Mi sono commosso, per quasi tutto il film. E non solo perché io avevo vent'anni a quei tempi, e ci ho rivisto la mia gioventù. Non solo perché sono berlingueriano ancora oggi. Non solo perché ero favorevole al compromesso storico, anche se ero un ragazzo. Mi sono commosso soprattutto perché Berlinguer è attuale. In che senso? Per quel numerino, il famoso 51%, che, come diceva il segretario del PCI, non sarebbe bastato a governare il cambiamento effettivo del paese. Un numerino che non era un numerino, ma un pensiero lungo, lunghissimo. Berlinguer temeva profeticamente che il centro politico (la DC in primis e le masse popolari che rappresentava) si saldasse al fronte di destra (comprese le forze golpiste e destabilizzanti), proprio com'era avvenuto in Cile. Un timore e una profezia che si realizzarono puntualmente con la Seconda repubblica maggioritaria, antiparlamentare, pronta a "sdoganare" la destra post-missina, con quel che ne è poi conseguito (vedi Meloni). Oggi effettivamente le forze moderate si sono saldate alla destra, e la storia è politicamente cambiata.
Berlinguer, invece, pensava in termini di "unità". Temeva le "polarizzazioni" e gli schieramenti che ambivano a fronteggiarsi radicalmente e astrattamente. In ciò aiutato dal sistema proporzionale, che non spingeva certo alle coalizioni, all'opposto di quel che accade oggi. Pensare in termini di unità, voleva dire pensare in termini costituzionali, di difesa della democrazia intesa come la partecipazione delle grandi masse e del popolo agli affari pubblici nei gangli vitali dello Stato. La sua era una visione parlamentare, di confronto istituzionale, di lenta e lunga marcia entro una società dai caratteri sempre più socialisti, senza con ciò produrre scossoni che, in quella fase storica, avrebbero voluto dire destabilizzazione.
La lezione del Cile intervenne all'interno di queste radicate convinzioni, che erano poi le medesime convinzioni politiche del "partito nuovo", e le rafforzò. Berlinguer voleva la democrazia non per opportunismo, ma perché sapeva che nessuna lunga marcia sarebbe stata possibile senza unità e partecipazione popolare, ben oltre i partiti di appartenenza. La democrazia e la libertà erano condizioni essenziali e universali per la conquista di potere ai lavoratori e alle grandi masse e per la sua difesa. Fuori di questa partecipazione c'era solo la passività di donne e uomini asserviti al consumismo, a stili di vita socialmente estranei e destinati, con ciò, anche alla sconfitta culturale. Il parlamento era il luogo proprio di questa visione, là dentro, senza la necessità di andare al governo (ossia senza l'ossessione per il governo, la vittoria, l'alternativa) si poteva imprimere al paese una svolta, mediante un dialogo istituzionale con le principali forze popolari.
I nostri avversari, che non sono stupidi, a differenza di quel che pensiamo noi, sapevano benissimo che era quello il filo conduttore della politica comunista. Per questo, nei modi che sappiamo, tentarono di recidere quel filo, quel dialogo unitario che stava prendendo timidamente corpo nel paese e nelle istituzioni. La destra, a differenza della sinistra allora molto critica, sapeva bene che il partito comunista intendeva procedere lungo una strada che prevedeva l'ingresso a pieno titolo di lavoratori, masse, organizzazioni politiche e sindacali democratiche nelle istituzioni, per realizzare da quella plancia un cambiamento di rotta. Esattamente l'opposto della sinistra storicamente successiva, quella della Seconda repubblica, che ha visto nella scorciatoia del maggioritario, nelle coalizioni polarizzate, nella "vittoria" la sera stessa del voto e nella conquista al volo di Palazzo Chigi, come l'unica leva effettiva per accedere al governo (su contenuti random, spesso estranei agli interessi popolari).
Berlinguer aveva intuito da subito la fallacia dell'astrazione politica, ossia delle alternative costruite matematicamente, a tavolino, di schieramenti allestiti contro schieramenti opposti, dell'idea che il governo potesse essere in sé l'unica chiave di volta del cambiamento, quando questa risiedeva principalmente nelle aule parlamentari e rappresentative, compresi gli enti locali, e nella partecipazione e pressione delle grandi masse. Non voleva dire che i comunisti non intendessero andare al governo, ma cambiavano i pesi, le misure, il senso stesso della partecipazione all'esecutivo: il tema del 51% appunto. Berlinguer vedeva nel confronto e nei contenuti di questo confronto (la "qualità" di cui parlo spesso) l'abbrivio di un cambiamento. Oggi, al contrario, la politica è diventata mera quantità, gestione tecnico-amministrativa, coalizione "di tutto un po'" che vuole il 51% (ma si contenta di molto meno, eh) confidando nel maggioritario, nei premi di coalizione, nei listini bloccati. Berlinguer pensava anche, coerentemente, che i partiti fossero i veri "attivisti" di questo lievito democratico e popolare: e non a caso la Seconda repubblica li ha fatti fuori, tramutandoli in combriccole di varia natura e sommergendoli nel brodo polarizzato delle coalizioni "alternative".
Berlinguer, in sostanza, confidava nella capacità di trasformazione propria di una democrazia progressiva e partecipata. Intuiva che solo il lavoro instancabile tra la gente e nelle istituzioni, il dialogo, il confronto, potessero davvero incidere e modificare i rapporti in campo, mettendo per prima cosa in sicurezza il profilo costituzionale dello Stato. Perché questo era il compromesso storico, non una proposta di alleanza di governo (i governi tecnici di oggi) ma una tutela popolare della democrazia, un rafforzamento dei confini costituzionali contro le forze golpiste, di destra e destabilizzanti, di cui si vedeva la minaccia reale. Berlinguer non credeva nella possibilità di insediarsi nel fortino governativo coi numeri contati (il 51%), e da lì scatenare la transizione al socialismo a colpi di decreti, che mezzo Paese avrebbe chiaramente avversato con le buone e soprattutto con le cattive. Il compromesso storico era invece mettere in sicurezza la Costituzione, sviluppare la democrazia, confidare in un "cordone" di forze popolari pronte a confrontarsi democraticamente sulle soluzioni scelte, ma non necessariamente tutte insediate nello stesso tempo a Palazzo Chigi, anzi. Garantendo in tal modo le conquiste raggiunte dai successivi cambi di governo, che non avrebbero rimesso in discussione quelle conquiste, ritenendole ormai la cornice sociale e politica democratica di ogni altra azione successiva di governo.
Il film racconta questo, la figura di Berlinguer simboleggia questo tentativo, poi sconfessato anche dalla sinistra della Seconda repubblica, ormai tutta nella logica governista ed extraparlamentare che sappiamo. Questo mi ha commosso, la speranza che potesse accadere altro invece del prevalere a inizi anni 90 di un conglomerato di partiti uniti nella convinzione che il maggioritario e la fine del parlamentarismo fossero le chiave della governabilità. Quando erano invece il segnale ultimo della sconfitta. Mi ha commosso quel mondo diverso che proponeva una soluzione diversa rispetto a quanto poi è, in realtà, avvenuto. Mi commuove la forza politica e morale di quel mondo, che solo i vecchi come me possono capire fino in fondo avendolo vissuto personalmente. Oggi i giovani parlano solo il lessico del maggioritario, e non intuiscono l'attualità e l'efficacia di un sistema proporzionale che riponga al centro il Parlamento e possa agevolare una rigenerazione dei partiti. D'altronde abbiamo perso, e perdere significa in primis perdere di vista la propria storia e, alla fine, persino se stessi.
Alfredo Morganti
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