lunedì 10 marzo 2014

Proprietà collettive e territori

“Se è vero, come è vero, che la ‘proprietà collettiva’ prevista dalla Costituzione ‘prevale’ su quella privata e quest’ultima è storicamente ‘derivata’ dalla prima, si deve necessariamente ammettere – spiega Paolo Maddalena, vicepresidente onorario della Corte costituzionale – che la Costituzione ha operato un ‘capovolgimento’ delle tradizionali concezioni borghesi e neocapitalistiche sulla proprietà. E’ questa che costituisce un ‘limite alla proprietà collettiva’ e all’interesse pubblico e non viceversa. Continuare a parlare di ‘limiti alla proprietà privata’ è, dunque, un anacronismo”. Quanto invece al concetto di “territorio” occorre ribadire che si tratta di “un ‘bene comune unitario’, formato da ‘più beni comuni’, in ‘appartenenza’ comune e collettiva. (…) Oggi possiamo considerare il territorio, non solo come una entità materiale comprendente il suolo, il sottosuolo e tutto ciò che è sul soprassuolo, compreso i beni artistici e storici creati dall’uomo, ma anche entità immateriali e le stesse attività umane che sul territorio si svolgono”. Il territorio, la proprietà collettiva, la crisi finanziaria: un importante contributo alla teoria dei beni comuni
1053232_415940495186893_1310502192_oFoto: il muro del Teatro Pinelli occupato di Messina (prima dello sgombero dei giorni scorsi)
di Paolo Maddalena
Un contributo alla riflessione sui beni comuni e sulla loro legittimità del vicepresidente onorario della Corte costituzionale e coautore della Legge Galasso. Il testo, pubblicato da Eddyburg (dove è disponibile la versione completa, note incluse), è la relazione al convegno “Regole per il buon governo. La riforma della legge regionale toscana sul governo del territorio” promosso a Firenze in novembre e per la relazione al convegno “Il governo del territorio nelle Marche: quali cambiamenti?”, ospitato invece a Fermo in dicembre.
1. – La cosiddetta “crisi economico finanziaria”
Si parla impropriamente di “crisi economico finanziaria”, come una delle crisi cicliche dell’economia, dopo le quali torna il sereno. E’ questa la prima grande “falsità” che il “pensiero unico dominante del neoliberismo economico” fa credere al popolo italiano come una “verità” indiscutibile. Questa non è assolutamente una solita crisi economica ricorrente, è una “crisi economica finanziaria di sistema”, nella quale sono venuti a trovarsi in una situazione fortemente svantaggiata l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda, specialmente dopo l’attacco del novembre 2011, sferrato dalla speculazione finanziaria contro il loro debito pubblico.
I Paesi del sud Europa si trovano ora stretti da una tenaglia, che vede da un lato la corrosione continua della propria economia da parte della speculazione finanziaria e dall’altro la politica di austerity imposta dalla Germania. (…)
Il dato fondamentale[1] consiste nel fatto che la “speculazione finanziaria”, la principale artefice di questo immane disastro mondiale, ha cessato di finanziare opere di investimento produttivo, che danno luogo a occupazione, ed ha preferito, per brama di guadagno immediato, comprare debiti, giocando in borsa con questi, quasi fossero valori economici positivi, ed investendo nei medesimi, dando così luogo, non a produzione di beni reali, ma a “raschiamento” della ricchezza esistente, ponendo in essere, per giunta, anche operazioni ad alto rischio, foriere di default,. E ben presto sono improvvisamente precipitate in una situazione fallimentare numerose banche americane ed europee, con la conseguenza, davvero insolita, che, essendo state giudicate “troppo grandi per fallire”[2] sono state poi salvate con interventi statali, quasi fossero banche in proprietà statale e non banche private, riversandosi così gli effetti del fallimento su ignari cittadini. E’ il caso della Goldman Sachs e della Morghen Stanley americane, dell’Ubi svizzera e del Monte dei paschi italiana. Raramente, ed invero anche inspiegabilmente, qualche banca è stata lasciata fallire, come nel caso della Lehman Brothers americana[3]. (…)
Alla radice di tutto c’è un incredibile salto logico: quello di far credere che il “debito” è un “diritto di credito” sicuro, mentre, in realtà, il debito, per ragioni soggettive del debitore, ovvero per il dato oggettivo di un mutamento dei prezzi dei beni dati in garanzia (come è avvenuto per subprime americani, parametrati sul valore delle costruzioni per civili abitazioni, i cui prezzi sono crollati precipitosamente per l’eccesso di offerta), non è affatto “un bene sicuro”, ma un bene, se così lo si vuole chiamare, fortemente “aleatorio”.
