6 Ottobre 2003
“Le nostre sfide"
Care compagne, cari compagni,
ancora una volta dobbiamo aprire una nostra riunione esprimendo angoscia
e
sdegno di fronte ad un nuovo attentato terrorista che sabato ad Haifa
ha
seminato morte e dolore tra una folla inerme, in un ristorante, in un
giorno
di festa.
E dura è scattata una reazione militare che non solo ha seminato altri
lutti
e altre sofferenze, ma per la prima volta coinvolge direttamente uno
stato
arabo – la Siria – in una escalation militare che può incendiare
l’intero
Medio Oriente.
Sono gli ultimi tragici episodi di una spirale di terrorismo e
reazione
militare che ormai da anni insanguina Israele e i Territori
palestinesi.
E per questo avvertiamo tutti l’inutilità e l’impotenza di appelli alla
pace
che sono ogni giorno contraddetti e negati dal ricorso alle armi.
Eppure, anche in queste ore buie, non possiamo rinunciare a batterci per
l’
unica soluzione di pace possibile: quella fondata sul riconoscimento di
due
diritti, entrambi legittimi, che possono vivere e affermarsi soltanto
insieme.
Ma questo obiettivo non basta dichiararlo; né è sufficiente delinearlo,
come
pure si è fatto con la “Road map” proposta da Ue, Onu, Usa e Russia.
Servono atti concreti; atti che fermino la spirale di violenza e aprano
la
strada, pur difficile, del negoziato, del consenso e dell’accordo.
Un’azione inequivoca e determinata delle autorità palestinesi per il
disarmo
delle organizzazioni terroristiche è condizione imprescindibile
perché
Israele riprenda un qualsiasi negoziato.
E il fermo No – che anche noi leviamo insieme a tanti – ad atti di
forza
contro il presidente Arafat, si accompagna all'altrettanto fermo invito
alle
autorità palestinesi a tagliare qualunque elemento di contiguità con
le
organizzazioni terroristiche.
Atti di fiducia altrettanto chiari li deve compiere anche Israele,
consentendo alla popolazione civile palestinese di ritornare ad una
vita
quotidiana normale, ritirando le forze armate dai territori occupati,
trasferendo alle autorità palestinesi l’effettivo controllo nei loro
territori e dando così l’inequivoca dimostrazione di non voler
frapporre
ostacoli alla nascita di uno Stato palestinese indipendente.
E serve un impegno più determinato e convinto della comunità
internazionale,
degli Stati Uniti, dell’Europa, che devono accompagnare attivamente
la
ripresa di un cammino politico, anche prevedendo – se necessario – la
presenza di una forza multinazionale dell’Onu, che garantisca la
sicurezza
di entrambe le parti nella transizione verso la pace.
E al Governo italiano anche nella sua qualità di Presidente di turno
dell’
Ue, chiediamo di mettere in campo ogni iniziativa utile a spezzare la
spirale di violenza e a riaprire uno spazio al cammino della pace.
La questione politica con la quale, in questa nostra Direzione,
dobbiamo
confrontarci è come riorganizzare l'iniziativa dei Ds, dell'Ulivo,
del
centrosinistra, nella fase politica nuova che si è aperta nel Paese.
Sì, perché una fase nuova si è aperta.
Siamo a metà legislatura e il bilancio di due anni di governo è
particolarmente critico. La situazione economica è bloccata, come ci
dicono
tutti gli indicatori macroeconomici; la finanza pubblica è in una
condizione
di grave dissesto, come dimostra il travaglio della preparazione
della
Finanziaria; e sul piano sociale, le politiche fin qui perseguite dal
governo hanno determinato una crescita del senso di precarietà e di
insicurezza.
Si sentono più precarie le imprese, orfane di qualsiasi politica di
sostegno, in una fase difficile dell’economia e dei mercati. Si sentono
più
precarie le famiglie, di fronte ad un’ inflazione e ad un carovita
che
riducono la capacità di spesa dei redditi. Si sentono più precarie le
persone – in primo luogo i giovani – di fronte ad un mercato del lavoro
più
incerto e ad una politica sociale che riduce tutele e diritti.
A tutto ciò si aggiungono i continui strappi operati dalla destra su
materie
particolarmente delicate, quali la giustizia, l’informazione, gli
assetti
istituzionali. A cui si aggiunga la pratica dell’aggressione nei
confronti
degli avversari politici, ricorrendo a mezzi – come accade nella
Commissione
Telekom Serbia – che travolgono ogni regola e ogni principio. Strappi
che
producono nel Paese un clima di continua tensione civile, rischioso per
il
funzionamento delle istituzioni democratiche, ma anche dannoso per il
sistema economico e sociale.
E non è senza significato che sempre più spesso siano le parole del
Presidente Ciampi a dovere ristabilire regole e principi, lacerati
dalle
politiche della maggioranza di governo.
E’ un bilancio critico che comincia ad essere avvertito come tale da
un’
opinione pubblica vasta, non più limitata solo a quanti hanno un
orientamento di centrosinistra, ma ormai composta anche da settori che
pure
avevano guardato con favore, o comunque senza pregiudizio, a
Berlusconi.
Da tempo il Paese ha compreso quanto sia incolmabile il divario tra
la
natura epocale delle aspettative suscitate - l'on. Berlusconi aveva
parlato,
nel chiedere la fiducia alle Camere, di "secondo miracolo italiano" - e
la
mediocrità dei risultati fin qui prodotti.
E i cittadini non perdono occasione per manifestare il loro disagio, come
si
è visto ancora ieri in Tv.
Nel Paese si va insomma diffondendo un clima di delusione, di
sfiducia,
insieme alla convinzione che questa destra non sia in grado di
governare.
Perché è incapace di esprimere un progetto di governo percepibile e
credibile. Perché la sua classe dirigente è mediocre e inadeguata.
Perché
non dimostra capacità di incontrare le domande, le esigenze e gli
interessi
che il paese manifesta.
E’ una crisi di credibilità del Governo che comincia a trasformarsi in
una
crisi di consenso alla Casa delle libertà, come si è visto nelle
elezioni
amministrative di primavera.
Un voto sì amministrativo, ma che ha registrato un’unica generale
tendenza:
ovunque – da Udine a Siracusa – il centrodestra ha visto ridursi i
suoi
consensi; e ovunque il centrosinistra li ha visti crescere.
Un voto tanto più significativo, in quanto ha interessato città, province
e
regioni, nelle quali la consistenza elettorale del centrodestra era
notevole
e ha, dunque, marcato in modo tanto più evidente la difficoltà della
Casa
delle libertà a mantenere consensi e credibilità.
Il colpo accusato dalla coalizione di governo è stato particolarmente
duro.
Da allora, si è aperta una "verifica" - espressione essa stessa evocativa
di
affanni e contrasti - che non si è più chiusa.
