domenica 9 marzo 2014

La mela marcia

Opera, 24 dicembre 2013
L’anniversario della strage di piazza Fontana è passato in silenzio, senza servizi giornalistici, documentari, interviste, telegrammi del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Nessuno ha osato commentare la decisione dei magistrati milanesi di chiudere le indagini sull’eccidio del 12 dicembre 1969, per apporre la parola “fine” ad un capitolo della nostra storia che il regime politico teme che possa essere letto secondo verità dagli italiani.
Il tentativo di far passare alla storia la strage del 12 dicembre 1969 come un’azione compiuta dai “nazisti” veneti, protetti da “servizi segreti deviati”, in particolare dagli uomini del servizio segreto militare, non è portato avanti dalla sola magistratura milanese che, viceversa, può contare su un numero non elevato di fiancheggiatori in particolare fra storici che preferiscono restare nell’ombra, qualche giornalista in cerca di notorietà ad ogni costo, l’immancabile reduce di guerre mai fatte, qualche difensore degli interessi della struttura clandestina dello Stato nota come “Ordine nuovo”.
Sono, tutti insieme, i classici quattro gatti che cercano di opporsi all’apertura di un dibattito serio sull’operazione che, a partire dalla visita di Richard Nixon in Italia, dal suo colloquio riservato con il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, dall’attentato contro l’ingresso secondario del Senato, a Roma, il 28 febbraio 1969 porta fino alla strage all’interno della Banca dell’Agricoltura di Milano del 12 dicembre 1969.
Incapaci di scrivere la storia al di fuori delle linee direttrici tracciate dagli uffici addetti alla disinformazione dei servizi segreti militari e civili, costoro pretendono di censurare qualsivoglia tentativo di leggere la storia del 1969 per quella che essa è stata e non per quella che lo Stato ed il regime pretendono di imporre per ovvie ragioni difensive e di tutela dei loro interessi e della loro immagine.
La banda (dei quattro gatti) è in apparenza divisa perché ognuno ha ufficialmente motivazioni diverse per aggredire verbalmente chi è impegnato e cercare e ad affermare la verità.
La magistratura milanese cerca di accreditare la “verità” di Gerardo D’Ambrosio, altri quella degli ordinovisti veneti, altri ancora quella di Avanguardia nazionale e di Pietro Valpreda.
Considerate le loro posizioni dovrebbero essere gli uni contro gli altri, invece si ritrovano uniti e compatti nel difendere la menzogna ufficiale.
Il giornalista che vuole provare ad ogni costo la responsabilità nella strage degli ordinovisti veneti si ritrova a fianco, non casualmente, di chi invece pretende di affermare l’innocenza di questi ultimi mentre i registi restano nell’ombra.
Non sanno recitare bene la loro parte, perché difatti si scoprono quando questi, in apparenza inconciliabili antagonisti, si ritrovano ad ospitare nei loro siti le invettive di un personaggio che, dopo aver trascorso la sua vita mangiando, bevendo, dormendo e defecando, si risveglia per sostenere la tesi ufficiale, quella giudiziaria e politica sull’eccidio del 12 dicembre 1969.
Non abbiamo argomenti da confutare perché costoro non ne hanno esposti, limitandosi ad aggressioni verbali che ne illustrano la statura morale ed intellettiva e provano che pretendono di difendere l’indifendibile senza avere la capacità e la possibilità di farlo.
Come tutti i tirannelli stercorari pretendono la condivisione o il silenzio.
Ma tacere non si può, neanche dinanzi a miti di carta stampata come quello di Pietro Valpreda, per la cui difesa si sono mobilitati i quattro gatti di cui parliamo.
Può sembrare paradossale dinanzi alla “verità” di comodo della magistratura ma nessuno, in questo Paese, ha mai creduto alla estraneità di Pietro Valpreda alla strage del 12 dicembre 1969.
Non ci credettero Enrico Berlinguer e i dirigenti nazionali del Pci che rifiutarono di far difendere Valpreda da un loro avvocato, preferendo affidarlo a Guido Calvi del Psiup.
Non ci crede il generale Gianadelio Maletti che al “caro Andrea” ha dichiarato che Pietro Valpreda si recò effettivamente, in base alle informazioni da lui raccolte come responsabile del controspionaggio militare, il pomeriggio del 12 dicembre 1969 all’interno della Banca dell’agricoltura di Milano recando una bomba che doveva esplodere dopo l’orario di chiusura della stessa.
Non ci hanno creduto le Brigate rosse. Il 10 gennaio 1991, Michele Galati dichiara al giudice istruttore di Venezia, Carlo Mastelloni, che Pietro Valpreda aveva partecipato all’attentato stragista, che il cervello dell’operazione era stato Delle Chiaie che era riuscito a gestire il gruppo di anarchici grazie all’inserimento in esso di Merlino “che era un suo uomo” e conclude affermando che “Rolandi aveva confermato ad uno di noi di aver trasportato proprio Valpreda. Rolandi era conosciuto in qualche ambiente della sinistra milanese”.
Si sono smentiti, perfino, i “camerati” di Avanguardia nazionale uno dei quali, rimasto coraggiosamente anonimo, ha dichiarato al giornalista Paolo Cucchiarelli che, in effetti, a portare la bomba destinata a non esplodere all’interno della Banca dell’agricoltura era stato proprio Pietro Valpreda.
Nella migliore delle ipotesi, di conseguenza, Pietro Valpreda è stato l’ “ingenuo” o se si preferisce il fesso dei fessi che abbindolato da Mario Merlino e da quelli del “Fronte nazionale” si è recato in piazza Fontana, il pomeriggio del 12 dicembre 1969, per mettere una bomba che non doveva esplodere o che doveva esplodere senza provocare vittime.
