giovedì 6 marzo 2014

MASADA 1520 LA GRANDE BELLEZZA


MASADA n° 1520 6-3-2014  LA GRANDE BELLEZZA- UN TRASH DI BERLUSCONI
Blog di Viviana Vivarelli

Critiche contrastanti - Gli eterni inciuci italiani sottostanti il film – Sergio Cori di Modigliani: un prodotto Pd-Pdl-Lega– I monopoli nel cinema come nella musica –  Pochi plutocrati distruggono l’arte italiana: la grande ipocrisia - In Italia si vince solo attraverso il Pd o Berlusconi – Come i partiti distruggono quello che era il Paese più produttivo di arte del mondo - Un premio alla volgarità e allo strapotere – Un film imposto come moda per motivi politici – ‘La grande vuotezza,’ di Travaglio- Siamo persi- Il monopolio delle etichette musicali

(Jep Gambardella)
“Le vedi queste persone? Questa fauna? Questa è la mia vita. E non è niente.”

"La più sorprendente scoperta che ho fatto subito dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare!"

"È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l'emozione e la paura… Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile."

"Sull'orlo della disperazione, non ci resta che farci compagnia, prenderci un po' in giro!"

"Diamo sempre il meglio di noi agli sconosciuti”.

Tutti parlano di questo film che ha vinto l’Oscar al festival di Cannes, come migliore film straniero (più altri premi), perché ‘La grande bellezza’ è stata prodotta da Berlusconi e Canale 5 l'ha mandato gratuitamente in televisione, perché Berlusconi facesse la ruota e si rifacesse una nomea di gran manager. E’ un film di Mediaset che ha avuto una enorme pubblicità e un boom di ascolti in tv, 9 milioni, più del 36%, diventando  il film più visto degli ultimi dieci anni sulla televisione italiana.  Sia nella critica che nel pubblico i giudizi si sono spaccati tra coloro che lo ritengono un prodotto trash, inguardabile, e quelli che lo esaltano appassionatamente. Ma, leggendo le recensioni, si capisce subito che l’interesse per il film va ben oltre il regista Sorrentino o l’Oscar e si appunta su Berlusconi e lo stile che lo rende famoso, più molte altre cose che sono guasti della società contemporanea e non riguardano tanto la storia, o piuttosto la non-storia, del film, quanto il ruolo che Berlusconi ha nella società italiana e l’inviluppo di interessi non propriamente artistici che si appuntano sull’opera cinematografica come su qualunque prodotto d’arte, musica, pittura, editoria ecc.  oggi In Italia.
Un critico cinematografico su Il fatto Quotidiano si è molto irritato perché molti dicevano che il film era orribile, senza capo né coda, e ha reagito asserendo che solo chi si intende di cinema può dare giudizi, insomma, secondo lui, solo pochi critici cinematografici  avrebbero il diritto di dire che il film piace loro o no, dopo di che è stato pesantemente sbertucciato.
C’è da considerare che i nostri cugini di Oltralpe non sono di solito molto benevoli con la cinematografia italiana. Il precedente premio Oscar per il miglior film straniero assegnato a noi risale al 1999 per La vita è bella di Roberto Benigni che fu premiato anche come miglior attore protagonista. Il film ricevette un terzo premio Oscar per la migliore colonna sonora.

Mentre la critica internazionale ha dato buoni giudizi su ‘La grande bellezza’, quella italiana si è divisa.

« Magari La grande bellezza si accontentasse di essere un brutto film. È piuttosto "un'esperienza emotiva inedita", ha scritto Walter Veltroni sul Messaggero.

« È un film disorganico, opulento, frammentario e sfacciato, ma anche bello da ridurti in lacrime, questo omaggio alla Capitale firmato da Paolo Sorrentino.”
(Alessia Starace, recensione su Movieplayer.it, 21 maggio 2013)

Molto discusso anche il paragone con un film dello stesso genere, critica sociale di tipo onirico attorno alla città di Roma: ‘La dolce vita’ di Fellini (per altri ‘La terrazza di Scola, che attaccava direttamente i politici romani). Per taluni il paragone stesso con Fellini è improprio o è una bestemmia, per altri Sorrentino ripropone una imitazione scadente che difetta proprio di quei caratteri fantastici e nostalgici e di quegli elementi di simpatia umana che connotavano La dolce vita, paragonando il dolcissimo e decadente Mastroianni al vacuo e farfugliante Toni Servillo o le metafore trasfigurate e dunque artistiche dei personaggi felliniani con quelli pacchiani e dunque solo di cattivo gusto di Sorrentino.

Discutibile questo giudizio:
« La grande bellezza sta a La dolce vita come la via Veneto di oggi sta alla via Veneto del 1959. Adesso è solo una strada di hotel di lusso dove è vano ricercare il clima notturno di un tempo: i caffè affollati di artisti e intellettuali, le scorribande di divi e fotografi, i night-club frequentati da una variegata fauna di nobili, perdigiorno e letterati.”
(Alessandra Levantesi Kezich, recensione su La Stampa, 21 maggio 2013)

Ma discutibile anche questo:
« Con tutte le rughe, gli eccessi, la sovrabbondanza di scene e "finali", il difficile paragone con Fellini e quant'altro gli si voglia attribuire come difetto io da semplice appassionato spettatore dico Capolavoro Indimenticabile!! Perché davvero emozionante e sincero.” (di quale sincerità parla? mai visto film più vuoto e artificiale!)
(Luciano Stella, recensione su L'Huffington Post, 17 gennaio 2014)

C’è poi tutto un risvolto politico da considerare per i legami con Berlusconi, legami non solo economici, essendo La grande bellezza un prodotto Mediaset, ma proprio di stile, di cattivo gusto, di italianità deteriore, di strapotere plutocratico, essendo la produzione del film frutto del solito inciucio tra interessi politici contrapposti con la compresenza di conflitti di interesse che tanti piddini continuano a ignorare.

