MASADA 1520 LA GRANDE BELLEZZA
MASADA n° 1520 6-3-2014 LA GRANDE
BELLEZZA- UN TRASH DI BERLUSCONI
Blog di Viviana Vivarelli
Critiche contrastanti - Gli eterni inciuci italiani
sottostanti il film – Sergio Cori di Modigliani: un prodotto Pd-Pdl-Lega– I
monopoli nel cinema come nella musica – Pochi plutocrati
distruggono l’arte italiana: la grande ipocrisia - In Italia si vince solo
attraverso il Pd o Berlusconi – Come i partiti distruggono quello che era il
Paese più produttivo di arte del mondo - Un premio alla volgarità e allo
strapotere – Un film imposto come moda per motivi politici – ‘La grande
vuotezza,’ di Travaglio- Siamo persi- Il monopolio delle etichette
musicali
(Jep Gambardella)
“Le vedi queste persone? Questa fauna? Questa è la
mia vita. E non è niente.”
"La più sorprendente scoperta
che ho fatto subito dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più
perdere tempo a fare cose che non mi va di fare!"
"È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il
rumore, il silenzio e il sentimento, l'emozione e la paura… Gli sparuti
incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l'uomo
miserabile."
"Sull'orlo della disperazione, non ci resta che farci
compagnia, prenderci un po' in giro!"
"Diamo sempre il meglio di noi agli
sconosciuti”.
Tutti parlano di questo film che ha vinto l’Oscar al
festival di Cannes, come migliore film straniero (più altri premi), perché ‘La
grande bellezza’ è stata prodotta da Berlusconi e Canale 5 l'ha mandato
gratuitamente in televisione, perché Berlusconi facesse la ruota e si rifacesse
una nomea di gran manager. E’ un film di Mediaset che ha avuto una enorme
pubblicità e un boom di ascolti in tv, 9 milioni, più del 36%, diventando
il film più visto degli ultimi dieci anni sulla televisione
italiana. Sia
nella critica che nel pubblico i giudizi si sono spaccati tra coloro che lo
ritengono un prodotto trash, inguardabile, e quelli che lo esaltano
appassionatamente. Ma, leggendo le recensioni, si capisce subito che l’interesse
per il film va ben oltre il regista Sorrentino o l’Oscar e si appunta su
Berlusconi e lo stile che lo rende famoso, più molte altre cose che sono guasti
della società contemporanea e non riguardano tanto la storia, o piuttosto la
non-storia, del film, quanto il ruolo che Berlusconi ha nella società italiana e
l’inviluppo di interessi non propriamente artistici che si appuntano sull’opera
cinematografica come su qualunque prodotto d’arte, musica, pittura, editoria
ecc. oggi In Italia.
Un critico cinematografico su Il fatto Quotidiano si
è molto irritato perché molti dicevano che il film era orribile, senza capo né
coda, e ha reagito asserendo che solo chi si intende di cinema può dare giudizi,
insomma, secondo lui, solo pochi critici cinematografici avrebbero il diritto
di dire che il film piace loro o no, dopo di che è stato pesantemente
sbertucciato.
C’è da considerare che i nostri cugini di Oltralpe
non sono di solito molto benevoli con la cinematografia italiana. Il precedente
premio Oscar per il miglior film
straniero assegnato a noi risale al 1999 per La vita
è bella di Roberto Benigni che fu
premiato anche come miglior attore
protagonista. Il film ricevette un terzo premio Oscar per la migliore
colonna sonora.
Mentre la critica internazionale ha dato buoni
giudizi su ‘La grande bellezza’, quella italiana si è divisa.
« Magari La grande bellezza si
accontentasse di essere un brutto film. È piuttosto "un'esperienza emotiva
inedita", ha scritto Walter Veltroni sul
Messaggero.
« È un film disorganico, opulento, frammentario e
sfacciato, ma anche bello da ridurti in lacrime, questo omaggio alla Capitale
firmato da Paolo Sorrentino.”
(Alessia Starace, recensione su
Movieplayer.it, 21 maggio 2013)
Molto discusso anche il paragone con un film dello
stesso genere, critica sociale di tipo onirico attorno alla città di Roma: ‘La
dolce vita’ di Fellini (per altri ‘La terrazza di Scola, che attaccava
direttamente i politici romani). Per taluni il paragone stesso con Fellini è
improprio o è una bestemmia, per altri Sorrentino ripropone una imitazione
scadente che difetta proprio di quei caratteri fantastici e nostalgici e di
quegli elementi di simpatia umana che connotavano La dolce vita, paragonando il
dolcissimo e decadente Mastroianni al vacuo e farfugliante Toni Servillo o le
metafore trasfigurate e dunque artistiche dei personaggi felliniani con quelli
pacchiani e dunque solo di cattivo gusto di Sorrentino.
Discutibile questo giudizio:
« La grande bellezza sta a La dolce vita come la
via Veneto di oggi sta alla via Veneto del 1959. Adesso è solo una strada di
hotel di lusso dove è vano ricercare il clima notturno di un tempo: i caffè
affollati di artisti e intellettuali, le scorribande di divi e fotografi, i
night-club frequentati da una variegata fauna di nobili, perdigiorno e
letterati.”
(Alessandra Levantesi Kezich, recensione su La
Stampa, 21 maggio 2013)
Ma discutibile anche questo:
« Con
tutte le rughe, gli eccessi, la sovrabbondanza di scene e "finali", il difficile
paragone con Fellini e quant'altro gli si voglia attribuire come difetto io da
semplice appassionato spettatore dico Capolavoro Indimenticabile!! Perché
davvero emozionante e sincero.” (di quale sincerità parla? mai visto film
più vuoto e artificiale!)
(Luciano Stella, recensione su L'Huffington
Post, 17 gennaio 2014)
C’è poi tutto un risvolto politico da considerare per
i legami con Berlusconi, legami non solo economici, essendo La grande bellezza
un prodotto Mediaset, ma proprio di stile, di cattivo gusto, di italianità
deteriore, di strapotere plutocratico, essendo la produzione del film frutto del
solito inciucio tra interessi politici contrapposti con la compresenza di
conflitti di interesse che tanti piddini continuano a ignorare.
SERGIO DI CORI MODIGLIANI
(che a me piace molto e di cui leggo il blog sempre)
ha scritto:
Il film è stato prodotto da un importante rampollo
della dinastia Letta, il cugino dell'ex premier, Giampaolo Letta, il più
importante dei quattro baroni del cinema italiano il cui compito principale
consiste nell'impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato
multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale
sull'industria cinematografica. E' l'amministratore delegato della Medusa film,
il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset.
Il vero Oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano.
Ma nessuno in Italia lo ha detto.
E' un prodotto PDL-PD-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.
Il vero Oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano.
Ma nessuno in Italia lo ha detto.
E' un prodotto PDL-PD-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.