E vediamo come le banche “creano danaro dal nulla”. Sin dal medio evo[4], come è noto, le banche prestavano danaro senza intaccare i depositi di beni reali, quali gioielli, monete d’oro, arredi preziosi, e per un valore nettamente superiore all’insieme di questi beni avuti in custodia, nella certezza che i creditori non accorressero tutti nello stesso momento per ritirare i loro depositi. Questo antico principio è stato sempre seguito fino a non molto tempo fa dalle nostre “banche commerciali”, la cui funzione era quella di raccogliere i risparmi e concedere prestiti per produrre beni reali. Un sistema, come si nota, positivo, poiché permette a chi intende intraprendere un’attività produttiva di creare beni e servizi, e quindi maggiore ricchezza, e di restituire regolarmente la somma avuta in prestito.
Sennonché, a cominciare dagli anni ottanta del novecento gli speculatori finanziari hanno avuto un colpo di genio: quello di trasformare i “crediti”, che poi vuol dire i “debiti”, in “titoli commerciabili”, soggetti a valutazione di borsa, e quindi a “creare danaro dal nulla”, come si diceva “danaro dall’aria fina”.
Ben presto questa prassi ha invaso l’intero occidente. Ma, in Italia, essa è venuta a trovarsi in contrasto con la disciplina codicistica dei titoli di credito (di cui agli artt. 2008, 2011 e 2021 del codice civile), la quale, come si legge nella Relazione al Re del Ministro guardasigilli per l’approvazione del testo del codice civile del 1942[5], evitò con cura che i “titoli al portatore” potessero “usurpare la funzione della carta moneta, la cui emissione non può essere lasciata all’arbitrio dei singoli”. Sta di fatto, comunque, che questo fondamentale potere dello Stato di coniare moneta è presto finito nelle mani di banche private. “Per l’Unione Europea si stima oggi che oltre il 90 per cento della massa monetaria presente nell’economia sia stato creato dalle banche. Meno del 10 per cento è creato dalla BCE, di cui una frazione non superiore al 2-3 per cento sotto forma di monete e banconote. Il resto viene largamente impiegato al fine di sostenere con il danaro legale da essa emesso la creazione di danaro bancario o danaro-credito da parte di enti privati, cioè da banche commerciali”[6].
L’Italia, allora non ha saputo far di meglio che adeguarsi a questa prassi, propria degli ordinamenti di common law, legittimando la violazione palese di un principio fondamentale del nostro codice civile, con le disposizioni della legge 30 aprile 1999, n. 130, sulle “cartolarizzazioni”. Questa legge legittima “le operazioni di cartolarizzazione realizzate mediante cessione a titolo oneroso di crediti pecuniari, sia esistenti, sia futuri, individuabili in blocco se si tratta di una pluralità di crediti”.
Dunque, derivati, derivati dal credito ed altri simili “prodotti finanziari”, hanno avuto diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento positivo. (…)
Questa complessa articolazione del sistema bancario mondiale, come agevolmente si nota, ha aumentato oltre il “sostenibile” il “rischio” di insolvenza, scaricando, però i relativi danni, non sulle banche, ma sulla collettività. (…)
2. – “L’antisovrano”.