SERGIO DI CORI MODIGLIANI
(che a me piace molto e di cui leggo il blog sempre) ha scritto:

Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell'ex premier, Giampaolo Letta, il più importante dei quattro baroni del cinema italiano il cui compito principale consiste nell'impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull'industria cinematografica. E' l'amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset.
Il vero Oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano.
Ma nessuno in Italia lo ha detto.
E' un prodotto PDL-PD-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.
In teoria (ma soltanto in teoria) è stato prodotto da Nicola Giuliano e Francesca Cima (quota PD di stretta marca burocratica di scuola veltroniana) per conto della Indigo Film, i quali -senza Berlusconi- non sarebbero stati in grado neppure di pagarsi le spese dell'ufficio, dato che su 9 milioni di euro di budget, il buon Berluska ne ha messi 6,5. E' stata buttata dentro anche la Lega Nord, che ha partecipato con la Banca Popolare di Vicenza (500 mila euro come favore amicale, ma va?) e con la sponsorizzazione del Biscottificio Verona (in tutto il film non si vede neppure una volta qualcuno mangiare uno dei suoi biscotti), entrambe le aziende vogliose di entrare nel grande giro (sono bastate due telefonate per convincerli).
Grazie alla malleverie politiche, attraverso fondazioni di partito hanno ottenuto altri 2 milioni di euro incrociati: il PD se li è fatti dare grazie al solerte lavoro di relazioni europee attraverso il "programma Media Europa" (650 mila euro) mentre Renata Polverini ha partecipato alla produzione dando 500 mila euro per conto della Presidenza Regione Lazio attraverso il "fondo per il cinema e audiovisivi per il rilancio delle attività cinematografiche dei giovani" (soldi che ha dato a Giampaolo Letta, sulla carta lui sarebbe "il giovane" che andava aiutato). Nicola Giuliano ha messo su la squadra partitica. In teoria fa il produttore, ma fa anche il docente, il consulente. Ha la cattedra al corso di produzione della Scuola nazionale di cinema di Roma, ma allo stesso tempo ha anche la cattedra di docente di produzione cinematografica presso l'Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, oltre che docente di "low cost production" a San Antonio De los Banos nell'isola di Cuba e consulente per la Rai. E' un funzionario tuttofare che mette su pacchetti partitici, il che poco ha a che fare con il cinema, ma molto ha a che vedere con l'idea italiana di come si fa il cinema.
O meglio: molto ha a che fare con l'idea di come si uccide e si annienta una cinematografia.
Secondo gli esaltatori di questo "prodotto Italia", il film vincente aprirebbe la strada a investimenti, stimolando i giovani autori e lanciando il nuovo cinema italiano; mentre, invece, l'unico risultato che otterrà sarà quello di far capire a tutti, come severo ammonimento, che "o prendete la tessera di Forza Italia/PD oppure non lavorate" chiarendo a chiunque intenda investire anche 1 euro nel cinema che bisogna però passare attraverso la griglia dell'italianità partitica, il che metterà in fuga chi di cinema si occupa e attirerà invece squali di diversa natura il cui unico obiettivo consiste nel fare affari lucrosi in Italia con Berlusconi e il PD, in tutt'altri lidi. 
I giovani autori, i cineasti italiani in erba, le giovani produzioni speranzose, il cinema indipendente, ricevono da questo premio un danno colossale perché il segnale che viene dato loro è quella della contundente italianità, quella della Grande Ipocrisia, la vera cifra di questo paese che si rifiuta di aprire il mercato ai meritevoli, ai competenti, a quelli senza tessera.