In teoria (ma soltanto in teoria) è stato prodotto da
Nicola Giuliano e Francesca Cima (quota PD di stretta marca burocratica di
scuola veltroniana) per conto della Indigo Film, i quali -senza Berlusconi- non
sarebbero stati in grado neppure di pagarsi le spese dell'ufficio, dato che su 9
milioni di euro di budget, il buon Berluska ne ha messi 6,5. E' stata buttata
dentro anche la Lega Nord, che ha partecipato con la Banca Popolare di Vicenza
(500 mila euro come favore amicale, ma va?) e con la sponsorizzazione del
Biscottificio Verona (in tutto il film non si vede neppure una volta qualcuno
mangiare uno dei suoi biscotti), entrambe le aziende vogliose di entrare nel
grande giro (sono bastate due telefonate per convincerli).
Grazie alla malleverie politiche, attraverso
fondazioni di partito hanno ottenuto altri 2 milioni di euro incrociati: il PD
se li è fatti dare grazie al solerte lavoro di relazioni europee attraverso il
"programma Media Europa" (650 mila euro) mentre Renata Polverini ha partecipato
alla produzione dando 500 mila euro per conto della Presidenza Regione Lazio
attraverso il "fondo per il cinema e audiovisivi per il rilancio delle attività
cinematografiche dei giovani" (soldi che ha dato a Giampaolo Letta, sulla carta
lui sarebbe "il giovane" che andava aiutato). Nicola Giuliano ha messo su la
squadra partitica. In teoria fa il produttore, ma fa anche il docente, il
consulente. Ha la cattedra al corso di produzione della Scuola nazionale di
cinema di Roma, ma allo stesso tempo ha anche la cattedra di docente di
produzione cinematografica presso l'Università degli studi Suor Orsola Benincasa
di Napoli, oltre che docente di "low cost production" a San Antonio De los Banos
nell'isola di Cuba e consulente per la Rai. E' un funzionario tuttofare che
mette su pacchetti partitici, il che poco ha a che fare con il cinema, ma molto
ha a che vedere con l'idea italiana di come si fa il cinema.
O meglio: molto ha a che fare con l'idea di come
si uccide e si annienta una cinematografia.
Secondo gli esaltatori di questo "prodotto Italia",
il film vincente aprirebbe la strada a investimenti, stimolando i giovani autori
e lanciando il nuovo cinema italiano; mentre, invece, l'unico risultato che
otterrà sarà quello di far capire a tutti, come severo ammonimento, che "o
prendete la tessera di Forza Italia/PD oppure non lavorate" chiarendo a
chiunque intenda investire anche 1 euro nel cinema che bisogna però passare
attraverso la griglia dell'italianità partitica, il che metterà in fuga chi di
cinema si occupa e attirerà invece squali di diversa natura il cui unico
obiettivo consiste nel fare affari lucrosi in Italia con Berlusconi e il PD, in
tutt'altri lidi.
I giovani autori, i cineasti italiani in erba, le
giovani produzioni speranzose, il cinema indipendente, ricevono da questo premio
un danno colossale perché il segnale che viene dato loro è quella della
contundente italianità, quella della Grande Ipocrisia, la vera cifra di
questo paese che si rifiuta di aprire il mercato ai meritevoli, ai competenti, a
quelli senza tessera.
Il film ha vinto esattamente nello stesso modo in cui
aveva vinto "Nuovo cinema Paradiso" nel 1990.
Due parole tecniche per spiegarvi come funziona il
meccanismo di votazione dell'Oscar.
Per votare bisogna essere iscritti al MPAA (Motion
Pictures Academy of Art) e bisogna essere sindacalizzati; dal 1960 vale anche il
principio per cui chi è disoccupato non vota, nel senso che bisogna dimostrare
con documenti alla mano che "si sta lavorando" da almeno gli ultimi 24 mesi
ininterrottamente, garantendosi in tal modo il voto di chi sta veramente dentro
al mercato. Perché per gli americani l'unica cosa che conta per davvero è il
mercato, per questo Woody Allen (autore indipendente) detesta Hollywood e non ci
va mai, la considera una truffa. I votanti sono all'incirca 6.000 e sono
presenti tutte le categorie dei lavoratori (si chiamano industry workers): produttori, registi,
sceneggiatori, direttori di fotografia, macchinisti, tecnici del suono, delle
luci, scenografi, sarti, guardarobiere, guardie di sicurezza, perfino i gestori
degli appalti per gestire i catering sul set, ecc. Ogni voto vale uno, il che
vuol dire che il voto di Steven Spielberg vale quanto quello di un ragazzino il
cui lavoro consiste nel tenere l'asta del microfono in direzione della bocca del
divo di turno nel corso delle riprese, purché lo faccia da almeno due anni e
paghi i contributi. Quando si avvicina il giorno della votazione scattano i
cosiddetti "pacchetti" e a Los Angeles la lotta è furibonda e comincia la caccia
già verso i primi di novembre, con i responsabili marketing degli "studios"
(sarebbero le grandi majors)
che minacciano, ricattano, assumono, licenziano, per convincere chi ha bisogno
di lavorare a votare per chi dicono loro. Per ciò che riguarda i film stranieri
la procedura è la stessa ma su un altro binario: vale il cosiddetto "principio
Hoover" lanciato dal capo del FBI alla fine degli anni'50: vince la nazione
che più di ogni altra in assoluto farà fare affari alle sei grosse produzioni
che contano, acquistando i suoi prodotti. E' il motivo per cui l'Italia è la
nazione al mondo che ha collezionato più Oscar di tutti (la più serva e
deferente) e la Russia e il Giappone quelle che ne hanno presi di meno. Quando
l'Italia, per motivi politici (o di affari) ha bisogno dell'Oscar, allora
costruisce un poderoso business (per la serie: vi compro questi quattro telefilm
che nessuno al mondo vuole e ve li pago tre volte il suo valore) e lo va a
proporre a società di intermediazione di Los Angeles collegate ai due sindacati
più potenti californiani, da 40 anni gestiti da famiglie calabresi e siciliane,
quelli che danno lavoro alla manovalanza tecnica e gestiscono i pacchetti, dato
che controllano il 65% dei voti complessivi. Per i film stranieri bisogna avere
un forte "endorsement", ovvero un sostegno di persona nota nell'industria che
garantisce a nome dei sindacati, come è avvenuto quest'anno con Martin Scorsese
che si è fatto il giro presso la comunità di amici degli amici a
Brooklyn.
