E' morto il generale Francesco Delfino, "lo Squalo" dei segreti d'Italia
Sempre in prima linea nei momenti chiave della nostra storia: dalle stragi nere al terrorismo rosso. Una carriera di successi (l'arresto di Totò Riina) e di polemiche: finì in cella per i soldi sottratti durante il rapimento dell'industriale bresciano Soffiantini
DI GIANLUCA DI FEO
Si è spento nel silenzio a 78 anni, seguendo fino all'ultimo la regola aurea dei carabinieri: “Usi a morire tacendo”. Così il generale Francesco Delfinoha portato con sé i segreti di una lunghissima attività operativa, che lo ha visto in prima linea nei momenti chiave della storia italiana: dalle stragi nere al terrorismo rosso, dalla lotta alla mafia ai sequestri di persona, dalle missioni top secret nei paesi arabi ai rapporti più delicati con l'intelligence americana.
Una carriera a due facce, carica di successi e di polemiche, forse la figura più controversa nei ranghi dell'Arma: un ufficiale sempre sul campo, adorato dai suoi collaboratori e temuto dai suoi rivali, che lo chiamavano “lo Squalo”. Capace di ottenere le informazioni decisive per la cattura di Totò Riina e poi finire in cella per i soldi sottratti durante il rapimento dell'industriale bresciano Soffiantini.
Delfino era figlio di un maresciallo leggendario, che in Aspromonte era diventato il più celebre cacciatore di latitanti. È nato a Platì e la Calabria è sempre rimasta un riferimento nella sua attività. Seguendo le orme paterne, si arruola come brigadiere e poi solo in un secondo momento passa in Accademia.
I primi colpi come ufficiale li mette a segno in Sardegna, alla fine degli anni Sessanta, quando l'Anonima comincia a trasformare i sequestri rurali in un'industria: è lui ad elaborare le prime tattiche efficaci di contrasto. Poi è la volta di Brescia, dove da capitano conduce le indagini sulla strage di Piazza della Loggia: trent'anni dopo, le istruttorie sulla strategia della tensione rileggono la sua opera, con l'accusa di avere depistato e coperto i terroristi di destra. Viene rinviato a giudizio per concorso in strage e poi assolto in appello, senza che la procura faccia ricorso.
A Milano nel 1977 guida il reparto operativo, in quel momento l'unità chiave nel contrasto delle Brigate Rosse in Lombardia. Nel 1994 il primo grande pentito della ndrangheta al Nord, Saverio Morabito, sostiene che grazie ai suoi contatti calabresi Delfino in quel periodo fosse riuscito a infiltrare un giovane reggino nelle Br, proprio durante il rapimento di Aldo Moro. Ma le indagini dei pm milanesi non riescono a trovare risconti e la vicenda finisce archiviata.
Dal giugno 1978 l'ufficiale entra nel Sismi, dove resterà per nove anni. Si occupa della morte di Roberto Calvi: ha sostenuto di avere detto al premier Giovanni Spadolini che il banchiere «si ha suicidato», avvalorando la tesi dell'omicidio. Poi collabora con la cattura di Francesco Pazienza e Flavio Carboni, i faccendieri che si muovevano nella ragnatela della P2. È spesso in missione top secret, su fronti caldissimi, tra New York e il Cairo. Quando rientra nei carabinieri prende il comando del Piemonte. Ed è lì che nel 1993 incontra il mafioso Balduccio Di Maggio, arrestato a Novara, che convince a collaborare ottenendo le indicazioni decisive per la cattura a Palermo di Totò Riina.
La sua stella comincia a declinare nel 1998, quando emerge la sua trattativa parallela per la liberazione di Giuseppe Soffiantini, un imprenditore bresciano che conosceva da anni. Il generale si è fatto consegnare 800 milioni di lire dalla famiglia per arrivare ai rapitori sardi. Viene arrestato e condannato per truffa aggravata, l'Arma lo sospende dal servizio. Il congedo con il grado di generale di brigata arriva prima della Cassazione.