In sostanza, da diversi mesi, la maggioranza è entrata in una crisi
politica
grave. Una crisi politica che non si trasforma in crisi di governo
per
effetto del semestre europeo, dell'ampiezza del vantaggio di seggi in
Parlamento, ma soprattutto della sempre più stringente dipendenza di
tutte
le componenti della coalizione dalla leadership personale e, per così
dire,
"privata", dell'on. Berlusconi.
E in effetti, per cercare di uscire dall'attuale condizione di
difficoltà,
il Presidente del Consiglio sta mettendo in campo una strategia politica
che
si basa innanzi tutto sul rafforzamento del suo potere privato, come
principale risorsa da utilizzare non solo nello scontro politico: con
il
centrosinistra, ma anche - e in questa fase soprattutto – per accrescere
il
controllo nel centrodestra.
I "franchi tiratori" sul disegno di legge Gasparri, le dimissioni
dall'esecutivo di An di Storace, così come il sempre più evidente
disagio
dell’Udc, indicano come in alcuni settori della Casa delle libertà la
pressione berlusconiana stia cominciando a suscitare una inquieta
consapevolezza e un'inedita preoccupazione.
Anche ad aree del centrodestra comincia ad apparire chiaro che quelle
che
Leopoldo Elia ha definito "leges sibi et suis" - dalla depenalizzazione
del
falso in bilancio alla Gasparri, passando per la Cirami, il lodo Schifani
e
tutte le altre numerose "leggi vergogna" - stanno avendo effetti
perversi
non solo sull'equilibrio tra i poteri o sulla parità di condizioni
tra
maggioranza e opposizione, ma anche sui rapporti di forza interni
alla
coalizione di maggioranza.
E tuttavia, al momento la tendenza all'accentramento del potere nelle
mani
dell'on. Berlusconi sembra procedere, senza ostacoli come dimostra anche
la
ristrutturazione di Forza Italia: l'evoluzione democratica di quel partito
è
nuovamente rinviata a un futuro non visibile e il modello riproposto
è
quello originario, aziendale e proprietario, mutuato da Publitalia.
Parallelamente il Presidente del Consiglio sta provando ad uscire
dall'attuale condizione di difficoltà con il rilancio del profilo della
sua
premiership, della maggioranza e del Governo.
Evidente è il tentativo di Berlusconi di sfruttare mediaticamente la
grande
occasione offerta dalla coincidenza del semestre italiano con la
Conferenza
intergovernativa che dovrebbe condurre all’adozione della
Costituzione
europea e alla firma dei nuovi Trattati a maggio a Roma.
Ma il rilancio dell’azione di governo pare essere concentrato
principalmente
su due assi: l’assetto istituzionale, dal disegno di legge di riforma
della
Costituzione alla modifica dell’attuale assetto giudiziario, fino alle
leggi
sull’informazione; e l’assetto economico e sociale, con la conferma
della
politica fin qui seguita da Tremonti e le proposte sulle pensioni.
L'intento è palese: da un lato, tacitare le critiche sull'immobilismo
del
Governo mostrando un rinnovato piglio decisionistico; dall'altro,
spingere
l'opposizione su una linea difensiva, che possa essere agevolmente
presentata come ostruzionistica e conservatrice.
A ciò si aggiunge, infine, la risposta all'iniziativa di Romano Prodi
e
nostra, con la simmetrica iniziativa di ristrutturazione del
centrodestra,
attraverso una lista unica tra Forza Italia, An e Udc, destinate a dar
vita
insieme alla grande "sezione italiana" del Partito popolare europeo.
La prova deludente del Governo, la crisi di consenso della Casa delle
libertà, la crisi politica della maggioranza e il tentativo di
rilancio,
sono, dunque, gli elementi costitutivi della fase politica nuova nella
quale
siamo entrati e con i quali l'iniziativa dei Ds e del centrosinistra
deve
confrontarsi, nella consapevolezza che essa chiede al centrosinistra
l'assunzione di nuove responsabilità e la capacità di passare
all’offensiva.
Proprio perché la destra non ce la fa, è urgente rassicurare il Paese
sul
fatto che c’è invece un centrosinistra che può dare all’Italia una
guida
adeguata.
Anche perché - ce lo siamo detti più volte - il vero rischio che
dobbiamo
evitare è che si radichi e si diffonda nell’opinione pubblica l’idea che
da
un lato c’è un centrodestra che non ce la fa a governare, ma dall’altra
c’è
un centrosinistra incapace di avanzare una credibile proposta
alternativa.
Oggi, care compagne e cari compagni, il centrodestra non è più
maggioranza
nel Paese. A sua volta il centrosinistra non lo è ancora e deve
diventarlo.
E’ questo equilibrio instabile e precario che va superato, pena il
diffondersi di un sentimento di sfiducia, d’incertezza e
d’inquietudine.
E questo problema, ha due sole risposte: quella di sfidare il Governo
sul
terreno delle riforme e dare nuova forma al campo del Centrosinistra.
Sfidare il centrodestra sulle riforme non significa, naturalmente,
sostituirsi al Governo, né tanto meno che intendiamo riproporre schemi
di
tipo consociativo che annebbino o riducano la differenza tra chi governa
o
chi sta all’opposizione.
La sfida è indicare di quali riforme il Paese ha bisogno, indicarne i
contenuti e così costruire un rapporto con l’opinione pubblica e la
società
italiana che faccia capire che la rappresentazione - ancora ieri a
Milano
proposta dall'on. Berlusconi - secondo la quale se le riforme non si fanno
è
perché c'è un’opposizione becera ed intransigente che le impedisce, è
una
caricatura che non ha nulla a che vedere con la realtà.
Il primo banco di prova è quello della riforma dell'Unione europea. Si
è
appena aperta la Conferenza intergovernativa con l'Italia nel ruolo
di
presidente di turno.
Venerdì scorso, l'Ulivo ha presentato un documento col quale sfida il
Governo a svolgere un ruolo attivo e propositivo e non semplicemente
notarile, o addirittura, come più volte è capitato (si pensi al ruolo
nefasto del ministro Castelli) di ostacolo sul cammino
dell'integrazione.
Noi chiediamo al Governo italiano di difendere lo straordinario
risultato
prodotto dalla Convenzione dai tentativi di ridimensionarlo o di
svuotarlo.
E gli chiediamo anzi di operare per migliorare il progetto di
Costituzione
europea, come ha detto Giorgio Napolitano, "in particolare per quanto
riguarda la politica estera e di sicurezza, che non può rimanere
bloccata
dal vincolo dell'unanimità per ogni decisione e prevedendo meccanismi
di
revisione dei Trattati che consentano effettivamente l’adeguamento
progressivo della Costituzione”.
Un secondo versante sul quale portare la sfida alla maggioranza di
centrodestra è quello delle riforme costituzionali.