Il film ha vinto esattamente nello stesso modo in cui aveva vinto "Nuovo cinema Paradiso" nel 1990.
Due parole tecniche per spiegarvi come funziona il meccanismo di votazione dell'Oscar.
Per votare bisogna essere iscritti al MPAA (Motion Pictures Academy of Art) e bisogna essere sindacalizzati; dal 1960 vale anche il principio per cui chi è disoccupato non vota, nel senso che bisogna dimostrare con documenti alla mano che "si sta lavorando" da almeno gli ultimi 24 mesi ininterrottamente, garantendosi in tal modo il voto di chi sta veramente dentro al mercato. Perché per gli americani l'unica cosa che conta per davvero è il mercato, per questo Woody Allen (autore indipendente) detesta Hollywood e non ci va mai, la considera una truffa. I votanti sono all'incirca 6.000 e sono presenti tutte le categorie dei lavoratori (si chiamano industry workers): produttori, registi, sceneggiatori, direttori di fotografia, macchinisti, tecnici del suono, delle luci, scenografi, sarti, guardarobiere, guardie di sicurezza, perfino i gestori degli appalti per gestire i catering sul set, ecc. Ogni voto vale uno, il che vuol dire che il voto di Steven Spielberg vale quanto quello di un ragazzino il cui lavoro consiste nel tenere l'asta del microfono in direzione della bocca del divo di turno nel corso delle riprese, purché lo faccia da almeno due anni e paghi i contributi. Quando si avvicina il giorno della votazione scattano i cosiddetti "pacchetti" e a Los Angeles la lotta è furibonda e comincia la caccia già verso i primi di novembre, con i responsabili marketing degli "studios" (sarebbero le grandi majors) che minacciano, ricattano, assumono, licenziano, per convincere chi ha bisogno di lavorare a votare per chi dicono loro. Per ciò che riguarda i film stranieri la procedura è la stessa ma su un altro binario: vale il cosiddetto "principio Hoover" lanciato dal capo del FBI alla fine degli anni'50: vince la nazione che più di ogni altra in assoluto farà fare affari alle sei grosse produzioni che contano, acquistando i suoi prodotti. E' il motivo per cui l'Italia è la nazione al mondo che ha collezionato più Oscar di tutti (la più serva e deferente) e la Russia e il Giappone quelle che ne hanno presi di meno. Quando l'Italia, per motivi politici (o di affari) ha bisogno dell'Oscar, allora costruisce un poderoso business (per la serie: vi compro questi quattro telefilm che nessuno al mondo vuole e ve li pago tre volte il suo valore) e lo va a proporre a società di intermediazione di Los Angeles collegate ai due sindacati più potenti californiani, da 40 anni gestiti da famiglie calabresi e siciliane, quelli che danno lavoro alla manovalanza tecnica e gestiscono i pacchetti, dato che controllano il 65% dei voti complessivi. Per i film stranieri bisogna avere un forte "endorsement", ovvero un sostegno di persona nota nell'industria che garantisce a nome dei sindacati, come è avvenuto quest'anno con Martin Scorsese che si è fatto il giro presso la comunità di amici degli amici a Brooklyn.
Nel 1989 accadde la stessa cosa: Berlusconi doveva entrare nel mercato americano per mettere su un gigantesco business (quello per il quale è stato definitivamente condannato dalla Cassazione, il cosiddetto "processo media-trade"); doveva entrare a Hollywood dalla porta principale con la Pentafilm. Ma non c'erano film italiani che valessero, era già piombata la mannaia dei partiti, tanto è vero che perfino il compianto Fellini girava a vuoto da un produttore all'altro ed era disoccupato, motivo per cui finì per ammalarsi. Alla fine, l'abile Berlusconi riuscì a convincere il più intelligente e bravo produttore di quei tempi (che se la passava maluccio) Franco Cristaldi, a dargli un prodotto perché lui doveva vincere comunque. Cristaldi era disperato e non sapeva che cosa fare perché non poteva fare delle figuracce con gli americani che conoscono il buon cinema e non è facile ingannarli, ma si fece venire in mente un'idea geniale. Aveva fatto una marchetta con Raitre e aveva prodotto un film "Nuovo Cinema Paradiso" che era stato un flop clamoroso, sia alla tivvù, con indici di ascolto minimi, che al cinema, dove era uscito e dopo dieci giorni era stato ritirato per mancanza di pubblico. Il film durava 155 minuti ed era, francamente inguardabile, di una noia mortale. Senza dire nulla al regista, Cristaldi ci lavorò da solo -letteralmente- per tre mesi. Rimontò totalmente il film, tagliò e buttò via 72 minuti e usando dei filtri cambiò anche le luci, riuscendo anche a modificare dei dialoghi. Lo