Nel 1989 accadde la stessa cosa: Berlusconi doveva
entrare nel mercato americano per mettere su un gigantesco business (quello per
il quale è stato definitivamente condannato dalla Cassazione, il cosiddetto
"processo media-trade"); doveva entrare a Hollywood dalla porta principale con
la Pentafilm. Ma non c'erano film italiani che valessero, era già piombata la
mannaia dei partiti, tanto è vero che perfino il compianto Fellini girava a
vuoto da un produttore all'altro ed era disoccupato, motivo per cui finì per
ammalarsi. Alla fine, l'abile Berlusconi riuscì a convincere il più intelligente
e bravo produttore di quei tempi (che se la passava maluccio) Franco Cristaldi,
a dargli un prodotto perché lui doveva vincere comunque. Cristaldi era disperato
e non sapeva che cosa fare perché non poteva fare delle figuracce con gli
americani che conoscono il buon cinema e non è facile ingannarli, ma si fece
venire in mente un'idea geniale. Aveva fatto una marchetta con Raitre e aveva
prodotto un film "Nuovo Cinema Paradiso" che era stato un flop clamoroso, sia
alla tivvù, con indici di ascolto minimi, che al cinema, dove era uscito e dopo
dieci giorni era stato ritirato per mancanza di pubblico. Il film durava 155
minuti ed era, francamente inguardabile, di una noia mortale. Senza dire nulla
al regista, Cristaldi ci lavorò da solo -letteralmente- per tre mesi. Rimontò
totalmente il film, tagliò e buttò via 72 minuti e usando dei filtri cambiò
anche le luci, riuscendo anche a modificare dei dialoghi. Lo fece uscire in Usa
dove ottenne un buon successo di critica, sufficiente per passare. Berlusconi fu
contento ma non gli diede ciò che era stato pattuito. Il giorno in cui Tornatore
prese l'Oscar, nel 1990, accadde un fatto inaudito per la comunità
hollywoodiana. La statuetta venne data al regista e all'improvviso Franco
Cristaldi fece un salto sul palco, si avvicinò, strappò di mano la statuetta a
Tornatore, prese il microfono in mano e disse "questo Oscar è mio, questo premio
l'ho vinto io, questo è il mio film, questo è un film del produttore". Fu
l'inizio della fine della sua carriera in Italia, perché il giorno dopo l'intera
critica statunitense (in Italia non venne mai fatta neppure menzione degli
eventi) lo volle intervistare e lui raccontò come i partiti stessero
distruggendo quella che un tempo era stata una delle più importanti industrie
cinematografiche del mondo. Lo scaricarono tutti in Italia e finì per lavorare
all'estero. Di lì a qualche anno morì. Fu in quell'occasione che Tornatore, in
una intervista, spiegò come si faceva il regista in Italia: "Bisogna
occuparsi di politica, quella è la strada. Io mi sono iscritto al PCI e poi sono
riuscito a farmi eleggere alle elezioni comunali in un piccolo paesino della
Calabria dove sono diventato assessore. Mi davano da firmare delle carte e io
firmavo senza neppure leggerle, dovevo fare soltanto quello. Dopo un po' di
tempo mi hanno detto che potevo anche dimettermi e andare a Roma a fare i
film". Aveva ragione lui: in Italia funziona così.
24 anni dopo è la stessa cosa, con l'aggravante del tempo trascorso.
"La Grande Bellezza" appartiene a questo filone dell'italianità e il solo fatto di accostarlo a Fellini o a De Sica è un insulto all'intelligenza collettiva della nazione: è una marchetta politica.
24 anni dopo è la stessa cosa, con l'aggravante del tempo trascorso.
"La Grande Bellezza" appartiene a questo filone dell'italianità e il solo fatto di accostarlo a Fellini o a De Sica è un insulto all'intelligenza collettiva della nazione: è una marchetta politica.
E si vede, si sente, lo si capisce; nell'arte non si
riesce a mentire perché l'arte è basata su uno squisito paradosso: poiché è
finzione totale -e quindi menzogna pura- chi la produce non può darla ad
intendere perché la verità sottostante salta sempre fuori.
E' la cartolina di un piccolo-borghese costruita (a tavolino) per venire incontro agli stereotipi degli americani votanti, attraverso un'operazione intellettualistica che non regala emozioni, ma soltanto suggestioni di provenienza pubblicitaria marketing negativa. In maniera ingegnosa e diabolicamente perversa propone delle maschere in un paese dove la verità artistica passa, invece, nella necessità dello smascheramento, cioè nel suo opposto.
E' la cartolina di un piccolo-borghese costruita (a tavolino) per venire incontro agli stereotipi degli americani votanti, attraverso un'operazione intellettualistica che non regala emozioni, ma soltanto suggestioni di provenienza pubblicitaria marketing negativa. In maniera ingegnosa e diabolicamente perversa propone delle maschere in un paese dove la verità artistica passa, invece, nella necessità dello smascheramento, cioè nel suo opposto.
E' la quintessenza del paradosso italiano trasformato
nel consueto ossimoro: un brutto film che si pone e si qualifica come la Grande
Bellezza; proprio come Mario Monti che lanciò il decreto "salva Italia" che ha
affondato il paese e Letta (Enrico) che lanciò il "governo del fare" licenziato
dopo pochi mesi perché non è riuscito a fare nulla.
Il film, davvero noioso e privo di spessore, è un
prodotto subliminare, promosso dai partiti politici italiani al governo solo e
soltanto dopo che i due protagonisti, Toni Servillo e Paolo Sorrentino, si sono
messi pubblicamente a disposizione della famiglia Letta. Il film, infatti,
doveva uscire a settembre del 2013, ma hanno anticipato l'uscita a giugno perché
era il momento in cui era assolutamente necessario usare ogni mezzo per poter
azzannare l'opposizione. Il 7 giugno del 2013, Servillo e Sorrentino, vengono
invitati da Lilli Gruber nella sua trasmissione "8 e 1/2" per l'emittente La7.
L'intervista dura 32 minuti. I primi 20 minuti sono noiosi e si parla del film
che, si capisce da come andava l'intervista, nessuno avrebbe mai visto. Dal 21°
minuto in poi, avviene la svolta, fino alla fine. L'attore e il regista, ben
imboccati dalla Gruber, si lanciano in un attacco politico personale contro
Beppe Grillo e il M5S. Un fatto che non aveva alcun senso, dato che si trattava
di un film che nulla -per nessun motivo- aveva a che fare con la vita politica
italiana e con il dibattito in corso. Servillo fu durissimo nel sostenere a un
certo punto che "mi faccio dei nemici ma me li faccio volentieri" spiegando ai
telespettatori (che pensavano di ascoltare un attore che parlava di cinema) come
"Grillo ripropone un'immagine di leader vecchio che passa da Masaniello a
Berlusconi" -cioè il suo produttore- "e usa un linguaggio violento....".
Sorrentino gli andò dietro e insieme, per dei motivi incomprensibili a chiunque
si occupi di cinema in qualunque parte del mondo (tranne che in Italia)
spiegavano che il M5s "è un movimento che vuole togliere la sovranità al
parlamento".
Da quel momento i due sono andati in giro a
promuovere il loro film in ambito politico nazionale allertando la popolazione
sul pericolo rappresentato dal M5S e così, l'establishment nazionale, l'ha
imposto come moda propagandandolo in maniera esorbitante.
Riguardando quell'intervista, ho scoperto, pertanto, che Toni Servillo ha stabilito che io sono un suo nemico. Non lo sapevo. Ieri sera, la Gruber, sempre attenta nel rispettare i codici della rappresentanza che conta, ha dedicato un'altra intervista al film, ma in questo caso ha invitato Walter Veltroni. Forse c'è stato qualche telespettatore che si sarà chiesto "ma che cosa c'entra con questo film?".Appunto.