Abbandonando i propositi di segno presidenzialistico e plebiscitario
e
abbracciando - sia pure in modo confuso e rabberciato - la nostra
proposta
di governo del Primo Ministro, la Casa delle libertà ha
implicitamente
riconosciuto quel che è sotto gli occhi di tutti: le uniche riforme
istituzionali che sono state fatte in questi anni sono quelle alle quali
noi
abbiamo dato impulso, sia sul versante della forma di governo, con
l'introduzione del bipolarismo e del maggioritario, sia sul versante
del
federalismo e della valorizzazione delle autonomie.
Questo percorso va ora portato a compimento.
Ma la proposta formulata dai cosiddetti "saggi" della Casa delle libertà
e
poi recepita dal Governo, e ora al vaglio della Conferenza Stato-Regioni,
è
un inizio assai maldestro, confuso e pericoloso.
Emerge sempre più spesso come la destra abbia una concezione del
bipolarismo
come “dominio della maggioranza”.
Noi pensiamo invece che i cittadini chiedano e vogliano un
“bipolarismo
mite”, nel quale l’alternatività degli schieramenti e delle proposte
non
smarrisca mai il senso di appartenenza ad una comunità nazionale e il
primato dell’interesse generale sui pur legittimi interessi di parte.
Per questo siamo non per lo stravolgimento, ma per un completamento
della
transizione istituzionale coerente con il percorso riformatore fin
qui
realizzato.
E, dunque: consolidamento del bipolarismo; rafforzamento della figura
del
Primo ministro come leader della coalizione di governo, con potere di
nomina
e revoca dei ministri e anche di proposta di scioglimento delle Camere,
la
cui decisione ultima deve però rimanere nelle mani del Presidente
della
Repubblica; salvaguardia delle funzioni terze e di garanzia, a
cominciare
dal Presidente della Repubblica, dalla Corte costituzionale e dalla
magistratura; approvazione di un organico Statuto dell'opposizione
che
riequilibri i vantaggi che il sistema maggioritario offre a chi è
maggioranza; valorizzazione del federalismo e istituzione del Senato
federale, come principale contrappeso alla forza del governo e del
Primo
ministro.
Ma il più decisivo terreno di confronto è, oggi, quello della
politica
economica e sociale.
Proprio in questi giorni il Governo sta presentando in Parlamento i
diversi
testi di cui si compone la manovra finanziaria per il 2004.
Si tratta di una manovra difficile, per il sommarsi di una
congiuntura
internazionale sfavorevole con i costi devastanti di due anni di
"finanza
creativa".
L'equilibrio almeno teorico dei conti pubblici viene perseguito
attraverso
tre strumenti: un ulteriore, massiccio ricorso allo strumento del
condono,
quest'anno non solo fiscale, ma anche edilizio; l’ulteriore riduzione
delle
risorse dedicate a essenziali politiche sociali; e il varo di una
riforma
delle pensioni che, come ha detto lo stesso ministro Tremonti, pur
vedendo
differiti nel tempo i suoi benefici finanziari, è parte integrante
della
manovra di bilancio per il 2004.
In sostanza, l’intervento sulle pensioni serve a coprire con la sua
valenza
strutturale l'alluvione di misure "una tantum", come per l'appunto i
condoni
e consentire alla manovra di ottenere l'approvazione in sede europea.
Ma in questo modo si sommano più errori: si persiste, aggravandolo,
nell'errore commesso negli scorsi anni proprio con l'abuso del
condonismo;
si devasta la finanza pubblica, non aggiungendo entrate "una tantum", ma
in
realtà sostituendo con esse le entrate fiscali ordinarie; si interviene
su
un tema socialmente così sensibile come l'assetto del sistema
previdenziale,
in una logica di emergenza finanziaria, anziché di riassetto strutturale
del
rapporto tra Welfare e lavoro.
D’altra parte è lo stesso Governo ad aver riconosciuto che l’erario
ha
incassato in un anno 35.000 miliardi di vecchie lire in meno, nonostante
che
non siano diminuite le tasse né per la famiglie, né per le imprese. E
non
sfugge a nessuno il tentativo di Tremonti di coprire i buchi della
fiscalità
con risorse tolte a Enti locali, servizi sociali e previdenza.
Dopo la nefasta stagione dell'articolo 18, rischiamo così di entrare in
una
nuova stagione di conflitti sociali, dalla quale se dovesse vincere
il
Governo, usciremmo con lo straordinario risultato di aver devastato
il
tenore di vita di una generazione di cittadini, senza aver portato ordine
né
nella finanza pubblica, né nel nostro imperfetto Stato sociale.
Ci sono dunque tutte le ragioni per opporsi con fermezza a questa
manovra
finanziaria e a questa controriforma previdenziale, rifiutando il
ricatto
del Governo per cui o si accettano queste misure o si è
irresponsabili,
ostruzionistici e conservatori.
Le cose non stanno così. Dobbiamo, anzi, far sapere al Paese che noi
ci
siamo opposti fin dal primo giorno alla "finanza creativa" del
ministro
Tremonti; che in Parlamento e in tutte le altre sedi possibili
abbiamo
espresso sconcerto e sgomento per la mancata correzione di rotta dopo
lo
shock mondiale dell'11 settembre 2001; e che avevamo pubblicamente
previsto
gli effetti devastanti del condonismo.
Allo stesso modo, sulle pensioni noi non abbiamo mai detto, né pensato,
che
la riforma Dini avesse esaurito ogni esigenza di riassetto del
sistema
previdenziale. Siamo sempre stati consapevoli che con la riforma Dini
si
erano compiuti passi significativi di un cammino che va proseguito.
Ma
abbiamo sempre detto e pensato che ulteriori interventi di riforma
vanno
apportati nel modo giusto.
Innanzi tutto, tenendo rigorosamente fuori la questione della
previdenza
dalla esigenza di equilibrio a breve dei conti pubblici. Non possono
essere
i pensionati o i giovani co.co.co. o le donne a part-time a pagare con
le
loro pensioni una politica fiscale dissennata.
Si smetta di lanciare di continuo messaggi allarmistici e punitivi,
che
peraltro hanno solo l’effetto controproducente di spingere la gente
ad
andare in pensione appena può.
Non si può non vedere, ad esempio, che con le proposte del Governo i
giovani
che entrano oggi nel mercato del lavoro flessibile rischiano di non
approdare mai ad una pensione civile e dignitosa. Così come appare
insensato
proporre un sistema che il 31 dicembre 2007 vedrà un lavoratore andare
in
pensione con 35 anni di contributi e ventiquattrore dopo, il 1°
gennaio
2008, con 40!
Ed è innegabile il carattere punitivo che rivestono i disincentivi
sanzionatori previsti verso chi liberamente voglia scegliere di andare
in
pensione a 57 anni.
Insomma, anziché preannunciare oggi quel che accadrà fra dieci anni,
si
attivino subito le misure necessarie al completamento della attuale
riforma
previdenziale: armonizzazione graduale dei contributi tra lavoratori
dipendenti e autonomi; ricongiungimento in un unico percorso
previdenziale
dei contributi dei lavoratori flessibili; incentivi per chi
volontariamente
vuole restare in attività anche oltre l’età pensionabile; superamento
dei
trattamenti previdenziali anomali e privilegiati che ancora sussistono. E
si
sblocchi l’uso del TFR per dare finalmente corso alla previdenza
integrativa, condizione esenziale per passare senza rischi al
contributivo.