fece uscire in Usa dove ottenne un buon successo di critica, sufficiente per passare. Berlusconi fu contento ma non gli diede ciò che era stato pattuito. Il giorno in cui Tornatore prese l'Oscar, nel 1990, accadde un fatto inaudito per la comunità hollywoodiana. La statuetta venne data al regista e all'improvviso Franco Cristaldi fece un salto sul palco, si avvicinò, strappò di mano la statuetta a Tornatore, prese il microfono in mano e disse "questo Oscar è mio, questo premio l'ho vinto io, questo è il mio film, questo è un film del produttore". Fu l'inizio della fine della sua carriera in Italia, perché il giorno dopo l'intera critica statunitense (in Italia non venne mai fatta neppure menzione degli eventi) lo volle intervistare e lui raccontò come i partiti stessero distruggendo quella che un tempo era stata una delle più importanti industrie cinematografiche del mondo. Lo scaricarono tutti in Italia e finì per lavorare all'estero. Di lì a qualche anno morì. Fu in quell'occasione che Tornatore, in una intervista, spiegò come si faceva il regista in Italia: "Bisogna occuparsi di politica, quella è la strada. Io mi sono iscritto al PCI e poi sono riuscito a farmi eleggere alle elezioni comunali in un piccolo paesino della Calabria dove sono diventato assessore. Mi davano da firmare delle carte e io firmavo senza neppure leggerle, dovevo fare soltanto quello. Dopo un po' di tempo mi hanno detto che potevo anche dimettermi e andare a Roma a fare i film". Aveva ragione lui: in Italia funziona così.
24 anni dopo è la stessa cosa, con l'aggravante del tempo trascorso.
"La Grande Bellezza" appartiene a questo filone dell'italianità e il solo fatto di accostarlo a Fellini o a De Sica è un insulto all'intelligenza collettiva della nazione: è una marchetta politica.
E si vede, si sente, lo si capisce; nell'arte non si riesce a mentire perché l'arte è basata su uno squisito paradosso: poiché è finzione totale -e quindi menzogna pura- chi la produce non può darla ad intendere perché la verità sottostante salta sempre fuori.
E' la cartolina di un piccolo-borghese costruita (a tavolino) per venire incontro agli stereotipi degli americani votanti, attraverso un'operazione intellettualistica che non regala emozioni, ma soltanto suggestioni di provenienza pubblicitaria marketing negativa. In maniera ingegnosa e diabolicamente perversa propone delle maschere in un paese dove la verità artistica passa, invece, nella necessità dello smascheramento, cioè nel suo opposto. 
E' la quintessenza del paradosso italiano trasformato nel consueto ossimoro: un brutto film che si pone e si qualifica come la Grande Bellezza; proprio come Mario Monti che lanciò il decreto "salva Italia" che ha affondato il paese e Letta (Enrico) che lanciò il "governo del fare" licenziato dopo pochi mesi perché non è riuscito a fare nulla.
Il film, davvero noioso e privo di spessore, è un prodotto subliminare, promosso dai partiti politici italiani al governo solo e soltanto dopo che i due protagonisti, Toni Servillo e Paolo Sorrentino, si sono messi pubblicamente a disposizione della famiglia Letta. Il film, infatti, doveva uscire a settembre del 2013, ma hanno anticipato l'uscita a giugno perché era il momento in cui era assolutamente necessario usare ogni mezzo per poter azzannare l'opposizione. Il 7 giugno del 2013, Servillo e Sorrentino, vengono invitati da Lilli Gruber nella sua trasmissione "8 e 1/2" per l'emittente La7. L'intervista dura 32 minuti. I primi 20 minuti sono noiosi e si parla del film che, si capisce da come andava l'intervista, nessuno avrebbe mai visto. Dal 21° minuto in poi, avviene la svolta, fino alla fine. L'attore e il regista, ben imboccati dalla Gruber, si lanciano in un attacco politico personale contro Beppe Grillo e il M5S. Un fatto che non aveva alcun senso, dato che si trattava di un film che nulla -per nessun motivo- aveva a che fare con la vita politica italiana e con il dibattito in corso. Servillo fu durissimo nel sostenere a un certo punto che "mi faccio dei nemici ma me li faccio volentieri" spiegando ai telespettatori (che pensavano di ascoltare un attore che parlava di cinema) come "Grillo ripropone un'immagine di leader vecchio che passa da Masaniello a Berlusconi" -cioè il suo produttore- "e usa un linguaggio violento....". Sorrentino gli andò dietro e insieme, per dei motivi incomprensibili a chiunque si occupi di cinema in qualunque parte del mondo (tranne che in Italia) spiegavano che il M5s "è un movimento che vuole togliere la sovranità al parlamento". 