Riguardando quell'intervista, ho scoperto, pertanto, che Toni Servillo ha stabilito che io sono un suo nemico. Non lo sapevo. Ieri sera, la Gruber, sempre attenta nel rispettare i codici della rappresentanza che conta, ha dedicato un'altra intervista al film, ma in questo caso ha invitato Walter Veltroni. Forse c'è stato qualche telespettatore che si sarà chiesto "ma che cosa c'entra con questo film?".Appunto.
..
Estratto da: "La Grande Ipocrisia. Trionfano le
larghe intese consociative spacciandole per prodotto Italia."
.
Feroce l'articolo di Travaglio:
LA GRANDE VUOTEZZA
Marco Travaglio
“Dopo gli Oscar per i migliori film ci vorrebbe un
Oscaretto per i migliori commenti italiani agli Oscar. Provinciali, retorici,
cialtroni, pizzaemandolineschi. Un po’ come dopo le partite dei Mondiali quando
vince l’Italia: il patriottismo ritrovato, l’orgoglio tricolore, il riscatto
nazionale, l’ottimismo della volontà, la metafora del Paese che rinasce, il sole
sui colli fatali di Roma. Questa volta però, con l’Oscar a La grande bellezza,
c’è un di più: l’esultanza di chi s’è fermato al titolo, senza capire che è
paradossale come tutto il film. Ecco: quello di Sorrentino è il miglior film
straniero anche e soprattutto in Italia. Il Corriere fa dire al regista che “con
me vince l’Italia”, ma è altamente improbabile che l’abbia solo pensato: infatti
ha dedicato l’Oscar alla famiglia reale e artistica, al Cinema e agli idoli
adolescenziali (compreso – che Dio lo perdoni – Maradona, inteso però come il
fantasista del calcio, non del fisco)”.
Eppure
Johnny Riotta,
sulla Stampa, vede nel film addirittura “un monito” e spera “che la vittoria
riporti un po’ di ottimismo in giro da noi”. E perché mai? Pier Silvio
B., poveretto, compra pagine di giornali per salutare l’
“avventura meravigliosa” sotto il marchio Mediaset. Sallusti vede
nell’Oscar a un film coprodotto e distribuito da Medusa la rivincita giudiziaria
del padrone pregiudicato (per una storia di creste su film stranieri): “Ci son
voluti gli americani, direi il mondo intero, per riconoscere che Mediaset non è
l’associazione a delinquere immaginata dai magistrati”. Ora magari Ghedini e
Coppi allegheranno l’Oscar all’istanza di revisione del processo al Cainano.
“Oggi – scrive su Repubblica Daniela D’Antonio, moglie giornalista di Sorrentino
– ho scoperto di avere tantissimi amici”. Infatti Renzi
invita “Paolo per una chiacchierata a tutto campo”. Napolitano
sente
“l’orgoglio di un certo patriottismo” per un “film che intriga
per la rappresentazione dell’oggi”. Contento lui. Alemanno, erede diretto dei
Vandali, Visigoti e Lanzichenecchi, vaneggia di “investire nella bellezza di
Roma e nel suo immenso patrimonio artistico”.
Franceschini, ex ministro del governo Letta che diede un’altra
sforbiciata al tax credit del cinema, sproloquia di un “Paese che vince quando
crede nei suoi talenti” e di “iniezione di fiducia nell’Italia”. Fazio, reduce da un Sanremo di
rara bruttezza dedicato alla bellezza, con raccapricciante
scenografia color caco marcio, vuole “restituire” e “riparare la grande
bellezza”. Il
sindaco Marino rende noto di aver “detto a Paolo che lo aspetto a Roma a braccia
aperte per festeggiare lui e il film, per il prestigio che ha
donato alla nostra città e al nostro Paese”. Ma che film ha visto? È così
difficile distinguere un film da una guida turistica della proloco? In realtà, come scrive Stenio
Solinas sul Giornale, quello di Sorrentino “è il film più malinconico, decadente
e reazionario degli ultimi anni, epitaffio a ciglio asciutto
sulla modernità e i suoi disastri”. Il referto medico-legale in forma artistica
di un Paese morto di futilità e inutilità, con una classe dirigente di scrittori
che non scrivono, intellettuali che non pensano, poeti muti, giornalisti nani,
imprenditori da buoncostume, chirurghi da botox, donne di professione “ricche”,
cardinali debolucci sulla fede ma fortissimi in culinaria, mafiosi 2. 0 che
sembrano brave persone, politici inesistenti (infatti non si vedono proprio).
Una fauna umanoide
disperata e disperante che non crede e non serve a nulla, nessuno fa il suo
mestiere, tutti parlano da soli anche in compagnia e passano da
una festa all’altra per nascondersi il proprio funerale. Si salva solo chi muore, o fugge
in campagna. È un mondo pieno di vuoto che non può permettersi
neppure il registro del tragico: infatti rimane nel grottesco. Scambiare il film
per un inno al rinascimento di Roma (peraltro sfuggito ai più) o dell’Italia
significa non averlo visto o, peggio, non averci capito una mazza.
Come se la
Romania promuovesse Dracula a eroe nazionale e i film su Nosferatu a spot della
rinascita transilvana.
.
LA GRANDE BELLEZZA? UN SEGRETO FRA PAOLO SORRENTINO E
IAN CURTIS
Una sera è capitato anche te, non fingere che non sia
così. Hai fissato, con la solitudine di un uomo salito
sull’autobus sbagliato, le persone che (a un metro da te) ballano e si dimenano
con la più straziante e disperata delle allegrie postmoderne.
Dentro di te preghi che, entro un anno, si palesi un
angelo
sterminatore a fare piazza pulita di tutto questo. Poi il tempo
passa, scorre ben oltre un anno e capisci una cosa. Che se quell’angelo
sterminatore fosse arrivato con un po’ d’anticipo, magari di un decennio,
avrebbe fatto fuori anche te. “Che ci facevi tu, lì?” è quello che ci domanda
Paolo
Sorrentino nel suo nuovo lavoro.
Perché tutti noi, ognuno a modo suo, siamo stati nel
“luogo” di cui parla “La grande
bellezza”, la differenza sta nell’essersene accorti o meno:
“…è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il
sentimento, l’emozione e la paura. Gli sparuti e incostanti sprazzi di bellezza,
e poi lo squallore disgraziato e l’uomo
miserabile”. Quel posto si chiama vita.
Sorrentino non ha fatto un remake tragico e grottesco
della “Dolce vita”, ciò che forse prova a dirci è esattamente il contrario; e
cioè che non è la “dolce
vita” a trasformare gli esseri umani bensì sono loro ad avere il
potere di ridurre la dolce vita stessa ad un oscena danza per dannati che non
meritano nemmeno l’onestà dell’inferno. E al contempo, alcuni di questi dannati,
sono lì per l’unico, degno, motivo per cui valga la pena respirare: cercare la
“grande bellezza”.