Ed è proprio in questo preciso ordine di idee che si inserisce, sul piano del diritto, il fondamentale contributo scientifico di un laico, Massimo Luciani, il quale, per sussumere in un solo concetto i fenomeni di cui parliamo, si è riferito alla figura “dell’antisovrano”, e cioè di “un quid che in tutto e per tutto si contrappone al sovrano da noi tradizionalmente conosciuto. “Non è un soggetto (ma semmai una pluralità di soggetti); non dichiara la propria aspirazione all’assoluta discrezionalità nell’esercizio del proprio potere (cerca anzi di presentare le proprie decisioni come logiche deduzioni da leggi generali oggettive, quali pretendono di essere quelle dell’economia e dello sviluppo); non reclama una legittimazione trascendente (che sia la volontà di Dio oppure l’idea dell’eguaglianza degli uomini), ma immanente (gli interessi dell’economia e dello sviluppo, appunto); non pretende di ordinare un gruppo sociale dotato almeno di un minimum di omogeneità (il popolo di una nazione), ma una pluralità indistinta, anzi la totalità dei gruppi sociali (tutti i popoli di tutto il mondo che ritiene meritevole di interesse); non vuole essere l’espressione di una volontà di eguali formata dal basso (si tratta infatti di un insieme di strutture sostanzialmente e talora formalmente organizzata su base timocratica)…. L’antisovrano si arroga un potere senza averne il legittimo titolo…. è detentore di un potere che aspira ad essere universale, ed è l’agente che determina la crisi del mondo come l’abbiamo fino ad oggi conosciuto. Un antisovrano, dunque, dal punto di vista concettuale, ma inevitabilmente anche dal punto di vista pratico, perché l’affermazione del suo potere presuppone proprio che l’antico sovrano nazionale sia annichilito”[14].
Essenziale è l’affermazione secondo la quale l’antisovrano “si arroga un potere senza avere un legittimo titolo….e che aspira ad essere universale”.
Dunque, il problema che ci si pone è se si vuole restare soggetti ad un potere che non ha titolo giuridico per esistere, ovvero si vuol fare valere la forza del diritto contro la sopraffazione bruta del danaro. E la nostra Costituzione, come si diceva, offre dei capisaldi importantissimi per far valere il diritto e l’equità.
Limitandoci a ciò che può fare l’Italia, appare evidente che è da eliminare innanzitutto l’estrema anomalia di sistema prodotta dalla citata legge n. 130 del 1999. Si tratta di una legge palesemente incostituzionale sotto vari profili. Innanzitutto essa contrasta con il principio della “stabilità dell’economia”, di cui è espressione il riferimento “all’unità ed alla indivisibilità della Repubblica” (art. 5 Cost.), nonché il riferimento “all’unità giuridica ed economica” della Nazione, di cui all’art. 120 Cost. Ma soprattutto si tratta di una legge che incredibilmente tende a “deprimere” la salvaguardia del “valore costituzionale del lavoro”, considerato che, come si è visto, l’instabilità economica si riflette ineluttabilmente sul lavoro delle imprese e, quindi, “sull’occupazione”. In questa prospettiva, le violazioni costituzionali sono davvero enormi. (…)
3. – Illegittimità della speculazione finanziaria.
Superata questa prima difficoltà, resta da dimostrare quanto l’azione dell’antisovrano contrasti con la nostra Costituzione repubblicana e con i Trattati europei. A ben vedere, in contrasto con la Costituzione sono, non solo il regime delle “cartolarizzazioni”, ma l’insieme delle “transazioni finanziarie speculative”, che, mirando, non a produrre, ma a raschiare la ricchezza esistente in proprietà collettiva della Comunità nazionale, hanno certamente una finalità illecita e sono dunque “nulle per illiceità della causa”. E tutto questo a prescindere dalle eventuali illiceità penali scaturenti dagli accordi tra più speculatori finanziari, come prevede l’art. 501 del vigente codice penale. Ne consegue che da negoziazioni prive di valore giuridico non possono scaturire validi “giudizi di mercato”, in base ai quali si stabiliscono i “prezzi di mercato”. E, date queste premesse, appare del tutto evidente che anche i cosiddetti “spread” non sono affatto attendibili. (…) Allo stato attuale, non dovrebbero esserci dubbi sulla necessità di “disconoscere” la validità giuridica delle transazioni speculative, dei cosiddetti giudizi di mercato e, in particolare, degli spread. (…)
4. – I rapporti con l’Europa.
Come si è accennato, problema gravissimo è quello relativo alla “posizione dominante” nella quale, ad opera degli speculatori finanziari (la cui azione, come si è visto, è del tutto inattendibile) è venuta a trovarsi la Germania, la quale insiste nella sua politica di austerity.
Anche qui la situazione che si è creata è del tutto in contrasto con quanto dispongono i Trattati, la nostra Costituzione, le Costituzioni degli Stati europei ed il diritto internazionale consuetudinario e pattizio (Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, divenuto esecutivo nel 1976)[15].