E, in ogni caso, su questa materia si riprenda la concertazione con i
sindacati, collocando il tema delle pensioni in un confronto che affronti
le
priorità vere di un welfare che noi per primi vogliamo riformare, ma che
per
essere riformato – tutti lo devono capire – ha bisogno non di meno ma di
più
risorse. Il che ripropone la necessità di una politica fiscale di
reperimento delle risorse radicalmente diversa da quella che ci
propone
Tremonti.
Per questo il nostro impegno non si esaurirà nel condividere e sostenere
le
iniziative sindacali – a partire dallo sciopero generale del 24 ottobre–
ma
avanzeremo in Parlamento e nel Paese precise proposte per una riforma vera
e
giusta.
Ma non è soltanto il nodo delle pensioni a sollecitare l’opposizione
a
sfidare il governo sulle riforme.
La Finanziaria predisposta da Tremonti – caratterizzata essenzialmente
da
tagli ai trasferimenti agli Enti Locali e ai principali capitoli sociali
e
da pressoché nessuna politica di investimento e di sostegno alla crescita
–
sollecita ad accelerare proposte del centrosinistra sia sul fronte
dello
sviluppo – a partire dalle politiche per la competitività, per la ricerca
e
l’innovazione, per il Mezzogiorno – sia sul fronte sociale, dove urge che
l’
opposizione indichi – per scuola, sanità, stato sociale – le sue
riforme.
E questo significa avanzare una proposta convincente anche sul
reperimento
delle risorse e sulla fiscalità, che fermi l’emorragia dei conti pubblici
e
argini i danni devastanti di un condono edilizio che – per soddisfare
le
esigenze finanziarie di Tremonti – rischia di compromettere seriamente
ogni
politica ambientale e territoriale.
In realtà, quel che emerge chiaramente dalla fallimentare esperienza di
due
anni e mezzo di Governo Berlusconi è che il centrodestra non ce la fa
perché
la sua cultura politica è inadeguata a far fronte alle sfide del
nostro
tempo.
Una cultura che ha mescolato conservatorismo compassionevole con
populismo,
cercando di dare rappresentanza a pulsioni ed umori presenti nella
nostra
società, ma rivelandosi poi del tutto incapace di proporre ad essi
uno
sbocco razionale e costruttivo.
Se si volesse andare più a fondo nell'analisi, si dovrebbe dire che è
l'aver
svincolato il principio di libertà da quello di responsabilità che ha
reso
la proposta del centrodestra inadeguata ad affrontare i nodi del
nostro
tempo: una libertà irresponsabile è infatti per definizione una
libertà
distruttiva, incapace di tradursi in progetto collettivo, in
mobilitazione
delle energie non solo intellettuali e morali, ma perfino vitali di cui
una
società dispone.
Ma proprio il carattere radicale del fallimento del berlusconismo, chiama
ad
un'altrettanto radicale assunzione di responsabilità da parte del
centrosinistra. Che non può limitarsi a proporre un programma, ma
deve
innanzi tutto dimostrare di essere provvisto di una cultura politica
che
sappia confrontarsi con i problemi del nostro tempo.
Un'idea di libertà della quale è dimensione costitutiva la
responsabilità;
la difesa e la promozione dei beni pubblici e delle pubbliche
istituzioni
come condizione della civiltà; una statualità nuova, della quale sia
dimensione costitutiva la sussidiarietà, sia verticale che
orizzontale;
l'imprescindibile complementarietà di giustizia sociale e
competitività
economica come fondamento di una politica economica e sociale che ha
nel
lavoro e nel sapere le due leve fondamentali; la redistribuzione di
reddito,
lavoro, opportunità di vita nel momento in cui l’economia di mercato
sembra
smarrire la sua dimensione sociale; uno sviluppo sostenibile che
consideri
la natura e le sue risorse non un vincolo, ma una ricchezza sociale;
la
stretta connessione tra prosperità economica e apertura al mondo, in
una
società capace di essere, al tempo stesso, dinamica e solidale;
un’Italia
pensata nei nuovi orizzonti dell’unità europea e della
mondializzazione.
Sono questi i capisaldi di quel “riformismo” in cui convergono le
diverse
culture del centrosinistra.
Un riformismo, che può tradursi in un progetto comune del centrosinistra
per
l'Italia e per l'Europa e che può dare respiro alla nostra iniziativa
di
questo lungo anno elettorale.
Tra poche settimane si vota per il rinnovo dei consigli delle
province
autonome di Trento e di Bolzano. Poi, nel maggio del 2004, tra dieci
mesi
avremo un passaggio elettorale di enormi proporzioni: 5000 Comuni, 63
Province, la Regione Sardegna. E subito dopo, tutto il corpo elettorale
per
il Parlamento Europeo.
E' fondamentale che questi appuntamenti elettorali ci vedano uniti, non
solo
per un atto di volontà, ma perché siamo impegnati nella duplice sfida
della
costruzione di un “Progetto per l’Italia” e nella contestuale
riorganizzazione del campo del centrosinistra.
Si tratta di due dimensioni che si tengono e che non è possibile separare
se
non pretestuosamente. Non ho mai condiviso la tesi per la quale quel
che
conta è soltanto discutere del programma e dei contenuti, perché un
progetto
ha bisogno di inverarsi in un soggetto; e neppure l'antitesi, per la
quale
si potrebbe concentrare l'attenzione solo sulle forme della
soggettività
politica prescindendo da quello che si deve fare.
Le due dimensioni dell'agire politico si tengono e noi dobbiamo
essere
capaci di tenere i due fronti: progetto di governo del Paese e soggetto
che
quel progetto esprime, incarna ed è capace di realizzare.
Al Progetto abbiamo incominciato a lavorare, cercando di dare alla
nostra
opposizione contenuti propositivi e di delineare così un programma di
governo alternativo. E con la Convenzione di Milano abbiamo offerto a
noi
stessi e a tutto il centrosinistra un contributo programmatico per
delineare
gli assi principali della proposta che vogliamo avanzare all’Italia.
Si tratta ora di accelerare ulteriormente, aprendo un vero e proprio
“cantiere programmatico” che coinvolga tutte le forze del centrosinistra
e
mobiliti in modo ampio e diffuso energie e risorse della società.
Ma proprio l’elaborazione del progetto conduce all’altra sfida: la
riorganizzazione del centrosinistra, rilanciata dalla proposta che
Romano
Prodi ha avanzato alla fine di luglio di una lista unitaria dell’Ulivo
alle
elezioni europee.