Questo sparuto gruppo di prescelti ha compreso che la
vera bellezza non teme l’orrore, il disgusto, la miseria mondana, bensì ti
attende, da te inaspettata, dietro l’angolo. Vuole vedere se riesci a non
giudicare e semplicemente a vivere, meglio che puoi, facendo i conti col più
inutile cretino che il destino potesse affibbiarti, te stesso. Se batti quel
cretino, dopo c’è “lei”.
A prescindere dagli esiti di Cannes, diciamo che “La
grande bellezza” è un film che va atteso. Non è un film perfetto, grazie a Dio,
quello di Sorrentino, è semplicemente un grande film, talmente grande da avere
gli stessi pregi e gli stessi limiti di ciò che intende mostrare. Perfetti erano
“Le conseguenze dell’amore” e “L’amico di famiglia” (li ho adorati). Grande era
“L’uomo in
più”.
Dovete fidarvi de “La grande bellezza” e quando avete
l’impressione di ascoltare frasi un po’ scontate o assistere a sequenze
coscientemente ridondanti, lasciatevi trafiggere da Servillo (nel film Jep
Gambardella, scrittore di un unico romanzo che ora lavora per i giornali e
trascorre le notti immerso nei fescennini moderni della capitale) che fissa la
dignità e la lotta onesta di una spogliarellista e le dice “Mi sento
vecchio”.
Lasciate che sia un illusionista del circo che, ai piedi
di una gigantesca giraffa, dice a Jep “Io posso farla sparire, ma mica sparisce
davvero, è solo un trucco…” o un’annoiata bambina che durante i partieS della
Roma bene dipinge, in una sorta di furiosa trance, gettando secchi di vernice
addosso alla tela e a se stessa, uscendone dipinta e stremata anche
lei.
Lasciate ancora che Jep sistemi una sua cara amica
scrittrice molto “civile” e “impegnata” e le spieghi sbugiardandone l’afrore
politicamente corretto, per quale forma di impegno era nota, ai tempi
dell’università, nei bagni dei ragazzi, quale casa editrice (legata ai piccoli
salottini del “partito”) abbia pubblicato le sue seghine, e con quale giovane la
tradisca, sotto gli occhi di tutti, il suo compagno.
Lasciate ancora che Jep incontri, per intervistarla,
una di queste artiste performer “off” e la tratti per quella piccola miserabile
e modaiola ladruncola di tempo altrui che è, domandandole il senso delle parole
che lei stessa usa “Io vivo di vibrazioni…” e lui la inchioda: “Mi
dica che cos’è una vibrazione” (non ricordo se dicono “vibrazioni” o “emozioni”,
ma insomma ci siamo capiti, lei è una cazzara e lui è troppo vecchio e stanco
per far finta di niente).
E lasciate infine che vi venga da ridere all’idea che
una vecchia suora
sdentata convochi, all’alba, uno stormo di gru sul terrazzo di
Jep e senza voltarsi verso di lui gli dica “conosco i nomi di battesimo di
ognuno di questi uccelli”. Riderete di meno e sarete più vicini al segreto della
“Grande bellezza” quando un soffio di quella vecchia diverrà un ordine
ancestrale e lo stormo di uccelli prenderà il volo nel cielo di una Roma che
dorme, sfinita, dopo aver danzato.
La danza, il continuo, perpetuo,
implacabile partecipare ad una danza, è il codice di accesso alla comprensione
del film di Sorrentino. L’idea che ognuno di noi, a modo suo, stia tenendo il
ritmo di qualcosa. Un qualcosa al cui ritmo danziamo da avvocati, da muratori,
da medici, da operai, da giornalisti, da disoccupati, da uomini, da donne, etc.
Ieri a Roma c’erano i comizi di chiusura della campagna elettorale per la corsa a
sindaco. Piazze diverse, ma manifestazioni del tutto simili come messa in scena.
Slogan, entusiasmo da sala di rianimazione e tanta retorica (fosse anche quella
dell’antiretorica che usa slogan contro gli slogan).
Chi stava sul palco, chi se ne stava sotto e chi –
incluso me – assiste a tutto questo davanti ad una tv credendo di essere in
salvo, stanno tutti danzando. Tengono il ritmo di qualcosa. Ha ragione adesso
Jep Gambardella. Aveva ragione, allora, anche Ian Curtis.
Perché a volte un tic sembra assalirci e crediamo che
certe cose stiano cambiando, ma in realtà stanno solo cambiando ritmo; chi mette
la musica si attende che noi non smettiamo di ballare. A volte, nei momenti più
oscuri, penso quasi che la musica ormai si “metta” da sola; qualunque despota in
carne ed ossa si sarebbe già annoiato di vederci danzare. Sudati, forzatamente sorridenti e senza
fantasia.
And we would go on as though nothing was
wrong.
And hide from these days we remained all alone.
Staying in the same place, just staying out the time.
Touching from a distance,
Further all the time.
And hide from these days we remained all alone.
Staying in the same place, just staying out the time.
Touching from a distance,
Further all the time.
(…)
No language, just sound, that’s all we need know, to
synchronise
love to the beat of the show.
And we could dance.
Dance, dance, dance, dance, dance, to the radio.
Dance, dance, dance, dance, dance, to the radio.
Dance, dance, dance, dance, dance, to the radio.Dance, dance, dance, dance, dance, to the radio.
love to the beat of the show.
And we could dance.
Dance, dance, dance, dance, dance, to the radio.
Dance, dance, dance, dance, dance, to the radio.
Dance, dance, dance, dance, dance, to the radio.Dance, dance, dance, dance, dance, to the radio.
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A me il film non è piaciuto
Viviana
Io la valenza politica non la sapevo, ho visto il
film con curiosità per il battage pubblicitario e sono rimasta delusa
Non mi è piaciuto nulla, storia non c'è, evoluzione nemmeno, nessuna emozione ma nemmeno uno spettacolo interessante come nei film di Fellini fantastici, misteriosi e nostalgici, recitazione zero, personaggi privi di spessore, macchiette senza storia, senza futuro o passato, congelati in un presente vacuo fatto di niente dove non stanno in piedi nemmeno i rapporti reciproci e non si costruisce un minimo di carattere, fantasia, niente... ma cosa ha voluto dire questo film? Si può anche fare una descrizione d'ambiente ma qui manca anche l'ambiente. E' tutto falso, talmente falso che alla fine il film stesso è falso. Ci può essere molta verità anche nel sogno, nella metafora, nella poesia, nella trasfigurazione dell’orrido (pensiamo a Bunuel o a Visconti), ma qui non c’è niente. Sembra di sentire l’urlo della Taverna “Voi non siete gnente, gnente, gnente!”
Non mi è piaciuto nulla, storia non c'è, evoluzione nemmeno, nessuna emozione ma nemmeno uno spettacolo interessante come nei film di Fellini fantastici, misteriosi e nostalgici, recitazione zero, personaggi privi di spessore, macchiette senza storia, senza futuro o passato, congelati in un presente vacuo fatto di niente dove non stanno in piedi nemmeno i rapporti reciproci e non si costruisce un minimo di carattere, fantasia, niente... ma cosa ha voluto dire questo film? Si può anche fare una descrizione d'ambiente ma qui manca anche l'ambiente. E' tutto falso, talmente falso che alla fine il film stesso è falso. Ci può essere molta verità anche nel sogno, nella metafora, nella poesia, nella trasfigurazione dell’orrido (pensiamo a Bunuel o a Visconti), ma qui non c’è niente. Sembra di sentire l’urlo della Taverna “Voi non siete gnente, gnente, gnente!”