Delfino ha sempre lasciato intendere di essere a conoscenza di grandi segreti. In merito agli infiltrati nelle Brigate Rosse, rispose «Non ero io ad averne». E nel suo volume “La verità di un generale scomodo” ha paventato l'esistenza di un Grande Vecchio, un burattinaio delle trame italiane, citando episodi che vanno dalla morte di Moro alla strage della questura di Milano, con un'allusione al ruolo degli americani, dei sovietici e di Israele. Di sicuro, è stato un protagonista degli anni della Guerra Fredda, combattuta nel nostro Paese seguendo logiche che spesso violavano il codice penale. Una ragione di Stato servita per giustificare anche crimini orrendi. Rimasti ancora oggi senza responsabili.
http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/09/02/news/e-morto-il-generale-carlo-delfino-lo-squalo-dei-segreti-d-italia-1.178488
Si è spento nel silenzio a 78 anni, seguendo fino all'ultimo la regola aurea dei carabinieri: “Usi a morire tacendo”. Così il generale Francesco Delfinoha portato con sé i segreti di una lunghissima attività operativa, che lo ha visto in prima linea nei momenti chiave della storia italiana: dalle stragi nere al terrorismo rosso, dalla lotta alla mafia ai sequestri di persona, dalle missioni top secret nei paesi arabi ai rapporti più delicati con l'intelligence americana.
Una carriera a due facce, carica di successi e di polemiche, forse la figura più controversa nei ranghi dell'Arma: un ufficiale sempre sul campo, adorato dai suoi collaboratori e temuto dai suoi rivali, che lo chiamavano “lo Squalo”. Capace di ottenere le informazioni decisive per la cattura di Totò Riina e poi finire in cella per i soldi sottratti durante il rapimento dell'industriale bresciano Soffiantini.
Delfino era figlio di un maresciallo leggendario, che in Aspromonte era diventato il più celebre cacciatore di latitanti. È nato a Platì e la Calabria è sempre rimasta un riferimento nella sua attività. Seguendo le orme paterne, si arruola come brigadiere e poi solo in un secondo momento passa in Accademia.
I primi colpi come ufficiale li mette a segno in Sardegna, alla fine degli anni Sessanta, quando l'Anonima comincia a trasformare i sequestri rurali in un'industria: è lui ad elaborare le prime tattiche efficaci di contrasto. Poi è la volta di Brescia, dove da capitano conduce le indagini sulla strage di Piazza della Loggia: trent'anni dopo, le istruttorie sulla strategia della tensione rileggono la sua opera, con l'accusa di avere depistato e coperto i terroristi di destra. Viene rinviato a giudizio per concorso in strage e poi assolto in appello, senza che la procura faccia ricorso.
A Milano nel 1977 guida il reparto operativo, in quel momento l'unità chiave nel contrasto delle Brigate Rosse in Lombardia. Nel 1994 il primo grande pentito della ndrangheta al Nord, Saverio Morabito, sostiene che grazie ai suoi contatti calabresi Delfino in quel periodo fosse riuscito a infiltrare un giovane reggino nelle Br, proprio durante il rapimento di Aldo Moro. Ma le indagini dei pm milanesi non riescono a trovare risconti e la vicenda finisce archiviata.
Dal giugno 1978 l'ufficiale entra nel Sismi, dove resterà per nove anni. Si occupa della morte di Roberto Calvi: ha sostenuto di avere detto al premier Giovanni Spadolini che il banchiere «si ha suicidato», avvalorando la tesi dell'omicidio. Poi collabora con la cattura di Francesco Pazienza e Flavio Carboni, i faccendieri che si muovevano nella ragnatela della P2. È spesso in missione top secret, su fronti caldissimi, tra New York e il Cairo. Quando rientra nei carabinieri prende il comando del Piemonte. Ed è lì che nel 1993 incontra il mafioso Balduccio Di Maggio, arrestato a Novara, che convince a collaborare ottenendo le indicazioni decisive per la cattura a Palermo di Totò Riina.
La sua stella comincia a declinare nel 1998, quando emerge la sua trattativa parallela per la liberazione di Giuseppe Soffiantini, un imprenditore bresciano che conosceva da anni. Il generale si è fatto consegnare 800 milioni di lire dalla famiglia per arrivare ai rapitori sardi. Viene arrestato e condannato per truffa aggravata, l'Arma lo sospende dal servizio. Il congedo con il grado di generale di brigata arriva prima della Cassazione.
Delfino ha sempre lasciato intendere di essere a conoscenza di grandi segreti. In merito agli infiltrati nelle Brigate Rosse, rispose «Non ero io ad averne». E nel suo volume “La verità di un generale scomodo” ha paventato l'esistenza di un Grande Vecchio, un burattinaio delle trame italiane, citando episodi che vanno dalla morte di Moro alla strage della questura di Milano, con un'allusione al ruolo degli americani, dei sovietici e di Israele. Di sicuro, è stato un protagonista degli anni della Guerra Fredda, combattuta nel nostro Paese seguendo logiche che spesso violavano il codice penale. Una ragione di Stato servita per giustificare anche crimini orrendi. Rimasti ancora oggi senza responsabili.
http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/09/02/news/e-morto-il-generale-carlo-delfino-lo-squalo-dei-segreti-d-italia-1.178488
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