Da quel momento i due sono andati in giro a promuovere il loro film in ambito politico nazionale allertando la popolazione sul pericolo rappresentato dal M5S e così, l'establishment nazionale, l'ha imposto come moda propagandandolo in maniera esorbitante.
Riguardando quell'intervista, ho scoperto, pertanto, che Toni Servillo ha stabilito che io sono un suo nemico. Non lo sapevo. Ieri sera, la Gruber, sempre attenta nel rispettare i codici della rappresentanza che conta, ha dedicato un'altra intervista al film, ma in questo caso ha invitato Walter Veltroni.  Forse c'è stato qualche telespettatore che si sarà chiesto "ma che cosa c'entra con questo film?".Appunto.
..
Estratto da: "La Grande Ipocrisia. Trionfano le larghe intese consociative spacciandole per prodotto Italia."
.
Feroce l'articolo di Travaglio:

LA GRANDE VUOTEZZA
Marco Travaglio

“Dopo gli Oscar per i migliori film ci vorrebbe un Oscaretto per i migliori commenti italiani agli Oscar. Provinciali, retorici, cialtroni, pizzaemandolineschi. Un po’ come dopo le partite dei Mondiali quando vince l’Italia: il patriottismo ritrovato, l’orgoglio tricolore, il riscatto nazionale, l’ottimismo della volontà, la metafora del Paese che rinasce, il sole sui colli fatali di Roma. Questa volta però, con l’Oscar a La grande bellezza, c’è un di più: l’esultanza di chi s’è fermato al titolo, senza capire che è paradossale come tutto il film. Ecco: quello di Sorrentino è il miglior film straniero anche e soprattutto in Italia. Il Corriere fa dire al regista che “con me vince l’Italia”, ma è altamente improbabile che l’abbia solo pensato: infatti ha dedicato l’Oscar alla famiglia reale e artistica, al Cinema e agli idoli adolescenziali (compreso – che Dio lo perdoni – Maradona, inteso però come il fantasista del calcio, non del fisco)”.
Eppure Johnny Riotta, sulla Stampa, vede nel film addirittura “un monito” e spera “che la vittoria riporti un po’ di ottimismo in giro da noi”. E perché mai? Pier Silvio B., poveretto, compra pagine di giornali per salutare l’ “avventura meravigliosa” sotto il marchio Mediaset. Sallusti vede nell’Oscar a un film coprodotto e distribuito da Medusa la rivincita giudiziaria del padrone pregiudicato (per una storia di creste su film stranieri): “Ci son voluti gli americani, direi il mondo intero, per riconoscere che Mediaset non è l’associazione a delinquere immaginata dai magistrati”. Ora magari Ghedini e Coppi allegheranno l’Oscar all’istanza di revisione del processo al Cainano. “Oggi – scrive su Repubblica Daniela D’Antonio, moglie giornalista di Sorrentino – ho scoperto di avere tantissimi amici”. Infatti Renzi invita “Paolo per una chiacchierata a tutto campo”. Napolitano sente “l’orgoglio di un certo patriottismo” per un “film che intriga per la rappresentazione dell’oggi”. Contento lui. Alemanno, erede diretto dei Vandali, Visigoti e Lanzichenecchi, vaneggia di “investire nella bellezza di Roma e nel suo immenso patrimonio artistico”.
Franceschini, ex ministro del governo Letta che diede un’altra sforbiciata al tax credit del cinema, sproloquia di un “Paese che vince quando crede nei suoi talenti” e di “iniezione di fiducia nell’Italia”. Fazio, reduce da un Sanremo di rara bruttezza dedicato alla bellezza, con raccapricciante scenografia color caco marcio, vuole “restituire” e “riparare la grande bellezza”. Il sindaco Marino rende noto di aver “detto a Paolo che lo aspetto a Roma a braccia aperte per festeggiare lui e il film, per il prestigio che ha donato alla nostra città e al nostro Paese”. Ma che film ha visto? È così difficile distinguere un film da una guida turistica della proloco? In realtà, come scrive Stenio Solinas sul Giornale, quello di Sorrentino “è il film più malinconico, decadente e reazionario degli ultimi anni, epitaffio a ciglio asciutto sulla modernità e i suoi disastri”. Il referto medico-legale in forma artistica di un Paese morto di futilità e inutilità, con una classe dirigente di scrittori che non scrivono, intellettuali che non pensano, poeti muti, giornalisti nani, imprenditori da buoncostume, chirurghi da botox, donne di professione “ricche”, cardinali debolucci sulla fede ma fortissimi in culinaria, mafiosi 2. 0 che sembrano brave persone, politici inesistenti (infatti non si vedono proprio). Una fauna umanoide disperata e disperante che non crede e non serve a nulla, nessuno fa il suo mestiere, tutti parlano da soli anche in compagnia e passano da una festa all’altra per nascondersi il proprio funerale. Si salva solo chi muore, o fugge in campagna. È un mondo pieno di vuoto che non può permettersi neppure il registro del tragico: infatti rimane nel grottesco. Scambiare il film per un inno al rinascimento di Roma (peraltro sfuggito ai più) o dell’Italia significa non averlo visto o, peggio, non averci capito una mazza. Come se la Romania promuovesse Dracula a eroe nazionale e i film su Nosferatu a spot della rinascita transilvana.
.
LA GRANDE BELLEZZA? UN SEGRETO FRA PAOLO SORRENTINO E IAN CURTIS