Alla fine non resta in mente nulla, né una battuta,
né un'emozione, una scena, una invenzione. Il vuoto che racconta se stesso in
modo vacuo. Non è un film di denuncia, né di psicologia, di storia o di costume.
E’ gnente. E non parla di niente.
Francamente io non gli avrei dato nessun premio.
Adoro i film come prodotto complesso di cui ammiro la musica, la storia, le scene, il montaggio, la recitazione, la psicologia, i significati, i caratteri, la regia, ma qui stento a trovare qualcosa di pregevole. E' tutto così piatto e senza vita, siliconico.
Tutto così inutile. Non c'è nemmeno lo svolgimento di qualcosa. Come comincia così finisce, inutile a se stesso, e se proprio uno voleva fare dei complimenti a Roma, per fare un dossier turistico aziendale, poteva fotografarla anche meglio.
Francamente io non gli avrei dato nessun premio.
Adoro i film come prodotto complesso di cui ammiro la musica, la storia, le scene, il montaggio, la recitazione, la psicologia, i significati, i caratteri, la regia, ma qui stento a trovare qualcosa di pregevole. E' tutto così piatto e senza vita, siliconico.
Tutto così inutile. Non c'è nemmeno lo svolgimento di qualcosa. Come comincia così finisce, inutile a se stesso, e se proprio uno voleva fare dei complimenti a Roma, per fare un dossier turistico aziendale, poteva fotografarla anche meglio.
Il titolo del film, poi, resta una parola di cui non
si capisce il senso.
Francamente ho visto film migliori. In questi giorni sono rimasta affascinata dall'ultimo di Tornatore: "La migliore offerta", in cui ci si trova coinvolti emozionalmente da subito in una storia originale, bellissima,c he unisce suspense a affetti, mistero a psicologia, bellezza e arte, e in cui partecipiamo all'evoluzione di un personaggio manchevole ma vivo e capace di mutamento. La sua palingenesi diventa la nostra. Il film è perfettamente riuscito. Questo è perfettamente mancato.
Francamente ho visto film migliori. In questi giorni sono rimasta affascinata dall'ultimo di Tornatore: "La migliore offerta", in cui ci si trova coinvolti emozionalmente da subito in una storia originale, bellissima,c he unisce suspense a affetti, mistero a psicologia, bellezza e arte, e in cui partecipiamo all'evoluzione di un personaggio manchevole ma vivo e capace di mutamento. La sua palingenesi diventa la nostra. Il film è perfettamente riuscito. Questo è perfettamente mancato.
Da “La migliore offerta” traggo una frase, che è poi
il leitmotiv del film di Tortnatore “In ogni falso si nasconde sempre
qualcosa di autentico!"
Ma, mentre nel film di Tornatore il guizzo di
autenticità è la riscoperta affettiva del protagonista, in quello di Sorrentino
è solo lo strapotere economico e manipolatorio del produttore.
Dopo la grandissima noia provata durante 'La grande
bellezza', film vuoto e vacuo sul nulla, pompato da una campagna pubblicitaria
veramente immonda di troppi che erano in cerca di rivalse di ogni tipo e hanno
proiettato sul film esigenze erettive e furbastre di ogni genere, ho visto un
filmino, poco considerato, che mi ha fatto riprendere voglia di vivere e mi è
piaciuto moltissimo. Sta passando su sky e nessuna giuria di Cannes o di Venezia
lo considererà mai perché di pretese non ne ha, ma è gradevolisismo lo stesso:
‘La cuoca del presidente’.
Per me, che considero quella della cucina un'arte
sublime e adoro i film sui cuochi, per me che ho come film cult preferito ‘Il
pranzo di Babette’ e ‘Chef’ e come libro prediletto "La cuoca amorosa", è stato
come una boccata di aria fresca, tanto più gradita dopo il disagio provato con
Sorrentino. Diciamo che con La cuoca del presidente mi sono ‘rifatta la bocca’.
In tutti i sensi.
Ovviamente a un film così a un Oscar
nemmeno lo presentano, i grandi cervelli che danno gli Oscar non hanno mai amato
i film facili, quelli che fanno bene alla vita, e hanno sempre scelto con un
certo sadismo le opere più sgradevoli e indigeribili. Ma non si vive di soli
Oscar, per cui spero che possiate vedere su sky o scaricandolo dal web questo
piccolo delizioso film, e spero che possiate gustarvi anche il bellissimo e
raffinato "L'ultima offerta" di Tornatore che mi ha veramente
affascinato.
Adoro quelli che amano quello che fanno e che
trasformano il loro lavoro in un capolavoro, ma adoro anche coloro che da una
mancanza o da una sconfitta, "da una amarezza" sanno trarre il meglio di se
stessi per se stessi e per gli altri perché anche evolvere è un
capolavoro.
Sulle marcescenze dei personaggi da discarica
stendiamo un velo pietoso e lasciamoli, appunto, nelle loro discariche.
Ma in questo bizzarro paragone tra due film io
propongo anche un recupero a cui terrei molto. Se ‘La grande bellezza’ è il
trionfo della stupidità, del cattivo gusto, del trash spacciati per arte grazie
alla violenza di qualche squalo come Berlusconi che il merito lo
calpesta e al mondo vuol mostrare solo il suo potere e la sua ferocia, il
piccolo film ‘La cuoca del presidente’, in forma minore ma non
diversa rispetto a ‘Il pranzo di Babette’ mostra esattamente il contrario: che
anche in un mondo dove tutto si gioca in maniera gerarchica e le mode sono
imposte con la forza, il merito può trovare in se stesso un premio al di fuori
di qualunque gigantografia del potere.
..
Ieri ho visto "La grande bellezza". In realtà il
titolo forse doveva essere "la grande ca…ta" ma qualcuno deve aver obbiettato
che non stava bene una parolaccia nel titolo e allora si è deciso di cambiarlo
lasciando la parola "grande" che è sempre d'effetto e mettere la posto della
parolaccia una parola che avesse comunque la doppia Z, che suona bene e dà
forza. Così è venuto fuori "La grande bellezza".
Un penoso quanto pretenzioso scimmiottamento di Fellini, senza né l'arte né i contenuti delle opere del grande artista, sognatore e regista.
Un'abbuffata gratuita di nudi di donne. Una giraffa a Caracalla. Antonello Venditti al tavolo di un ristorante. Una bambina isterica che imbratta una tela davanti a una platea impassibile. Una girandola forzata e inutilmente insistita di suore. Tocchi, improbabili anch'essi, di sacralità. Un bagno di luoghi comuni scontati, superati e stantii, comunque mal rappresentati. Un finale interminabile con una mostruosa suora-santa e il solito cardinale.