A ben vedere l’insistenza della Germania nella politica di austerity configura una palese violazione dell’art. 82 del Trattato, il quale sancisce l’incompatibilità con il mercato comune dello “sfruttamento abusivo della posizione dominante”. (…)
5. – Gli errori della cultura borghese e della teoria neoliberista.
A questo punto, restringendo l’analisi all’aspetto puramente giuridico riguardante il nostro Paese, balzano in primo piano due fondamentali “errori”, diffusi tra gli studiosi, ma anche nell’immaginario collettivo, dalla cultura borghese e dall’imperante teoria neoliberista. Si tratta, da un lato della nozione dello Stato, come “Persona giuridica” e dall’altro della proclamata esistenza di un solo tipo di “proprietà”, là dove esistono due tipi di proprietà: quella “collettiva”, fondata sulla “sovranità popolare”, e quella “privata”, la quale ha per fondamento la “legge”, cioè una manifestazione di volontà del popolo. E la proprietà collettiva, sia ben chiaro, ha una “precedenza storica”, come dimostra la storia del diritto, ed una “prevalenza giuridica”, come dimostra la nostra Costituzione, specialmente a proposito della disciplina della proprietà privata. Infatti, talune disposizioni costituzionali, come meglio vedremo in seguito, “subordinano” la tutela giuridica della proprietà privata all’interesse pubblico e allo “scopo della funzione sociale”.
6. – Il concetto di “Stato persona” e di “Stato comunità”
E veniamo innanzitutto al concetto di “Stato”, che da più parti si ritiene superato ed in via di estinzione, là dove una indagine sulle fonti del diritto dimostra invece che la fonte principale di questo risiede sempre nella “sovranità” degli Stati, come dimostra a tacer d’altro, proprio l’organizzazione dell‘Unione Europea, che nasce dai “trattati” stipulati dagli Stati membri e vede la sua più alta Istituzione nel “Consiglio”, che ha il più ampio potere normativo, e che ha la natura di un “Organo di Stati”. I quali, fondando tutto sulla propria “sovranità”, stabiliscono quale sia la decisione da prendere nell’interesse della Comunità stessa.
D’altro canto, se si guarda alla nostra Costituzione, si scopre agevolmente che il nostro non è affatto uno “Stato persona giuridica”, come affermava lo Statuto albertino, ma uno “Stato comunità”, che è costituito dai “cittadini sovrani”. In questa visuale, che tarda ad affermarsi persino tra gli studiosi di diritto, lo “Stato persona” è solo la “Pubblica Amministrazione”, la quale, come da tempo ha dimostrato il Sandulli[18], è semplicemente un “organo” dello Stato comunità.
E, per capire l’essenza dello “Stato comunità”, ed in genere della “Comunità politica”, è indispensabile rivolgersi alla storia. Ed, in particolare, alla storia della Costituzione romana[19]. Infatti, fu la Respublica romana, che era costituita dal “Senatus Populusque Romanus”, il primo chiaro esempio di “Stato comunità”, o, se si preferisce, di “Comunità politica”. Ed il dato più importante che emerge dall’analisi storica è che la nascita di questo tipo di Stato si fonda su due concetti chiave (dei quali forse si è persa memoria): quello di “confine” e quello del “rapporto tutto parte”.
E’ innegabile, infatti, che la nascita della “Civitas romana”, e cioè della “Comunità politica di Roma” coincise con la “confinazione”, il fines regere della tradizione[20], con la quale Romolo, o chi per lui, distinse il terreno sul quale doveva sorgere l’urbs dai terreni circostanti, trasformando il terreno confinato in un “territorio”, dal latino “terrae torus”, “letto di terra”, il cui fine fu quello di ospitare l’aggregato umano che su di esso si insediava, prendendo il nome di “populus” (che significa “cittadini in armi”). Nello stesso momento, sorse anche la necessità di “confinare”, e cioè limitare la libertà dei singoli per rendere possibile la convivenza civile, attribuendo al popolo la “sovranità”, cioè la somma dei poteri necessari a perseguire questo fine. Insomma, tracciando il solco di Roma, Romolo dette luogo al nascere di tre elementi: il “territorio”, il “popolo” e la “sovranità”, dalla quale scaturì l’ordinamento giuridico. Ed è da sottolineare che, attraverso la “confinazione”, si dette luogo anche alla nascita del “primordiale rapporto giuridico di appartenenza”, quello della “proprietà collettiva del territorio”. Un rapporto che, come dimostra la stessa indagine filologica del termine (terrae torus), non fu affatto un rapporto di “dominio pieno ed esclusivo”, ma un rapporto quasi personale di appartenenza, come quello che normalmente si instaura tra un individuo ed il proprio letto. (…)
7. – La “precedenza storica” della proprietà collettiva sulla proprietà privata.