Una proposta che ha un duplice significato: da un lato raccoglie una
domanda
di unità, che sappiamo benissimo essere il sentimento comune degli
elettori
del centrosinistra; e dall’altra rispondere a questa domanda di unità
sul
terreno - l’Europa e il suo futuro – su cui l’Ulivo effettivamente ha
più
possibilità di unirsi di quanto non possa fare la destra, perché l’
integrazione europea e il rapporto tra Italia ed Europa sono state le
cifre
dell’azione del centro-sinistra al governo e sono tuttora tratti
essenziali
di identità della nostra coalizione.
La destra ha molte meno possibilità di noi di presentarsi agli elettori
con
un discorso unitario sull’Europa. Come si è visto in questi anni, la
maggioranza di governo oscilla tra l’europeismo degasperiano dell’Udc e
l’
anti-europeismo come tratto di identità stessa della Lega; tra l’Europa
come
terreno di legittimazione quale è ancora oggi per Alleanza nazionale,
a
Forza Italia che essendo un partito la cui unica identità è il suo
leader,
non si sa cosa pensi dell’Europa, perché ne pensa tutto e il contrario
di
tutto.
Per la Casa delle libertà è insomma molto più difficile avanzare una
piattaforma sull'Europa di quanto non sia per l'Ulivo.
E, peraltro, la proposta di Prodi colloca la riorganizzazione del
centrosinistra italiano dentro un orizzonte più largo di
riorganizzazione
delle forze progressiste in campo europeo.
Fin dal primo momento ho detto che sarebbe stato un errore guardare
con
diffidenza ad una proposta che corrisponde ad un sentimento unitario
largamente diffuso nel Paese. Veniamo, ad esempio, da una stagione di
Feste
de L’Unità in cui ciascuno di noi è stato destinatario di questa
sollecitazione, perfino di un’implorazione, all’unità.
Io stesso ho più volte parlato, in questi mesi, di un “Ulivo a bassa
intensità” del tutto inadeguato a corrispondere alle attese e ai compiti
di
oggi. E d’altra parte, siamo stati noi Ds i primi a sollecitare per mesi
e
mesi l’adozione di scelte politiche e organizzative che consentissero
all’
Ulivo e al centrosinistra di darsi una identità e una forma più credibile.
E
se le nostre sollecitazioni non hanno trovato esito, pure non ci
rassegniamo
e, anzi, sentiamo la responsabilità di agire ulteriormente per
corrispondere
alla domanda di unità.
La proposta di Prodi ha aperto una discussione che in questi mesi via via
si
è arricchita.
Per un verso – anche se non dobbiamo dare nulla per scontato e per
definitivo – alcune forze politiche, hanno manifestato l’intenzione
di
andare alle elezioni europee con propria lista e proprio simbolo.
Una scelta che rispettiamo, ma che non solo non deve impedire a chi
ritiene
di cimentarsi con l’obiettivo di una lista unitaria di poterlo fare,
ma
richiede anche che si continui a ricercare la più ampia unità, senza
pregiudizi o condizioni precostituite.
Per altro verso, la discussione si è spostata in avanti facendo emergere
il
nodo politico più importante e dunque anche più complesso: evitare che
la
tensione unitaria si esaurisca nel solo passaggio elettorale europeo
e
innescare invece, un processo di riorganizzazione del quadro politico,
delle
forze politiche, del centrosinistra.
Una lista unitaria alle elezioni europee sarebbe un fatto politico
rilevante, che avrebbe un suo valore in sé. Ma è altrettanto evidente
che
essa si arricchirebbe di maggiore significato se si saldasse ad un
progetto
politico di riorganizzazione volto a superare la principale fragilità
del
centro-sinistra italiano: la sua frammentarietà, la sua disarticolazione,
l’
insufficiente grado di unità, di coesione, di solidarietà.
E viceversa, è indispensabile inquadrare l'impresa della
riorganizzazione
politica del centrosinistra italiano in un orizzonte di tipo europeo.
In tutta Europa il sistema politico è organizzato lungo tre caratteri:
1)
ovunque il sistema è bipolarizzato, e – sulla base delle leggi
elettorali,
della storia, della cultura di ogni Paese – si contendono il governo
un
blocco progressista e un blocco conservatore; 2) in nessun Paese
questi
blocchi si traducono in un unico partito, ma si configurano come alleanze
di
più forze; 3) e tuttavia, queste alleanze sono sempre guidate da una
forza
politica di grandi dimensioni elettorali e di largo radicamento sociale
che
rappresenta il pilastro portante dell'alleanza che – senza nulla
togliere
all'apporto degli alleati – dà il segno politico all'alleanza stessa e
ne
esprime la leadership.
In Italia l’evoluzione del sistema politico ha dato luogo ai primi
due
caratteri – bipolarismo pluripartitico – ma manca il terzo.
Si tratta di pensare ad una riorganizzazione del campo del
centro-sinistra
che stia dentro questo schema europeo, ovvero ad un’alleanza di
centrosinistra plurima e plurale nei suoi soggetti, ma guidata da un
soggetto politico riformista, di grande scala che ne costituisca
l’elemento
motore.
Insomma: anche in Italia serve un soggetto riformista e progressista
che
svolga lo stesso ruolo e funzione da tempo assolto negli altri paese
europei
dai grandi partiti riformisti e socialdemocratici.
Naturalmente porre questo obiettivo, impone di definire con chiarezza
nodi
che sono già emersi nel dibattito di queste settimane.
E, anzi, desidero ringraziare tutte le compagne e i compagni che già
hanno
contribuito a dare alla nostra discussione spessore e qualità. Così
come
dalle riunioni delle nostre minoranze sono venute sollecitazioni a
contributi che voglio raccogliere.
Una prima questione: riguarda la contestualità tra la costruzione di
una
lista unitaria – e in prospettiva di un soggetto politico riformista – e
la
costruzione di un’alleanza di centrosinistra larga.
Le due cose non possono che stare insieme, perché ha senso porsi
l’obiettivo
di costruire un soggetto riformista come perno centrale e guida dell’
alleanza, solo se l’alleanza c’è.
Detto con altre parole, noi non vogliamo lavorare ad un Ulivo più
piccolo,
per usare una delle tante formule del nostro dibattito. Ci interessa
mantenere , invece, un’alleanza larga, più larga rispetto a quella con
la
quale ci presentammo alle elezioni nel 2001.
Ci sono peraltro condizioni oggi favorevoli, rese evidenti dalla fase
nuova
in cui sono entrati i rapporti dell’Ulivo con Rifondazione Comunista e con
l
’Italia dei Valori.
Su tre terreni oggi un centrosinistra largo può rinsaldare la sua
coesione:
la definizione dell’Agenda dell’opposizione; la elaborazione del
programma
di governo con cui sfidare la destra; la preparazione delle elezioni
amministrative 2004, consolidando la positiva esperienza del 2003,
quando
ovunque ci siamo presentati agli elettori con candidati Sindaci e
Presidenti
scelti insieme e sostenuti dalle liste dei nostri partiti.