Una sera è capitato anche te, non fingere che non sia così. Hai fissato, con la solitudine di un uomo salito sull’autobus sbagliato, le persone che (a un metro da te) ballano e si dimenano con la più straziante e disperata delle allegrie postmoderne.
Dentro di te preghi che, entro un anno, si palesi un angelo sterminatore a fare piazza pulita di tutto questo. Poi il tempo passa, scorre ben oltre un anno e capisci una cosa. Che se quell’angelo sterminatore fosse arrivato con un po’ d’anticipo, magari di un decennio, avrebbe fatto fuori anche te. “Che ci facevi tu, lì?” è quello che ci domanda Paolo Sorrentino nel suo nuovo lavoro.
Perché tutti noi, ognuno a modo suo, siamo stati nel “luogo” di cui parla La grande bellezza, la differenza sta nell’essersene accorti o meno: “…è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura. Gli sparuti e incostanti sprazzi di bellezza, e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile”. Quel posto si chiama vita.
Sorrentino non ha fatto un remake tragico e grottesco della “Dolce vita”, ciò che forse prova a dirci è esattamente il contrario; e cioè che non è la “dolce vita” a trasformare gli esseri umani bensì sono loro ad avere il potere di ridurre la dolce vita stessa ad un oscena danza per dannati che non meritano nemmeno l’onestà dell’inferno. E al contempo, alcuni di questi dannati, sono lì per l’unico, degno, motivo per cui valga la pena respirare: cercare la “grande bellezza”.
Questo sparuto gruppo di prescelti ha compreso che la vera bellezza non teme l’orrore, il disgusto, la miseria mondana, bensì ti attende, da te inaspettata, dietro l’angolo. Vuole vedere se riesci a non giudicare e semplicemente a vivere, meglio che puoi, facendo i conti col più inutile cretino che il destino potesse affibbiarti, te stesso. Se batti quel cretino, dopo c’è “lei”.
A prescindere dagli esiti di Cannes, diciamo che “La grande bellezza” è un film che va atteso. Non è un film perfetto, grazie a Dio, quello di Sorrentino, è semplicemente un grande film, talmente grande da avere gli stessi pregi e gli stessi limiti di ciò che intende mostrare. Perfetti erano “Le conseguenze dell’amore” e “L’amico di famiglia” (li ho adorati). Grande era “L’uomo in più”.
Dovete fidarvi de “La grande bellezza” e quando avete l’impressione di ascoltare frasi un po’ scontate o assistere a sequenze coscientemente ridondanti, lasciatevi trafiggere da Servillo (nel film Jep Gambardella, scrittore di un unico romanzo che ora lavora per i giornali e trascorre le notti immerso nei fescennini moderni della capitale) che fissa la dignità e la lotta onesta di una spogliarellista e le dice “Mi sento vecchio”. 
Lasciate che sia un illusionista del circo che, ai piedi di una gigantesca giraffa, dice a Jep “Io posso farla sparire, ma mica sparisce davvero, è solo un trucco…” o un’annoiata bambina che durante i partieS della Roma bene dipinge, in una sorta di furiosa trance, gettando secchi di vernice addosso alla tela e a se stessa, uscendone dipinta e stremata anche lei.
Lasciate ancora che Jep sistemi una sua cara amica scrittrice molto “civile” e “impegnata” e le spieghi sbugiardandone l’afrore politicamente corretto, per quale forma di impegno era nota, ai tempi dell’università, nei bagni dei ragazzi, quale casa editrice (legata ai piccoli salottini del “partito”) abbia pubblicato le sue seghine, e con quale giovane la tradisca, sotto gli occhi di tutti, il suo compagno.
Lasciate ancora che Jep incontri, per intervistarla, una di queste artiste performer “off” e la tratti per quella piccola miserabile e modaiola ladruncola di tempo altrui che è, domandandole il senso delle parole che lei stessa usa “Io vivo di vibrazioni…” e lui la inchioda: “Mi dica che cos’è una vibrazione” (non ricordo se dicono “vibrazioni” o “emozioni”, ma insomma ci siamo capiti, lei è una cazzara e lui è troppo vecchio e stanco per far finta di niente). 
E lasciate infine che vi venga da ridere all’idea che una vecchia suora sdentata convochi, all’alba, uno stormo di gru sul terrazzo di Jep e senza voltarsi verso di lui gli dica “conosco i nomi di battesimo di ognuno di questi uccelli”. Riderete di meno e sarete più vicini al segreto della “Grande bellezza” quando un soffio di quella vecchia diverrà un ordine ancestrale e lo stormo di uccelli prenderà il volo nel cielo di una Roma che dorme, sfinita, dopo aver danzato.
La danza, il continuo, perpetuo, implacabile partecipare ad una danza, è il codice di accesso alla comprensione del film di Sorrentino. L’idea che ognuno di noi, a modo suo, stia tenendo il ritmo di qualcosa. Un qualcosa al cui ritmo danziamo da avvocati, da muratori, da medici, da operai, da giornalisti, da disoccupati, da uomini, da donne, etc. Ieri a Roma c’erano i comizi di chiusura della campagna elettorale per la corsa a sindaco. Piazze diverse, ma manifestazioni del tutto simili come messa in scena. Slogan, entusiasmo da sala di rianimazione e tanta retorica (fosse anche quella dell’antiretorica che usa slogan contro gli slogan).
Chi stava sul palco, chi se ne stava sotto e chi – incluso me – assiste a tutto questo davanti ad una tv credendo di essere in salvo, stanno tutti danzando. Tengono il ritmo di qualcosa. Ha ragione adesso Jep Gambardella. Aveva ragione, allora, anche Ian Curtis.
Perché a volte un tic sembra assalirci e crediamo che certe cose stiano cambiando, ma in realtà stanno solo cambiando ritmo; chi mette la musica si attende che noi non smettiamo di ballare. A volte, nei momenti più oscuri, penso quasi che la musica ormai si “metta” da sola; qualunque despota in carne ed ossa si sarebbe già annoiato di vederci danzare. Sudati, forzatamente sorridenti e senza fantasia.
And we would go on as though nothing was wrong.
And hide from these days we remained all alone.
Staying in the same place, just staying out the time.
Touching from a distance,
Further all the time.
(…)
No language, just sound, that’s all we need know, to synchronise
love to the beat of the show.
And we could dance.
Dance, dance, dance, dance, dance, to the radio.
Dance, dance, dance, dance, dance, to the radio.
Dance, dance, dance, dance, dance, to the radio.
Dance, dance, dance, dance, dance, to the radio.
.
A me il film non è piaciuto
Viviana
Io la valenza politica non la sapevo, ho visto il film con curiosità per il battage pubblicitario e sono rimasta delusa
Non mi è piaciuto nulla, storia non c'è, evoluzione nemmeno, nessuna emozione ma nemmeno uno spettacolo interessante come nei film di Fellini fantastici, misteriosi e nostalgici, recitazione zero, personaggi privi di spessore, macchiette senza storia, senza futuro o passato, congelati in un presente vacuo fatto di niente dove non stanno in piedi nemmeno i rapporti reciproci e non si costruisce un minimo di carattere, fantasia, niente... ma cosa ha voluto dire questo film? Si può anche fare una descrizione d'ambiente ma qui manca anche l'ambiente. E' tutto falso, talmente falso che alla fine il film stesso è falso. Ci può essere molta verità anche nel sogno, nella metafora, nella poesia, nella trasfigurazione dell’orrido (pensiamo a Bunuel o a Visconti), ma qui non c’è niente. Sembra di sentire l’urlo della Taverna “Voi non siete gnente, gnente, gnente!”
Alla fine non resta in mente nulla, né una battuta, né un'emozione, una scena, una invenzione. Il vuoto che racconta se stesso in modo vacuo. Non è un film di denuncia, né di psicologia, di storia o di costume. E’ gnente. E non parla di niente.
Francamente io non gli avrei dato nessun premio.
Adoro i film come prodotto complesso di cui ammiro la musica, la storia, le scene, il montaggio, la recitazione, la psicologia, i significati, i caratteri, la regia, ma qui stento a trovare qualcosa di pregevole. E' tutto così piatto e senza vita, siliconico.
Tutto così inutile. Non c'è nemmeno lo svolgimento di qualcosa. Come comincia così finisce, inutile a se stesso, e se proprio uno voleva fare dei complimenti a Roma, per fare un dossier turistico aziendale, poteva fotografarla anche meglio.
Il titolo del film, poi, resta una parola di cui non si capisce il senso.
Francamente ho visto film migliori. In questi giorni sono rimasta affascinata dall'ultimo di Tornatore: "La migliore offerta", in cui ci si trova coinvolti emozionalmente da subito in una storia originale, bellissima,c he unisce suspense a affetti, mistero a psicologia, bellezza e arte, e in cui partecipiamo all'evoluzione di un personaggio manchevole ma vivo e capace di mutamento. La sua palingenesi diventa la nostra. Il film è perfettamente riuscito. Questo è perfettamente mancato.