Venendo al tema della “proprietà”, il dato più importante è costituito dal fatto che a Roma la “proprietà collettiva”, che spettava al popolo a titolo di “sovranità”, “precedette” di ben sette secoli la proprietà privata, individuabile nel concetto di “dominium ex iure Quiritium”, nato, dopo una tormentata elaborazione della giurisprudenza, alla fine del II secolo a. C.[24], o addirittura agli albori del primo secolo a.C. (…) Dunque, come si diceva, la proprietà privata derivò dalla proprietà comune e collettiva del popolo, fu una “cessione” a privati di parti del territorio in proprietà al popolo, mentre taluni beni, come l’ager compascuus, venivano “riservati” all’uso comune di tutti, mantenendo il carattere di “appartenenza sovrana al popolo”. Ed è da sottolineare in proposito che la giurisprudenza classica trovò un sistema ineguagliabile per tutelare l’uso comune dei beni riservati al popolo: li definì “res extra commercium” (ciò che è di tutti non può essere dato ad alcuno), a differenza dei beni privati, definiti “in commercio”[25].
8. – La “prevalenza giuridico costituzionale” della proprietà collettiva sulla proprietà privata.
Alla “precedenza storica” della proprietà collettiva sulla proprietà privata, si accompagna, sul piano della vigente Costituzione repubblicana” la “prevalenza costituzionale e giuridica” della prima sulla seconda. Lo chiarisce l’art. 42 della Costituzione, secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta dalla legge….allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, sancendo la “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, e prevedendo che quest’ultimo è giuridicamente tutelato soltanto se ed in quanto “assicura” “lo scopo” della “funzione sociale”, rende cioè tutti partecipi dei benefici che provengono dalle attività produttive.
Il principio della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato è ribadito, inoltre, dall’art. 41 della Costituzione, riguardante “l’iniziativa economica privata” e cioè l’attività negoziale che il proprietario pone in essere per disporre della proprietà privata, e cioè per acquisire o vendere la proprietà dei beni economici.
Si legge in detto articolo che “L’iniziativa economica privata è libera”. “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Come si nota, alla “funzione sociale” dell’art. 42 Cost., fa riscontro “l’utilità sociale”, di cui al precedente art. 41 Cost.
Ma non è tutto. Questa “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, va coniugata con la “distinzione” tra “proprietà pubblica” e “proprietà privata”, di cui al primo alinea del citato art. 42 Cost., secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata”. (…)
Alla fine di questo discorso emerge un’indiscutibile verità. Se è vero, come è vero, che la “proprietà collettiva” “prevale” su quella privata e quest’ultima è storicamente “derivata” dalla prima, si deve necessariamente ammettere che la Costituzione ha operato un “capovolgimento” delle tradizionali concezioni borghesi e neocapitalistiche sulla proprietà. E’ questa che costituisce un “limite alla proprietà collettiva” ed all’interesse pubblico e non viceversa. Continuare a parlare di “limiti alla proprietà privata” è, dunque, un anacronismo: occorrerebbe parlare soltanto di “disciplina giuridica” della proprietà privata, avendo questa perso, nella visuale costituzionale, quel carattere di “inviolabilità”, e quindi di “preesistenza” rispetto all’ordinamento giuridico, che le assicurava lo Statuto albertino. Inviolabile è la “proprietà collettiva demaniale”, in quanto fondata sulla “sovranità”, non la “proprietà privata”, che in tanto esiste, in quanto è garantita e disciplinata dalla “legge”.
9. – Il cosiddetto “ius aedificandi”.
Sul piano pratico, c’è una importantisima conseguenza da sottolineare. Se la “proprietà collettiva” “prevale” su quella privata, ed il contenuto della proprietà privata è soltanto quello previsto dalla “legge”, davvero non c’è più alcuna possibilità di riconoscere il “ius aedificandi”, come insito nel diritto di proprietà privata. Il diritto di edificare è rimasto nei “poteri sovrani del popolo”, rientra cioè nei contenuti della proprietà collettiva del territorio e non risulta affatto “ceduto” a privati con la “cessione” di parti del territorio a singoli cittadini.