Il lavoro comune avviato proprio in queste settimane da tutte le forze
di
opposizione intorno ad un’Agenda sociale (lavoro, previdenza,
formazione,
politiche di sviluppo) sono la concreta dimostrazione della fecondità
di
questo terreno di azione.
Un secondo nodo da sciogliere con tenacia e pazienza è il rapporto
tra
identità ed unità. Noi abbiamo bisogno di corrispondere a due
esigenze
diverse: fare un deciso passo in avanti verso l'unità, ma senza
cancellare
nessuna identità.
Tra l'altro, è proprio questa la necessità di questa duplice dimensione
che
spiega perché in nessun paese europeo il bipolarismo è bipartitico,
ma
ovunque è plurale e coalizionale. Non si tratta infatti di un dato
organizzativo, ma di un fatto politico e culturale.
Questa è la ragione per cui la lista unitaria non rappresenta la
cancellazione, né la fusione dei diversi soggetti che concorrono a
comporla.
E il soggetto politico riformista che potrà nascere in futuro se la
lista
unitaria avrà successo, non potrà essere un partito unico, ma un soggetto
di
tipo federativo.
Non è soltanto un problema dei DS: concorrere ad un più alto livello
di
unità senza mortificare la propria identità e la propria storia è
esigenza
anche della Margherita, dello Sdi e di quanti vorranno concorrere con noi
a
questo progetto.
Sgombriamo, perciò il campo da ombre e sospetti infondati e
strumentali,
come l'idea per cui ci sarebbe qualcuno che vuole sciogliere i DS: qui non
c
’è nessuno che vuole sciogliere niente e alimentare questo sospetto
serve
solo a inquinare e innervosire la discussione, trasformando una
grande
operazione di democrazia, come è sempre una discussione di massa, in un
rito
autolesionistico.
Se vogliamo partire con il piede giusto, dobbiamo impostare la
discussione
nei termini corretti. Stiamo ragionando di una lista unitaria a cui i
Ds
concorrano con la loro storia, la loro cultura, la loro organizzazione. E
l’
obiettivo non è smarrire la sinistra, ma renderne funzione e ruolo ancor
più
forte, più riconoscibile e più efficace.
Un terzo nodo con cui misurarci è il rapporto tra riformismo e
radicalità.
Noi non vogliamo unire i moderati.
Ci proponiamo di costruire un soggetto riformista, fondato su valori
di
progresso, di liberazione, di giustizia; capace di assumere e
rappresentare
anche istanze radicali che muovono da passione etica e civile e da bisogni
e
domande insoddisfatte.
Sul rapporto tra riformismo e radicalità abbiamo ragionato e discusso
a
lungo nella nostra storia, nella lunga storia della sinistra, ma anche
nella
più breve vicenda dei Ds - penso alla relazione di Veltroni al Congresso
di
Torino - e ne abbiamo ampiamente discusso in questi due anni di
opposizione.
Non dovrebbe essere necessario riaprirla, questa discussione.
Dovrebbe
essere chiaro a tutti noi che quando parliamo di un soggetto politico
riformista, parliamo di un soggetto che ambisca a governare il Paese,
che
ambisca a dirigerlo, che abbia quindi nel suo DNA una cultura di governo
e
le riforme come tratto fondamentale della sua politica. Ma diciamo anche
che
questa dimensione deve sposarsi con valori, principi, istanze di
natura
politica, culturale ed anche etica, che si esprimono in termini di
radicalità, una radicalità che noi vogliamo tenere dentro questo
progetto,
proprio perché senza sarebbe più povero.
E questo conduce al quarto nodo che sta di fronte a noi: costruire una
lista
unitaria che non sia solo la somma aritmetica degli elettorati dei
partiti
che decidono di misurarsi con questa sfida.
Più volte in queste settimane abbiamo riflettuto insieme su quanto è
avvenuto nelle recenti elezioni in Friuli - Venezia Giulia, dove la
forza
politica più grande non è un partito, bensì quei 110 mila elettori che
hanno
votato per Illy e non hanno scelto nessun partito.
Il nostro problema è come rappresentare anche quei 110 mila cittadini e
i
tantissimi italiani che – volendo essere rappresentati dal centrosinistra
–
non si sentono però rappresentati dall’attuale forma del centrosinistra.
Non
è un problema di poco conto, è il problema di come si diventa o non
si
diventa maggioranza in un Paese.
Dobbiamo lavorare ad un progetto che abbia la capacità di non smarrire
nulla
della consistenza elettorale dei partiti che vi convergono, ma guardi
oltre,
sia a quanti già sono nel centrosinistra, ma non s’identificano nei
suoi
partiti, e sia a quei settori di elettorato che in buona fede due anni
fa
hanno creduto alla Casa delle libertà e oggi, delusi, sono alla ricerca
di
nuovi punti di riferimento.
Ciò significa che noi pensiamo ad una lista unitaria che non sia solo
somma
di partiti e delle loro classi dirigenti, ma veda la partecipazione
attiva
dei cittadini, di movimenti e più in generale delle mille
articolazioni
della società.
Anche su questo punto la nostra elaborazione non parte da zero. Assai
più
del passato abbiamo preso coscienza di come oggi la società sia molto
più
capace di forme e momenti di organizzazione autonoma. Non tutto ciò
che
muove nella società passa per la rappresentanza dei partiti, anzi. E
dobbiamo quindi mettere in campo un processo che sia capace di
aggregare
forze, di parlare a mondi, interessi, movimenti che si possono
ritrovare
dentro un grande progetto di progresso e concorrervi con l’originalità
delle
loro esperienze.
Anche su questo segniamo una differenza profonda con la destra. Dopo
due
anni di governo della Casa delle libertà è aperto in Italia anche un
grande
problema democratico. Questa destra è, infatti, portatrice di un’idea
oligarchica e plebiscitaria della società, l'idea di una società di
consumatori e non di cittadini. Questa è la loro ideologia.
Al contrario, noi dobbiamo porci l'obiettivo di riuscire a rappresentare e
a
promuovere una nuova stagione di democrazia, di grande partecipazione
democratica, e di riuscire a costruire le condizioni ed anche forme
di
soggettività politica che consentano di dare nuovo spazio e nuovi
sbocchi
alla domanda di democrazia che è diffusa nel Paese.
Infine, il quinto nodo, quello della collocazione nel Parlamento
Europeo
degli eletti della lista unitaria. E’ un interrogativo a cui non si
può
rispondere se non collocandosi dentro un processo di riorganizzazione
della
politica e delle sue forme di rappresentanza, in corso da tempo anche
in
Europa.
La più evidente manifestazione di questa riorganizzazione è stata la
trasformazione del Ppe, che come partito europeo dei cristiani ha vissuto
a
lungo sull’asse che legava Dc italiana e Cdu-Csu tedesche.
Nel momento in cui è venuta meno la Dc italiana, la Cdu-Csu si è trovata
in
un panorama di sostanziale solitudine, priva di partiti omologhi di peso
in
alcuno dei principali Paesi europei. La crisi dell’unità politica dei
cattolici in Italia è stata, insomma, la crisi dell’unità politica
dei
cristiani in Europa.