Da “La migliore offerta” traggo una frase, che è poi il leitmotiv del film di Tortnatore “In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico!"
Ma, mentre nel film di Tornatore il guizzo di autenticità è la riscoperta affettiva del protagonista, in quello di Sorrentino è solo lo strapotere economico e manipolatorio del produttore.

Dopo la grandissima noia provata durante 'La grande bellezza', film vuoto e vacuo sul nulla, pompato da una campagna pubblicitaria veramente immonda di troppi che erano in cerca di rivalse di ogni tipo e hanno proiettato sul film esigenze erettive e furbastre di ogni genere, ho visto un filmino, poco considerato, che mi ha fatto riprendere voglia di vivere e mi è piaciuto moltissimo. Sta passando su sky e nessuna giuria di Cannes o di Venezia lo considererà mai perché di pretese non ne ha, ma è gradevolisismo lo stesso: ‘La cuoca del presidente’.
Per me, che considero quella della cucina un'arte sublime e adoro i film sui cuochi, per me che ho come film cult preferito ‘Il pranzo di Babette’ e ‘Chef’ e come libro prediletto "La cuoca amorosa", è stato come una boccata di aria fresca, tanto più gradita dopo il disagio provato con Sorrentino. Diciamo che con La cuoca del presidente mi sono ‘rifatta la bocca’. In tutti i sensi.
Ovviamente a un film così a un  Oscar nemmeno lo presentano, i grandi cervelli che danno gli Oscar non hanno mai amato i film facili, quelli che fanno bene alla vita, e hanno sempre scelto con un certo sadismo le opere più sgradevoli e indigeribili. Ma non si vive di soli Oscar, per cui spero che possiate vedere su sky o scaricandolo dal web questo piccolo delizioso film, e spero che possiate gustarvi  anche il bellissimo e raffinato "L'ultima offerta" di Tornatore che mi ha veramente affascinato.
Adoro quelli che amano quello che fanno e che trasformano il loro lavoro in un capolavoro, ma adoro anche coloro che da una mancanza o da una sconfitta, "da una amarezza" sanno trarre il meglio di se stessi per se stessi e per gli altri perché anche evolvere è un capolavoro.
Sulle marcescenze dei personaggi da discarica stendiamo un velo pietoso e lasciamoli, appunto, nelle loro discariche.
Ma in questo bizzarro paragone tra due film io propongo anche un recupero a cui terrei molto. Se ‘La grande bellezza’ è il trionfo della stupidità, del cattivo gusto, del trash spacciati per arte grazie alla violenza  di qualche squalo come Berlusconi che il merito lo calpesta e al mondo vuol mostrare solo il suo potere e la sua ferocia, il piccolo film  ‘La cuoca del presidente’, in forma minore ma non diversa rispetto a ‘Il pranzo di Babette’ mostra esattamente il contrario: che anche in un mondo dove tutto si gioca in maniera gerarchica e le mode sono imposte con la forza, il merito può trovare in se stesso un premio al di fuori di qualunque gigantografia del potere.
..
Ieri ho visto "La grande bellezza". In realtà il titolo forse doveva essere "la grande ca…ta" ma qualcuno deve aver obbiettato che non stava bene una parolaccia nel titolo e allora si è deciso di cambiarlo lasciando la parola "grande" che è sempre d'effetto e mettere la posto della parolaccia una parola che avesse comunque la doppia Z, che suona bene e dà forza. Così è venuto fuori "La grande bellezza".
Un penoso quanto pretenzioso scimmiottamento di Fellini, senza né l'arte né i contenuti delle opere del grande artista, sognatore e regista.
Un'abbuffata gratuita di nudi di donne. Una giraffa a Caracalla. Antonello Venditti al tavolo di un ristorante. Una bambina isterica che imbratta una tela davanti a una platea impassibile. Una girandola forzata e inutilmente insistita di suore. Tocchi, improbabili anch'essi, di sacralità. Un bagno di luoghi comuni scontati, superati e stantii, comunque mal rappresentati. Un finale interminabile con una mostruosa suora-santa e il solito cardinale.
Insomma un'accozzaglia di personaggi e situazioni inverosimili e senza senso e tutto sommato di cattivo gusto.
Il personaggio protagonista non rappresenta niente e l'interpretazione di Servillo è a dir poco irritante, per non parlare del fatto che la metà di quello che dice non si capisce a causa del suo forzato napoletano "strascicato".
Ma la cosa più straordinaria è che più il film va avanti e meno ha senso, gettando nello sconforto anche il più benevolo degli spettatori.
Un "BRAVO!" a Carlo Verdone che ha dato la sua più grande e professionale prova d'attore, creando per altro un solco profondo tra se e il suo personaggio e tutto il resto del film.
Se questo film è da Oscar allora per "Il postino" tre Premi Nobel sono poco. De Sica e Fellini nella tomba non si sono rivoltati ma hanno fatto il triplo carpiato, raggruppato, ritornato. Benigni, Tornatore e Salvatores forse farebbero bene a restituire i loro di Oscar.
Infine questo film non è affatto un omaggio a Roma ma è l'ennesimo insulto gratuito e non troppo velato alla città eterna, un altro volgare schiaffone a questa grande Mamma che accoglie tanti figli, sempre meno naturali e sempre più adottivi ma tutti sempre tanto, troppo recalcitranti e ingrati.
Con fantozziana memoria mi verrebbe da dire "aridatece la Corazzata Potemkin" per cagata pazzesca che sia!
.
SIAMO PERSI
Giacomo Gasparetto
Carissima Viviana, da tempo ti leggo ed era da un po’ che volevo scriverti.
Siamo persi! Inizio la frase con un inciso che appartiene alla nostra società. Molte sarebbero le metafore che si potrebbero associare all’italiano medio di questi tempi: perso come un bambino che cerca la propria mamma al centro commerciale, sperduti come quando andiamo a naso per cercare un posto che non sappiamo trovare… Tutte situazioni dove le nostre capacità vengono sopraffatte dagli eventi.
La cosa che più mi lascia riflettere è che siamo persi e molti non se ne rendono conto. Da anni ormai la crisi ci segue e qualcuno fa finta di non vedere. I rapporti della Caritas in merito alla povertà sono allarmanti, ma c’è ancora qualcuno che sente la povertà distante dalla propria sfera.
Siamo persi economicamente, incapaci di comprendere ( sia per poca voglia, sia perché forse, sotto sotto ci va bene così) i meccanismi che governano l’inflazione e i nostri risparmi.
Siamo persi politicamente. Preferiamo dire” sono tutti ladri “ piuttosto che aprire gli occhi e vedere che siamo governati da persone neanche elette. Affermando che sono tutti ladri ci liberiamo la coscienza, siamo convinti di non aver responsabilità e poter continuare a vivere nel nostro torpore.
Siamo persi nei rapporti: Basti pensare ad una coppia che esce a cena e si ritrova una di  fronte all’altro con un cellulare che fa da barriera comunicativa. Non abbiamo più il gusto della parola, dell’abbraccio…
Siamo persi perché la nostra scuola è magistrocentrica estremamente contenutistica. Studiamo quasi esclusivamente per il voto, mentre la nostra cultura la sentiamo sempre meno.
Saremo persi anche fisicamente quando venderanno qualche nostro monumento, o qualche isola e svegliandoci la mattina non saremo più noi a gestire la nostra ricchezza.
Crolla Pompei, la reggia di Caserta è in una situazione di degrado, ma diamo priorità a nuove cementificazioni, progetti che tagliano monti, boschi.
Ci fermiamo a guardare oggetti di marca, seguiamo la moda, seguiamo le ultime tendenze senza renderci conto di essere soggiogati continuamente, di non essere più capaci a ragionare con la nostra testa ma seguire sempre il pensiero di altri.
Ma stiamo tranquilli, non ci sono problemi, anche noi italiani abbiamo la nostra ancora di salvezza, il nostro centro di gravità permanente. Abbiamo avuto Sanremo, abbiamo Renzi al governo,Silvio ce lo teniamo in Italia con gelosia e non gli vogliamo dare il passaporto, abbiamo le nomination alcoliche su face book e quant’altro. Non ci disperiamo, stiamo a guardare quello che ci accade intorno, occupiamoci di gossip e teniamo la testa sotto la sabbia così siamo tranquilli e sereni. Siamo in un’eterna meditazione, l’unica differenza è che chi medita sa quello che sta facendo, noi…
Mi ha fatto piacere scriverti. Un pensiero che scrivo seguendo il flusso dei pensieri, ascoltando musica.
Un abbraccio.
Giacomo Gasparetto
..
A indicare i monopoli esistenti in Italia in ogni campo che dovrebbe essere artistico riporto questo articolo che riguarda la musica leggera stendendo un ulteriore velo pietoso su manifestazioni altamente monopolizzate da pochi come il festival di San Remo.