Però, ci è andato.
Noi non crediamo alla teoria del “fesso gigante”, per i tanti motivi che abbiamo esposto ed elencato senza trovare alcuna smentita da parte dei difensori di Pietro Valpreda.
Tutti sappiamo che Valpreda non ha mai avuto un alibi per il pomeriggio del 12 dicembre 1969 e che ha messo nei guai le zie e la nonna per sostenerne uno insostenibile e non credibile.
Dov’era Pietro Valpreda a Milano quel tragico pomeriggio del 12 dicembre 1969?
La storia pone domande ed esige risposte, non atti di fede in una figura grigia ed incolore che ha passato il resto della sua vita, dopo la conclusione del processo, a servire aperitivi e caffè ai clienti del suo bar.
La fiducia nel barista Pietro Valpreda è fuori luogo, in una storia come quella dell’operazione del 1969 che il potere, non i quattro gatti, non intende in assoluto far conoscere nella sua verità per esso, ancora oggi, troppo scomoda e pericolosa.
Nessun contributo alla verità è mai venuto dai componenti del circolo “anarchico” “22 marzo”, neanche dai quattro sprovveduti gatti che lo frequentavano e non lavoravano per Questura, carabinieri e servizi segreti.
Serve faccia tosta per definire il circolo “22 marzo” anarchico, invece che luogo di ritrovo di spie e spioni di ogni genere.
Ad esempio, sarebbe stato interessante sapere chi dall’interno del circolo “Bakunin” forniva a Mario Merlino i nomi, gli indirizzi, i recapiti telefonici degli aderenti a quel circolo effettivamente anarchico, ritrovati negli appunti di Guido Paglia il 10 gennaio 1970.
Chi era la “spia” di Mario Merlino e Guido Paglia all’interno del circolo “Bakunin”?
Dagli “infiltrati” del circolo “22 marzo” non ci attendiamo risposta, ma qualcuno dei quattro gatti che credevano di frequentare un circolo anarchico poteva porsi la domanda e darsi una risposta.
E quante domande e quante risposte avrebbero dovuto cercare gli strumentalizzati del circolo “22 marzo”, del gruppo degli “Iconoclasti”, che hanno viceversa preferito passare la loro vita mangiando, bevendo, dormendo e defecando convinti di essere ormai entrati nella storia come martiri ed eroi dell’anarchia.
Si sbagliavano, ed ancora si sbagliano se credono di poter interferire con la ricostruzione storica lanciando anatemi ed invettive e trincerandosi dietro le sentenze della giustizia borghese per difendere la verità dello Stato e del regime.
Non serve aggredire il giornalista Paolo Cucchiarelli “reo” di aver scritto un libro che fa testo nella ricostruzione della storia del 1969 e della strage di piazza Fontana, non importa se condivisibile in tutto o in parte perché è comunque il prodotto di una ricerca fatta con estrema serietà che pone interrogativi inquietanti e fornisce parzialmente risposte illuminanti su vari punti, ad esempio sul rapporto fra certi anarchici e i componenti della struttura clandestina del “Fronte nazionale”.
È il caso di approfondire la figurara e l’operato di Gino Bibbi, l’anarchico (vero) in contatto con l’Unione democratica per la Nuova Repubblica di Randolfo Pacciardi e con quelli del “Fronte nazionale”.
Vuole provarci il “caro Andrea“, giornalista investigativo, invece di dare voce a chi insulta il sottoscritto, colpevole di attaccare il potere?
Perché, la difesa di Pietro Valpreda è solo un pretesto che occulta la rabbia dei burattinai, alcuni dei quali non ben dissimulati come credono, dinanzi ad una ricostruzione storica che si fa sempre più precisa, articolata, stringente, che pone in risalto le omissioni e l’inadeguatezza della procura della Repubblica di Milano nel condurre un’inchiesta vera sulla strage di piazza Fontana.
Nel momento in cui si delineano le responsabilità del “Fronte nazionale”, che crolla la favola nella separazione e conseguente rivalità dei gruppi di destra – Ordine nuovo e Avanguardia nazionale – e dei rispettivi protettori – Sid e Affari riservati – pretesa da qualche insigne storico, la scomposta reazione di quattro gatti indica che la paura di quanti vedono vacillare il loro castello di menzogne è tanta.
Per noi Pietro Valpreda è solo una pedina in un gioco di portata internazionale e nazionale che ha visto i vertici politici e militari tracciare la via ed indicare l’obiettivo; i capi dell’estrema destra definire la tattica e i mezzi necessari per conseguire lo scopo; i gregari eseguire sul terreno.
Questi i tre i livelli: la strategia, la tattica e l’esecuzione.
Tutto questo scalmanarsi, sia pure solo da quattro gatti, per un barista che si è detto anarchico ma non l’ha mai dimostrato; che si è proclamato innocente ma non l’ha provato; che invece di difendere gli anarchici li ha accusati, ci appare eccessivo e, soprattutto, sospetto.
Per finire, un consiglio: quando non si ha la capacità e la possibilità di difendere un barista perché i fatti (e lo sono, ad esempio, i verbali redatti e sottoscritti da costui) non sono smentibili, al limite interpretabili in maniera più o meno intelligente, invece di ringhiare, digrignare i denti, ingiuriare è più confacente e opportuno rientrare nella mela marcia da dove si è sbucati per concludere in silenzio la propria vita mangiando, bevendo, dormendo e defecando, consolandosi a vicenda con il “caro Andrea”, accusatore degli ordinovisti veneti, e con i difensori degli ordinivisti veneti, tutti uniti nell’attacco (triviale) contro chi attacca il potere.
Vincenzo Vinciguerra
http://www.archivioguerrapolitica.org/?p=5412

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