Helmut Kohl decise di uscire da quella condizione di solitudine e di
isolamento, trasformando il Ppe in un partito che, anziché invocare
l’unità
politica dei cristiani, invocava l’unità delle forze conservatrici e
moderate, aprendo il Ppe ad Aznar, a Berlusconi, ai conservatori
inglesi.
Un processo non concluso, come dimostrano le dichiarazioni di ieri
del
Presidente del gruppo popolare al Parlamento Europeo Pöttering,
favorevole
all’accoglimento anche di Alleanza Nazionale nel Ppe.
Non è immaginabile che questo processo evolutivo resti confinato nel
campo
moderato e conservatore e non abbia riflessi nelle altre famiglie
politiche
europee, in particolare nella famiglia socialista.
La nuova identità del Ppe ha aperto infatti una competizione per il
primato
al Parlamento di Strasburgo. E, peraltro, c'è crescente disagio di
molte
forze del popolarismo europeo, costrette a convivere nel Ppe insieme
a
partiti esplicitamente conservatori
Non solo, ma l’allargamento dell’Ue a 10 nuovi paesi, farà approdare
al
Parlamento Europeo rappresentanti di partiti e formazioni non
necessariamente riconducibili alle attuali famiglie politiche
europee.
La geografia politica europea è, insomma, in una fase dinamica e ciò
investe
anche il Pse, sollecitandolo ad interrogarsi su come corrispondere in
modo
efficace al nuovo quadro politico che si va delineando a livello
continentale.
Naturalmente, questa riflessione non ha nulla a che vedere con le
semplificazioni che circolano da più parti, secondo le quali sia il Ppe
che
il Pse sarebbero forme politiche vecchie, come tali da archiviare e
da
sostituire con forme aggregative del tutto nuove.
Se mai il tema vero è come le famiglie politiche continentali sono capaci
di
rinnovarsi, aprirsi, arricchirsi di nuovi apporti. E come ha fatto il
Ppe,
così il Pse e la sua rappresentanza al Parlamento Europeo non possono
sottrarsi a questo sforzo.
E’ un problema sul tappeto da tempo, proposto un anno fa da una
lettera
aperta indirizzata ai leaders socialisti europei da Amato e D’Alema.
E
riproposto da me, pochi giorni fa, alla riunione di Bologna del
Gruppo
parlamentare del Pse.
Il problema non è mettere in discussione il Pse come partito, di cui tra
l’
altro i Ds sono stati fondatori. Il problema, al contrario, è come il
Pse
possa mettersi alla testa di un processo di riorganizzazione del campo
delle
forze progressiste europee, al di là degli stessi confini dei partiti
socialisti e socialdemocratici.
Un passaggio utile in questa direzione potrebbe essere una maggiore
distinzione tra il Pse come partito – a cui aderiscono i partiti
socialisti
e socialdemocratici europei, tra cui i Ds e lo Sdi – dal Gruppo
parlamentare
europeo che, con denominazione, forma e articolazione di rappresentanza
più
larghe, può vedere accanto agli europarlamentari socialisti e
socialdemocratici anche altre componenti riformiste, progressiste e
democratiche.
Peraltro questa riflessione è già aperta in molti partiti socialisti
europei. E io stesso in queste settimane ho potuto registrare interesse
e
disponibilità a discuterne senza pregiudizi.
Nel percorso di costruzione di una lista unitaria di centrosinistra
c’è
anche un aspetto legislativo, la cui soluzione non è affidata soltanto
a
noi: ed è con quale legge elettorale si voterà alle elezioni europee.
Allo
stato attuale vige una legge elettorale di tipo proporzionale, che
evidentemente crea qualche difficoltà ad una lista unitaria nella
quale
confluirebbero partiti di consistenze elettorali diverse e espressioni
di
società che non dispongono di organizzazione elettorale.
Non è impossibile che si apra in Parlamento una possibilità di riforma
della
legge elettorale, in occasione della legge di assegnazione dei seggi
eligendi in ogni circoscrizione e di recepimento della normativa
comunitaria
sulle incompatibilità con il mandato europeo.
Noi siamo da tempo favorevoli a modifiche della legge elettorale europea,
il
cui nuovo assetto dovrà – in ogni caso – tenere conto delle opinioni e
delle
proposte delle diverse forze politiche.
Pur non essendo indifferente questo aspetto legislativo, tuttavia esso
non
può essere preclusivo del progetto elettorale e politico: mai una
norma
elettorale, di per sé, può risultare esaustiva di una progettualità
politica.
Una lista unitaria alle elezioni europee, sotto l’egida della leadership
di
Prodi – che ci auguriamo possa essere in prima persona impegnato in
questa
sfida – va perciò pensata sia per coloro che già si sentono
rappresentati
dai partiti, sia per coloro che in essi non si identificano. Una
lista
capace di ricostruire un circuito virtuoso tra partiti e paese e capace
di
parlare ai tanti che sono stati partecipi di movimenti e interloquire
con
energie, risorse, forze disponibili nella società. Non un’aggregazione
dei
moderati, bensì “riformista” incardinata sui valori di liberazione e
di
progresso, su una forte cultura di governo, e capace di contenere
anche
quelle radicalità ispirate da passione civile e impegno etico.
Una lista che – senza richiedere a nessuno di rinunciare alla propria
identità – favorisca l’incontro e la reciproca contaminazione in un
comune
progetto riformista.
Veniamo così, care compagne e cari compagni, al punto finale: il percorso
di
discussione e di decisione nel nostro partito.
Non ci può bastare una discussione negli stati maggiori. Sono il primo
a
condividere e a raccogliere la preoccupazione di quanti in questi
giorni
hanno chiesto di non rinchiudere la discussione in circoli ristretti.
Abbiamo bisogno di una discussione vera, larga, democratica in cui
ogni
posizione abbia pari dignità e così si consenta a tutte le nostre
strutture
locali e di base di manifestare la propria opinione e ai nostri iscritti
di
concorrere alle decisioni.
D’altra parte chiunque può constatare le ampie aspettative suscitate
dalla
proposta di una lista unitaria, confermate da ogni rilevazione operata
tra
cittadini ed elettori. E anche nel nostro partito quella proposta ha fin
qui
raccolto un ampio consenso, rimescolando le articolazioni interne uscite
dal
Congresso del 2001.
Naturalmente una discussione come questa non può essere una
discussione
regolata solo sulla base dei nostri tempi e delle nostre esigenze. Poiché
è
una discussione che investe la configurazione dell’alleanza, dobbiamo
stabilire una certa coerenza, tra i tempi della nostra discussione e i
tempi
della discussione dei nostri alleati.
Al tempo stesso dobbiamo anche essere consapevoli della gradualità di
un
processo che peraltro non dipende solo da nostre volontà ed è sottoposto
a
passaggi elettorali che ne verificheranno il consenso e ne determineranno
le
modalità successive.