Quando ci lamentiamo degli scempi paesaggistici, della cementificazione, delle distruzioni della natura non possiamo limitarci alla “denuncia”: è un nostro “diritto di proprietà collettiva” che è stato leso, e questo diritto è ben più grande e più tutelato del diritto di proprietà privata. (…)
10. – Il concetto di “territorio”.
Abbiamo sinora parlato più volte di “territorio” ed è evidente che, a questo punto si rende necessaria, prima di procedere oltre, ad una sua definizione. Come si è visto, per i Romani, e da un punto di vista puramente materiale, il territorio è una “porzione di terra”, confinata dai terreni circostanti. L’idea si è puntualmente trasferita in epoca moderna, sennonché i diffusi inquinamenti dell’aria, delle acque e del suolo consigliano di considerare la terra in una visuale più completa e cioè come “ambiente”, meglio si direbbe, come ha affermato la Corte costituzionale, come “biosfera”[28], in modo da far rientrare in questo concetto, oltre il suolo ed il sottosuolo, tutto ciò che esiste sul soprassuolo, e cioè l’atmosfera, le acque, la vegetazione e le stesse opere ed attività dell’uomo.
Ciò che deve essere innanzitutto sottolineato è che il territorio è un “bene comune unitario”, formato da “più beni comuni”, in “appartenenza” comune e collettiva. (…) D’altro canto, occorre tener presente che oggi esistono tutte le premesse per considerare il territorio, non solo come una entità materiale comprendente il suolo, il sottosuolo e tutto ciò che è sul soprassuolo, compreso i beni artistici e storici creati dall’uomo, come diffusamente, e giustamente, si ritiene, ma ci si può spingere più avanti facendo rientrare nel concetto di territorio anche entità immateriali e le stesse attività umane che sul territorio si svolgono. In ultima analisi, tutti quegli elementi che determinano il modo di vivere, ed in ultima analisi il tenore di vita, del popolo che quel territorio abita. Si pensi alle opere dell’ingegno: alle invenzioni, tutelate con i brevetti, o alle opere letterarie, tutelate dal diritto di autore; o alle conoscenze ed ai saperi rinvenibili sul web. E si pensi, in estrema sintesi, alla “cultura”[29], non solo quella degli intellettuali, ma anche quella popolare[30], e, quindi, al complesso di idee che guidano le azioni degli individui e delle Nazioni nella vita di tutti i giorni. E si pensi soprattutto all’influenza che hanno sul territorio le istituzioni della comunità politica, e cioè alla forma di Stato ed al relativo “ordinamento giuridico”, nonché alla forza spesso sconvolgente che esercitano sul territorio l’economia, la finanza, i mercati.
Il “territorio”, in altri termini, appare come uno “spazio di libertà” entro il quale trovano possibilità di svolgimento le capacità ed i caratteri dei singoli e della collettività considerata nel suo insieme, considerata soprattutto in quelle specificità culturali che caratterizzano un popolo, e che si estrinsecano, come si diceva, nella cultura e in ciò che da questa deriva.
Ne consegue che l’odierna cosiddetta “globalizzazione” non può e non deve prescindere dalla distinzione dell’intera superficie terrestre in vari “territori”, intesi come luoghi nei quali si esplicano le specifiche caratteristiche dei diversi “popoli”. (…)
11. – Lo sviluppo economico nella “dinamica costituzionale”.