Riflessioni sulla musica e la radio oggi, del Bolognese Volante

La musica e soprattutto come viene riprodotta, ha subito grandi cambiamenti negli ultimi venti anni. Così ha subito grandi cambiamenti il mercato della musica.
Per ora possiamo identificare quattro grandi passaggi epocali.
Il primo. La nascita del vinile, introdotto nel 1948 negli Stati Uniti come evoluzione dei precedenti dischi a 78 giri.
Il secondo. La nascita del CD = compact disc, inizio commercializzazione negli anni ’80, ma conosce la sua gloria negli anni ’90.
Il terzo. L’ultimo nato, come metodo di riproduzione della musica, in ordine di tempo è il file MP3, che altro non è che un algoritmo di compressione.
Senza entrare troppo nei tecnicismi, siamo passati da una pizza come il vecchio 33 giri in vinile, ad un piccolo cerchio di plastica, fino ad arrivare a qualcosa di “virtuale”, intangibile, come la musica ascoltata attraverso il computer, i lettori Mp3 (il più famoso è ovviamente l’Ipod della Apple), gli smartphone.
C’era la Hit-Parade, un appuntamento immancabile per gli appassionati della musica,  che vede la luce il  6 gennaio del 1967, venerdì alle ore 13, sotto l'egida di Lelio Luttazzi, già conduttore televisivo di Studio Uno, compositore di diverse canzoni di successo ma solo "per sbarcare il lunario", e appassionato di jazz, quindi in grado di guardare alla musica leggera con quel giusto distacco. Andata in onda dal 1967 fino al 1973, quando il suo posto verrà preso da Dischi caldi di Giancarlo Guardabassi. Erano anni in cui un 33 giri di successo restava ai vertici per molti mesi. A volte anche per un anno intero.
Il quarto. Poi arrivò il fenomeno Napolitanoster. Per le case discografiche fu come un fulmine a ciel sereno. Nell’estate del 1999 partì la piattaforma che avrebbe radicalmente cambiato le abitudini dei consumatori e le entrate delle case discografiche. Da quella estate milioni di utenti che avevano una connessione ad Internet si resero conto di come fosse facile, comodo e risparmioso scaricare “a gratis” files musicali a go go. Addirittura interi album. Bastava aspettare. In pratica bastava collegarsi ad un sito internet, Napolitanoster, cercare l’oggetto del desiderio, e se presente, effettuare il download. L’albero della Cuccagna Napolitanoster si ritrovò ben presto sotto il fuoco incrociato della case discografiche, che nel giugno del 2001 ne decreteranno la chiusura per violazione dei diritti d’autore. Da allora è stato un susseguirsi di piattaforme tecnologiche “peer to peer” per sostituire il compianto Napolitanoster. WinMix, che ebbe vita fino al 2005, KaZaa, fino ad arrivare agli ancora sfruttati ed inossidabili Emule e uTorrent.
Un'altra rivoluzione nell’ascoltare la musica è stata introdotta però anche da You Tube. Nato nel 2005, è ormai tra le principali fonti da cui non solo ascoltare musica, ma anche vedere i relativi video dei brani. Da segnalare che su You Tube chiunque può pubblicare un proprio video con la propria canzone. Vi sono stati  casi di artisti sconosciuti che hanno avuto migliaia di visitatori e che li hanno resi noti, anche se per poco. Riferendosi a You Tube parliamo sempre di usufruire di musica “a gratis”.
Nel dettaglio, ne abbiamo la fruizione, mediante la visione, ma non il possesso, nel senso che non è possibile (a livello teorico, a livello pratico gli smanettoni informatici riescono) scaricare i video dalla piattaforma di You Tube; ne deriva che per poter vedere et sentire dei video su You Tube occorre essere connessi al web.
Con il passaggio della Apple dalla nicchia al mondo “consumers”, la ditta di Cupertino ha lanciato, dopo l’Ipod, la piattaforma di vendita musicale digitale iTunes.
In pratica dalla piattaforma iTunes, così come dalle successive che si sono presentate sul mercato, comeAmazon ed altre, è possibile scaricare un singolo brano – file di un artista, pagando 1 eurouro. Oppure più brani, oppure anche tutto un album. Il tutto legittimamente, con tanto di ricevuta ufficiale. L’applicazione di iTunes scarica poi dei files di eccezionale qualità, degli AAC, Il formato Advanced Audio Coding (AAC) è un formato di compressione audio creato dal consorzio MPEG e incluso ufficialmente negli standard MPEG-4 ed MPEG-2. L'AAC fornisce una qualità audio superiore al formato MP3 a parità di fattore di compressione. Questo formato consente alla Apple di gestire i diritti d'autore DRM (AAC Protected).
In tutto questo turbinio di cambiamenti tecnici, comportamentali, consumistici, sia le case discografiche, sia il mondo delle radio, hanno anche loro, subito modifiche.
Delle case musicali so poco, se non che molte hanno chiuso, molte altre sono state rilevate ed oggetto di accorpamento, lasciando sul mercato soltanto pochi grandi soggetti, che chiameremo le Major.
Sono comparse, in contrappeso, una miriade di piccole medie case discografiche cosiddette “indie”  = indipendenti, con tanto di MEI = Mercato Etichette Indipendenti, ed un festival, che da qualche anno si tiene alla fine di settembre, a Faenza. Molti artisti hanno lasciato le Major per passare, contrattualmente, a piccole case discografiche indie. Uno dei motivi che spinge l’artista ad abbandonare la Major per il passaggio alla Indie è la maggiore possibilità che quest’ultima dà allo stesso di esprimere la propria vena artistica.
Viceversa, la Major, tende a conformare l’artista a quelle che sono le sue politiche di vendita, in alcuni casi può portare l’artista allo snaturarsi e ad allontanarsi troppo dalla sua vena artistica, impoverendolo, fino a farlo diventare succube della Major. Una delle occasioni per avvicinarsi alla musica indipendente è la manifestazione ‘kermesse’ che si tiene da qualche anno verso la fine di settembre a Faenza, il MEI, Mercato Etichette Indipendenti.
Le radio sono un altro non secondario capitolo della musica. In Italia fino agli anni ’90 abbiamo avuto le radio libere. Oggi abbiamo i network, come ad esempio Rete 105, Radio Capital, eccetera. Ma siamo ad un lontano ricordo del mondo della radio libere degli anni fine ’70 e degli anni ’80. La musica oggi non è più “libera”, ma canalizzata dalle esigenze commerciali.
Dell’esperienza delle radio libere rimane alla fine, ben poco. Qualche radio residuale, come a Bologna Radio città Fujiko, o radio Città del Capo. Per il resto quella esperienza è rimasta un ricordo.
L’oggi della radio sono i network, e la trasmissione via web o via Digitale per quelle radio che possono permetterselo, per i costi degli impianti, via web e via digitale. In attesa di vedere come ancora potrà evolversi lo strumento “radio” ed il mercato che ci gravita attorno.
.

Nessun commento:

Posta un commento