E’ evidente che se la proposta della lista unitaria verrà approvata
dai
nostri organismi dirigenti e dai nostri iscritti, la sua decisiva
verifica
sarà data dall’esito elettorale.
Ed è altrettanto chiaro che ulteriori passi del progetto politico che
intendiamo perseguire richiederanno sedi democratiche e autorevoli di
discussione. E, in particolare, il passaggio dalla lista unitaria
alla
costruzione di un soggetto politico di tipo federativo richiederà una
discussione congressuale. D’altra parte le nostre scadenze statutarie
prevedono per l’autunno 2004 il 3° Congresso nazionale dei Ds, che sarà
la
sede per valutare l’esito delle elezioni 2004 e decidere tutte le
scelte
conseguenti.
Oggi la discussione va concentrata sul primo passaggio che sta di fronte
a
noi: la presentazione di una lista unitaria di centrosinistra alle
elezioni
europee del 13 giugno 2004.
A questi criteri di gradualità e processualità corrisponde il percorso
che
qui io vi propongo.
A partire dalla discussione di questa nostra Direzione proponiamo di
convocare, fin dai prossimi giorni, gli organismi dirigenti provinciali
e
regionali e avviare la discussione in tutte le nostre strutture di base
che
potrà così svilupparsi, da qui a fine anno, per oltre due mesi.
Un momento forte e alto di questo percorso dovrà essere la convocazione
per
il 14-15 novembre l’Assemblea congressuale – la nostra istanza dirigente
più
ampia tra un Congresso e l’altro – sottoponendo ad essa un “Manifesto per
l’
Europa” che rappresenti il nostro contributo politico-programmatico
alla
piattaforma della lista unitaria e al confronto nel centrosinistra.
E, infine, proponiamo di collocare a conclusione del percorso di
discussione
l’indizione per i giorni 16-20 dicembre di un referendum - forma di
consultazione prevista dal nostro Statuto - con cui chiamare tutti i
nostri
iscritti a pronunciarsi sulla proposta che i Ds concorrono alla
formazione
di una lista unitaria alle elezioni europee.
Vorrei su questo punto fugare ogni equivoco. Il referendum non è
sostitutivo
della discussione: nè proponiamo il plebiscito su un discorso del
Segretario
del Partito. Proponiamo un’altra cosa: un percorso di discussione
larghissimo, che culmini in uno strumento di democrazia diretta che
consenta
agli iscritti di pronunciarsi.
Il referendum è un di più, non un di meno. E proprio per questo
dobbiamo
prepararlo con il concorso di tutte le componenti del nostro partito,
definendo bene quale debba essere “il o i quesiti”, come lo si
gestisce,
come lo si organizza. Nessuno vuole inutili forzature.
So che vi è chi propone la convocazione del Congresso straordinario.
Ne
capisco lo spirito e, tuttavia, il messaggio per cui tutte le volte
che
dobbiamo prendere delle decisioni, questo partito deve sempre fare un
Congresso straordinario , viene percepito nella società in modo molto
diverso e assai meno positivo da come lo percepiamo noi.
Insomma ci serve una discussione vera e larga, che consenta a tutti – sia
a
chi condivide il progetto, sia a chi dissente, sia a chi è incerto –
di
essere parte della discussione.
Non chiedo a nessuno di rinunciare alle proprie convinzioni; chiedo a
tutti
di farle vivere, con spirito unitario, dentro al processo che
vogliamo
costruire.
In questo stesso arco di tempo dovremo aprire un ampio confronto con
la
società italiana e le sue articolazioni per rendere netto e chiaro il
profilo della sfida politica e del progetto che intendiamo
percorrere.
E naturalmente dovremo sviluppare un confronto con le altre forze
politiche
e sociali interessate al progetto per definire caratteri e contenuti
della
lista unitaria.
E contestualmente intendiamo avviare la preparazione dell’impegnativo
appuntamento elettorale amministrativo che, nel maggio 2004, precederà
le
elezioni europee.
Elezioni comunali e provinciali a cui i Ds si presenteranno con il
loro
simbolo e le loro liste, sostenendo candidati Sindaci e Presidenti di
Provincia scelti insieme a tutte le forze del centrosinistra.
E’ questa, dunque, la sfida ambiziosa che sta davanti a noi.
Una sfida che per i Ds è coerente con la storia della quale siamo
figli.
Sì, perché la svolta dell’89, la nascita del Pds, la trasformazione del
Pds
in Ds, sono stati via via pensati dentro un percorso il cui obiettivo era
ed
è la costruzione anche in Italia di una grande forza progressista e
riformista di stampo europeo.
Una forza che – tenendo conto della peculiarità italiana – faccia
incontrare
l’identità socialdemocratica di cui noi siamo portatori con le altre
identità riformiste, in primo luogo con quella che viene dal popolarismo
e
dal cattolicesimo sociale, così come con quelle che esprimono culture
laiche, democratiche e ambientaliste.
E’ una sfida che oggi i Ds possono affrontare con serenità e
sicurezza,
perché non siamo il partito smarrito e incerto di sé di due anni fa,
quando
erano in molti a chiedersi se la nostra storia e la nostra funzione
non
fossero in via di esaurimento.
In questi due anni i Ds hanno contribuito a ricostruire l’Ulivo e il
centrosinistra. Oggi godiamo di “buona salute” e, nelle recenti
elezioni
amministrative, ovunque la forza del Ds ha fatto da traino alla
vittoria
elettorale del centrosinistra; i nostri legami con la società italiana
si
sono rafforzati e ampliati; e in molte città e province una nuova
generazione di dirigenti sta prendendo nelle sue mani il partito.
Ma proprio questo è il punto. A chi chiede: “perché inseguire sfide
pericolose se abbiamo il vento a favore?” la mia risposta è perfino
ovvia.
Proprio quando si gode di buona salute si deve scommettere con più
determinazione sull’innovazione.
Certo, la sfida comporta molti rischi, che tuttavia, possono essere
affrontati e evitati proprio perché oggi siamo un partito forte e sicuro
di
sé.
Ma, soprattutto, non dobbiamo mai smarrire la funzione nazionale che
ha
contraddistinto la storia dalla quale veniamo. La nostra maggiore forza
ha
senso se diventa lievito per l’intera alleanza, per l’intero campo
del
centrosinistra. Una forza gestita in solitudine sarebbe sterile,
diventerebbe inerte.
Mettendoci a disposizione di una progetto più grande, invece,
possiamo
contribuire in maniera decisiva all’obiettivo di conquistare la
maggioranza
di consensi nel Paese, di vincere, di dare all’Italia una guida che torni
a
darle prestigio nel mondo e sia capace di corrispondere alle attese e
alle
speranze degli italiani.
Tutti avvertiamo le grandi opportunità che stanno di fronte al
centrosinistra, all’Ulivo, ai Ds.
Sta a noi vincere questa sfida.
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