Insomma un'accozzaglia di personaggi e situazioni inverosimili e senza senso e tutto sommato di cattivo gusto.
Il personaggio protagonista non rappresenta niente e l'interpretazione di Servillo è a dir poco irritante, per non parlare del fatto che la metà di quello che dice non si capisce a causa del suo forzato napoletano "strascicato".
Ma la cosa più straordinaria è che più il film va avanti e meno ha senso, gettando nello sconforto anche il più benevolo degli spettatori.
Un "BRAVO!" a Carlo Verdone che ha dato la sua più grande e professionale prova d'attore, creando per altro un solco profondo tra se e il suo personaggio e tutto il resto del film.
Se questo film è da Oscar allora per "Il postino" tre Premi Nobel sono poco. De Sica e Fellini nella tomba non si sono rivoltati ma hanno fatto il triplo carpiato, raggruppato, ritornato. Benigni, Tornatore e Salvatores forse farebbero bene a restituire i loro di Oscar.
Infine questo film non è affatto un omaggio a Roma ma è l'ennesimo insulto gratuito e non troppo velato alla città eterna, un altro volgare schiaffone a questa grande Mamma che accoglie tanti figli, sempre meno naturali e sempre più adottivi ma tutti sempre tanto, troppo recalcitranti e ingrati.
Con fantozziana memoria mi verrebbe da dire "aridatece la Corazzata Potemkin" per cagata pazzesca che sia!
Un penoso quanto pretenzioso scimmiottamento di Fellini, senza né l'arte né i contenuti delle opere del grande artista, sognatore e regista.
Un'abbuffata gratuita di nudi di donne. Una giraffa a Caracalla. Antonello Venditti al tavolo di un ristorante. Una bambina isterica che imbratta una tela davanti a una platea impassibile. Una girandola forzata e inutilmente insistita di suore. Tocchi, improbabili anch'essi, di sacralità. Un bagno di luoghi comuni scontati, superati e stantii, comunque mal rappresentati. Un finale interminabile con una mostruosa suora-santa e il solito cardinale.
Insomma un'accozzaglia di personaggi e situazioni inverosimili e senza senso e tutto sommato di cattivo gusto.
Il personaggio protagonista non rappresenta niente e l'interpretazione di Servillo è a dir poco irritante, per non parlare del fatto che la metà di quello che dice non si capisce a causa del suo forzato napoletano "strascicato".
Ma la cosa più straordinaria è che più il film va avanti e meno ha senso, gettando nello sconforto anche il più benevolo degli spettatori.
Un "BRAVO!" a Carlo Verdone che ha dato la sua più grande e professionale prova d'attore, creando per altro un solco profondo tra se e il suo personaggio e tutto il resto del film.
Se questo film è da Oscar allora per "Il postino" tre Premi Nobel sono poco. De Sica e Fellini nella tomba non si sono rivoltati ma hanno fatto il triplo carpiato, raggruppato, ritornato. Benigni, Tornatore e Salvatores forse farebbero bene a restituire i loro di Oscar.
Infine questo film non è affatto un omaggio a Roma ma è l'ennesimo insulto gratuito e non troppo velato alla città eterna, un altro volgare schiaffone a questa grande Mamma che accoglie tanti figli, sempre meno naturali e sempre più adottivi ma tutti sempre tanto, troppo recalcitranti e ingrati.
Con fantozziana memoria mi verrebbe da dire "aridatece la Corazzata Potemkin" per cagata pazzesca che sia!
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SIAMO PERSI
Giacomo Gasparetto
Carissima Viviana, da tempo ti leggo ed era da un po’
che volevo scriverti.
Siamo persi! Inizio la frase con un inciso che
appartiene alla nostra società. Molte sarebbero le metafore che si potrebbero
associare all’italiano medio di questi tempi: perso come un bambino che cerca la
propria mamma al centro commerciale, sperduti come quando andiamo a naso per
cercare un posto che non sappiamo trovare… Tutte situazioni dove le nostre
capacità vengono sopraffatte dagli eventi.
La cosa che più mi lascia riflettere è che siamo
persi e molti non se ne rendono conto. Da anni ormai la crisi ci segue e
qualcuno fa finta di non vedere. I rapporti della Caritas in merito alla povertà
sono allarmanti, ma c’è ancora qualcuno che sente la povertà distante dalla
propria sfera.
Siamo persi economicamente, incapaci di comprendere (
sia per poca voglia, sia perché forse, sotto sotto ci va bene così) i meccanismi
che governano l’inflazione e i nostri risparmi.
Siamo persi politicamente. Preferiamo dire” sono
tutti ladri “ piuttosto che aprire gli occhi e vedere che siamo governati da
persone neanche elette. Affermando che sono tutti ladri ci liberiamo la
coscienza, siamo convinti di non aver responsabilità e poter continuare a vivere
nel nostro torpore.
Siamo persi nei rapporti: Basti pensare ad una coppia
che esce a cena e si ritrova una di fronte all’altro con un
cellulare che fa da barriera comunicativa. Non abbiamo più il gusto della
parola, dell’abbraccio…
Siamo persi perché la nostra scuola è
magistrocentrica estremamente contenutistica. Studiamo quasi esclusivamente per
il voto, mentre la nostra cultura la sentiamo sempre meno.
Saremo persi anche fisicamente quando venderanno
qualche nostro monumento, o qualche isola e svegliandoci la mattina non saremo
più noi a gestire la nostra ricchezza.
Crolla Pompei, la reggia di Caserta è in una
situazione di degrado, ma diamo priorità a nuove cementificazioni, progetti che
tagliano monti, boschi.
Ci fermiamo a guardare oggetti di marca, seguiamo la
moda, seguiamo le ultime tendenze senza renderci conto di essere soggiogati
continuamente, di non essere più capaci a ragionare con la nostra testa ma
seguire sempre il pensiero di altri.
Ma stiamo tranquilli, non ci sono problemi, anche noi
italiani abbiamo la nostra ancora di salvezza, il nostro centro di gravità
permanente. Abbiamo avuto Sanremo, abbiamo Renzi al governo,Silvio ce lo teniamo
in Italia con gelosia e non gli vogliamo dare il passaporto, abbiamo le
nomination alcoliche su face book e quant’altro. Non ci disperiamo, stiamo a
guardare quello che ci accade intorno, occupiamoci di gossip e teniamo la testa
sotto la sabbia così siamo tranquilli e sereni. Siamo in un’eterna meditazione,
l’unica differenza è che chi medita sa quello che sta facendo, noi…
Mi ha fatto piacere scriverti. Un pensiero che scrivo
seguendo il flusso dei pensieri, ascoltando musica.
Un abbraccio.
Giacomo Gasparetto
..
A indicare i monopoli esistenti in Italia in ogni
campo che dovrebbe essere artistico riporto questo articolo che riguarda la
musica leggera stendendo un ulteriore velo pietoso su manifestazioni altamente
monopolizzate da pochi come il festival di San Remo.
