clic-DiUlhsEjOyG5cwIeUuyMzM/pagina.html
Nessun commento:
Posta un commento