E veniamo a quella che abbiamo denominato la “dinamica costituzionale”, e cioè all’insieme delle disposizioni che la nostra vigente Costituzione repubblicana prevede per lo “sviluppo economico” della nostra società. Ed al riguardo è importante precisare che la nostra Costituzione parte dall’idea di comune esperienza secondo cui la ricchezza proviene da “due fattori”: “le risorse della terra” ed “il lavoro dell’uomo”. Infatti “due sono gli obiettivi” che la stessa si propone di raggiungere: a) “tutelare il territorio”; b) “proteggere il lavoro”. Ed è molto significativo, in proposito, il fatto che il Titolo III, Parte prima, della Costituzione, dedicato ai “Rapporti economici”, è in pratica dedicato, sia alla tutela del territorio, sia alla tutela del lavoro. In particolare parlano del territorio l’art. 42, primo comma, secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti e a privati”, nonché l’art. 44, primo alinea, secondo il quale occorre “conseguire il razionale sfruttamento del suolo”. Parlano invece di lavoro, l’art. 35, secondo il quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, l’art. 36, secondo il quale “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente a assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, nonché l’art. 38, importante per l’affermazione di principio secondo cui tutti devono lavorare, ed è esentato da questo dovere soltanto “il cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, per il quale è previsto il “diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale”. (…) Insomma, il principio è che le imprese strategiche debbono essere in mano pubblica e che non è accettabile rimettere alla speculazione privata la produzione di beni e servizi primari per la vita del Paese.
Questo punto essenziale è stato travolto dalle numerose e dannosissime “privatizzazioni”, che hanno privato l’Italia, in breve periodo, del 50 per cento delle imprese, sospingendola verso una irrimediabile miseria, propedeutica ad un finale ed irreparabile disastro economico e sociale.
Altro punto strategico proprio della nostra “dinamica costituzionale” consiste nell’aver “separato” la piccola e media proprietà, come la proprietà coltivatrice diretta e la proprietà della prima casa (artt. 44 e 47 Cost.), dalla proprietà la cui produzione eccede le strette esigenze di vita e sono in grado di far crescere la “produzione nazionale”. Per questo tipo di proprietà, come si è già accennato, la stessa tutela giuridica è condizionata all’assolvimento della “funzione sociale”, cioè all’obbligo di dar spazio all’ “occupazione” ed alla “produzione” di beni che possano soddisfare i bisogni di tutti. Quest’obbligo è sancito in modo espresso e con piena “precettività” dal citato art. 42 Cost., (…)
C’è poi un ultimo punto molto importante da tener presente nell’analisi di questa “dinamica costituzionale”: è la “partecipazione” del cittadino alla “funzione amministrativa” normalmente affidata alla pubblica amministrazione. Infatti, come è noto, mentre la funzione legislativa è riservata al Parlamento e quella giudiziaria è riservata all’Autorità giudiziaria, la funzione amministrativa non è riservata alla P. A., ma condivisa da questa, con enti e con soggetti privati.
La disposizione principe in proposito è quella dell’art. 3, comma secondo, Cost., secondo il quale è compito della Repubblica assicurare “l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E “partecipare” alla ”organizzazione”, in termini giuridici, vuol dire proprio partecipare all’azione amministrativa dei pubblici poteri. E parlare di “lavoratori” vuol dire parlare di tutti i cittadini, poiché, come si è visto, per la Costituzione non esistono i “fannulloni”: o si ha la capacità di lavorare e si “deve” lavorare, o si è “inabili al lavoro” ed allora si ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale  (…)
12. – Conclusione.
Salvare il territorio e salvare il lavoro di tutti, in ultima analisi, richiede, secondo la Costituzione, l’intervento di tutti. Ed è evidente che è in nostro potere salvare innanzitutto il nostro “territorio”, e cioè “le risorse” che la Terra, la “iustissima tellus”, abbondantemente ci offre.
Uno, dunque, è l’imperativo categorico che si impone per vincere la cosiddetta crisi finanziaria: “tornare alla terra”. Alla “nostra terra”, che è ricchissima di caratteristiche particolari, come la bellezza del paesaggio e la feracità dei suoi terreni coltivabili. Tornare alla Terra, tra l’altro, significa anche far rivivere le caratteristiche proprie del nostro popolo, universalmente riconosciute nella “creatività” e nel “culto della bellezza”, vuol dire anche impegnarsi nella ricerca, nella cultura e nelle attività produttive di beni reali.
Dunque, una volta assicurate in mano nostra le cosiddette “industrie strategiche”, occorre dedicarsi all’agricoltura, all’artigianato (protetto dal comma secondo dell’art. 45 Cost.), al turismo, e, come si diceva, cominciare da una grande opera pubblica di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico della nostra Italia. In tal modo potremo vincere anche la pervicace speculazione finanziaria internazionale, e saremo in grado di tornare al “mercato reale”, rendendo produttivo il nostro impareggiabile territorio nazionale.

http://comune-info.net/2014/01/il-territorio/

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