giovedì 16 maggio 2013


Chi è cittadino di Roma?

di ALESSANDRO PORTELLI
Qualche giorno fa in un piuttosto farneticamente post, il blog di Casa Pound se la prendeva con Sandro Medici e i suoi sostenitori, rei di usare abusivamente il nome della Repubblica Romana. Citava la frase di Sandro Medici – “Ci batteremo per la cittadinanza universale” – e aggiungeva: “prima avrebbe fatto bene chiedere cosa ne pensano i giovani volontari caduti per difendere Roma dall’arroganza dello straniero sugli spalti del Gianicolo. O cosa direbbero Manara e i suoi bersaglieri, o i legionari italiani di Garibaldi, se sapessero che le loro cariche all’arma bianca al Vascello, contro un esercito più numeroso e meglio armato, 160 anni dopo sarebbero state vanificate da qualcuno che a nome loro avrebbe foraggiato l’introduzione dello Ius Soli”.
Non varrebbe la pena di stare a discutere con questa gente, se non fosse che echeggiano pericolosamente il senso comune di questi giorni, le aggressioni verbali e gli insulti alla ministra Kyenge, le farneticazioni leghiste di Salvini, le idiozie reazionarie di Grillo, persino le esitazioni e i freni anche da parte della maggioranza.
E allora, andiamoci davvero a guardare che cosa pensavano i fondatori della Repubblica Romana del 1849, e che cosa hanno scritto nella loro Costituzione. Cominciando dall’articolo 1: Sono cittadini della Repubblica: Gli originarii della Repubblica; Coloro che hanno acquistata la cittadinanza per effetto delle leggi precedenti; Gli altri Italiani col domicilio di sei mesi; Gli stranieri col domicilio di dieci anni; I naturalizzati con decreto del potere ” La prima riga del primo articolo dice dunque: gli “originarii” della repubblica – non dice “i figli legittimi di cittadini a loro volta originarii” (che per essere tali devono a loro volta essere figli di “originarii” e via su per le generazioni). No: i diritti non pertengono alla discendenza ma alla persona, originario e quindi cittadino è colui la cui esistenza origina nella Repubblica.
In altre parole, la prima cosa che fanno i costituenti della Repubblica Romana è precisamente di proclamare lo ius soli. Per questo dunque combattevano Garibaldi, Manara, Pisacane, Armellini e i loro compagni d’armi: un’idea aperta di cittadinanza fondata sulla persona, e in subordine sulla presenza sul luogo e sulla scelta personale. Le voci successive infatti non fanno che ribadire che la cittadinanza si acquista con la legge e con la presenza: in un’epoca in cui l’Italia ancora non esiste, prevedono termini più brevi per “gli altri italiani” ma anche la cittadinanza data agli stranieri (a tutti gli stranieri. Non importa nati dove) dopo un certo periodo, non come concessione ma come diritto – e magari anticipandola “con decreto del potere”.
A pensarci bene, né Garibaldi né Mazzini erano romani per diritto di sangue: avevano genitori nati da tutt’altra parte. Ma diventano romani perché con Roma si identificano, per Roma combattono. Proprio come nell’Italia che abbiamo in mente noi: italiani si nasce perché si nasce nel territorio della repubblica, e italiani si diventa perché in Italia si vive, si lavora e si lotta. Tutto il resto della Costituzione della Repubblica Romana è coerente con questa visione ampia e inclusiva e con la concezione aperta dei diritti: abolisce la pena di morte, la carcerazione per debiti; scioglie i diritti del cittadino dall’appartenenza o meno a una fede religiosa; proclama la libertà di associazione, di pensiero, di parola e l’inviolabilità della persona, del domicilio, della corrispondenza; vieta l’istituzione di corti o tribunali speciali (che ne dicono i fascisti del terzo millennio, nostalgici del Tribunale Speciale di regime?), e ribadisce che “i giudici nell’esercizio delle loro funzioni non dipendono da altro potere dello Stato” (che ne dicono i revisori berlusconiani che vogliono sottoporre la magistratura al potere esecutivo? A proposito: i costituenti avevano previsto anche il conflitto d’interessi: “Non può essere rappresentante del popolo un pubblico funzionario nominato dai consoli o dai ministri”).
Ma forse la cosa più radicale sta in una parola che non c’è. L’articolo 17 sancisce che “Ogni cittadino che gode i diritti civili e politici” è (a una certa età) elettore ed eleggibile. La parola mancante è “maschio”: al di là dei generi grammaticali, la Repubblica Romana non riconosce preminenza di diritti a uno specifico genere sessuale. Dovremo arrivare al secondo dopoguerra per recuperare questa visione.
Dunque quando parliamo di Repubblica Romana parliamo di questo: cittadinanza aperta e inclusiva, diritti intangibili e condivisi, libertà fra pari. Ne parla anche la Costituzione della Repubblica Italiana. Ne parla sempre meno la politica contemporanea. Ed è ora di ricominciare a parlarne.

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