Riflessioni sulla
musica e la radio oggi, del Bolognese Volante
La musica e
soprattutto come viene riprodotta, ha subito grandi cambiamenti negli ultimi
venti anni. Così ha subito grandi cambiamenti il mercato della
musica.
Per ora possiamo
identificare quattro grandi passaggi epocali.
Il primo. La nascita
del vinile, introdotto nel 1948 negli Stati Uniti come evoluzione dei precedenti
dischi a 78 giri.
Il secondo. La nascita
del CD = compact disc, inizio commercializzazione negli anni ’80, ma conosce la
sua gloria negli anni ’90.
Il terzo. L’ultimo
nato, come metodo di riproduzione della musica, in ordine di tempo è il
file MP3, che altro non è che un algoritmo di compressione.
Senza entrare troppo
nei tecnicismi, siamo passati da una pizza come il vecchio 33 giri in vinile, ad
un piccolo cerchio di plastica, fino ad arrivare a qualcosa di “virtuale”,
intangibile, come la musica ascoltata attraverso il computer, i lettori Mp3 (il
più famoso è ovviamente l’Ipod della Apple), gli smartphone.
C’era
la Hit-Parade, un appuntamento immancabile per gli appassionati della musica,
che vede la luce il 6 gennaio del 1967, venerdì alle ore 13, sotto l'egida di
Lelio Luttazzi, già conduttore televisivo di Studio Uno, compositore di diverse
canzoni di successo ma solo "per sbarcare il lunario", e appassionato di jazz,
quindi in grado di guardare alla musica leggera con quel giusto distacco. Andata
in onda dal 1967 fino al 1973, quando il suo posto verrà preso da Dischi caldi
di Giancarlo Guardabassi. Erano anni in cui un 33 giri di successo restava ai
vertici per molti mesi. A volte anche per un anno intero.
Il quarto. Poi arrivò
il fenomeno Napolitanoster. Per le case discografiche fu come un fulmine a ciel
sereno. Nell’estate del 1999 partì la piattaforma che avrebbe radicalmente
cambiato le abitudini dei consumatori e le entrate delle case discografiche. Da
quella estate milioni di utenti che avevano una connessione ad Internet si
resero conto di come fosse facile, comodo e risparmioso scaricare “a gratis”
files musicali a go go. Addirittura interi album. Bastava aspettare. In pratica
bastava collegarsi ad un sito internet, Napolitanoster, cercare l’oggetto del
desiderio, e se presente, effettuare il download. L’albero della Cuccagna
Napolitanoster si ritrovò ben presto sotto il fuoco incrociato della case
discografiche, che nel giugno del 2001 ne decreteranno la chiusura per
violazione dei diritti d’autore. Da allora è stato un susseguirsi di piattaforme
tecnologiche “peer to peer” per sostituire il compianto Napolitanoster. WinMix,
che ebbe vita fino al 2005, KaZaa, fino ad arrivare agli ancora sfruttati ed
inossidabili Emule e uTorrent.
Un'altra rivoluzione
nell’ascoltare la musica è stata introdotta però anche da You Tube. Nato nel
2005, è ormai tra le principali fonti da cui non solo ascoltare musica, ma anche
vedere i relativi video dei brani. Da segnalare che su You Tube chiunque può
pubblicare un proprio video con la propria canzone. Vi sono stati casi di
artisti sconosciuti che hanno avuto migliaia di visitatori e che li hanno resi
noti, anche se per poco. Riferendosi a You Tube parliamo sempre di usufruire di
musica “a gratis”.
Nel dettaglio, ne
abbiamo la fruizione, mediante la visione, ma non il possesso, nel senso che non
è possibile (a livello teorico, a livello pratico gli smanettoni informatici
riescono) scaricare i video dalla piattaforma di You Tube; ne deriva che per
poter vedere et sentire dei video su You Tube occorre essere connessi al
web.
Con il passaggio della
Apple dalla nicchia al mondo “consumers”, la ditta di Cupertino ha lanciato,
dopo l’Ipod, la piattaforma di vendita musicale
digitale iTunes.
In pratica dalla
piattaforma iTunes, così come dalle successive che si sono presentate sul
mercato, comeAmazon ed altre, è possibile scaricare un singolo brano – file di
un artista, pagando 1 eurouro. Oppure più brani, oppure anche tutto un album. Il
tutto legittimamente, con tanto di ricevuta ufficiale. L’applicazione di iTunes
scarica poi dei files di eccezionale qualità, degli AAC, Il formato Advanced
Audio Coding (AAC) è un formato di compressione audio creato dal consorzio MPEG e incluso
ufficialmente negli standard MPEG-4 ed MPEG-2. L'AAC fornisce una
qualità audio superiore al formato MP3 a parità di fattore di
compressione. Questo formato consente alla Apple di gestire i diritti
d'autore DRM (AAC
Protected).
In tutto questo
turbinio di cambiamenti tecnici, comportamentali, consumistici, sia le case
discografiche, sia il mondo delle radio, hanno anche loro, subito
modifiche.
Delle case musicali so
poco, se non che molte hanno chiuso, molte altre sono state rilevate ed oggetto
di accorpamento, lasciando sul mercato soltanto pochi grandi soggetti, che
chiameremo le Major.
Sono comparse, in
contrappeso, una miriade di piccole medie case discografiche cosiddette “indie”
= indipendenti, con tanto di MEI = Mercato Etichette Indipendenti, ed un
festival, che da qualche anno si tiene alla fine di settembre, a Faenza. Molti
artisti hanno lasciato le Major per passare, contrattualmente, a piccole case
discografiche indie. Uno dei motivi che spinge l’artista ad abbandonare la Major
per il passaggio alla Indie è la maggiore possibilità che quest’ultima dà allo
stesso di esprimere la propria vena artistica.
Viceversa, la Major,
tende a conformare l’artista a quelle che sono le sue politiche di vendita, in
alcuni casi può portare l’artista allo snaturarsi e ad allontanarsi troppo dalla
sua vena artistica, impoverendolo, fino a farlo diventare succube della Major.
Una delle occasioni per avvicinarsi alla musica indipendente è la manifestazione
‘kermesse’ che si tiene da qualche anno verso la fine di settembre a Faenza, il
MEI, Mercato Etichette Indipendenti.
Le radio sono un altro
non secondario capitolo della musica. In Italia fino agli anni ’90 abbiamo avuto
le radio libere. Oggi abbiamo i network, come ad esempio Rete 105, Radio
Capital, eccetera. Ma siamo ad un lontano ricordo del mondo della radio libere
degli anni fine ’70 e degli anni ’80. La musica oggi non è più “libera”, ma
canalizzata dalle esigenze commerciali.
Dell’esperienza delle
radio libere rimane alla fine, ben poco. Qualche radio residuale, come a Bologna
Radio città Fujiko, o radio Città del Capo. Per il resto quella esperienza è
rimasta un ricordo.
L’oggi della radio
sono i network, e la trasmissione via web o via Digitale per quelle radio che
possono permetterselo, per i costi degli impianti, via web e via digitale. In
attesa di vedere come ancora potrà evolversi lo strumento “radio” ed il mercato
che ci gravita attorno.
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